Da qualche tempo lo scottante tema del cambiamento climatico sembra non essere più prerogativa di scienziati, ONG e qualche piccolo paese del Nord Europa che con spirito ecologista si affida a pannelli solari e turbine eoliche. Con tutta probabilità sono state le sempre più frequenti e violente manifestazioni del surriscaldamento globale (vedi gli uragani sempre più frequenti, le innondazioni e la scomparsa dei ghiacci polari) a rendere ormai improrogabile il dibattito sulle strategie comuni da adottare. Gli ultimi mesi hanno visto crescere l’interesse per l’argomento soprattutto a livello di Nazioni Unite, dove l’Assemblea Generale affronterà il problema del cambiamento climatico nel corso della 62esima sessione, in una riunione ad alto livello.
Il tema è già stato affrontato nel corso di una seduta preparatoria informale dell’Assemblea Generale tenutasi il 31 luglio alla quale sono intervenuti i maggiori esperti mondiali e durante la quale più di cento Stati Membri hanno preso la parola per illustrare la loro posizione al riguardo. Vista l’intenzione dell’Assemblea Generale di decidere secondo consenso, il dibattito non è stato acceso come avrebbe potuto essere a causa delle questioni pendenti. Tutti i rappresentanti si sono detti assolutamente preoccupati per il fenomeno, nessuno stato ha tentato di mettere in discussione il legame tra l’aumento della temperatura globale e l’attività umana e ognuno di loro ha espresso ottimismo sia per la discussione che si terrà in Assemblea Generale che per la conferenza sul clima che si terrà a Bali in dicembre. Le misure da prendere in risposta al cambiamento climatico sono di due tipi: mitigazione e adattamento. Le misure di mitigazione sono quelle che si concentrano sulla riduzione delle emissioni di gas serra e sono quelle importanti nel lungo periodo che dovrebbero essere la priorità per i paesi che inquinano maggiormente senza essere particolarmente minacciati dalle catastrofi naturali. Le misure di adattamento sono invece quelle che aiutano ai paesi minacciati di affrontare le conseguenze del cambiamento climatico e sono di fatto la priorità per molti paesi, spesso poveri, che si trovano su isole o in altre zone particolarmente minacciate.
Le dichiarazioni degli Stati hanno fatto emergere tre posizioni principali: quella degli stati più poveri e meno sviluppati, che non intendono sopportare da soli i costi legati allo sviluppo sostenibile e chiedono contributi sostanziosi ai paesi ricchi; quella della maggioranza degli stati occidentali, che hanno firmato il protocollo di Kyoto e stanno lavorando per rispettarne i parametri; e infine sono intervenuti i grandi colossi economici quali Stati Uniti, Cina e India, che non hanno firmato il protocollo ma comunque cercano goffamente di dare un’immagine ecologista di sènonostante le loro emissioni di gas serra siano destinate ad aumentare a causa della loro crescita economica.
Sempre a livello delle Nazioni Unite è in corso in questi giorni un incontro della Convenzione ONU sul Cambiamento Climatico (convenzione da cui poi è nato il trattato di Kyoto) per decidere come rendere meno dannosa possibile la produzione di 20 000 miliardi di dollari di energia prevista per i prossimi due decenni. L’occasione per questo ennesimo incontro che, come quello in Assemblea Generale, coinvolge tutti i 191 paesi membri, è stata la pubblicazione di un rapporto della Convenzione. Secondo il rapporto saranno necessari investimenti per 210 miliardi di dollari all’anno per mantenere le emissioni di gas serra a livelli attuali fino al 2030, ma il flusso attuale di investimenti e la loro volontarietà renderebbe impossibile il raggiungimento dell’obiettivo.
Il rinnovo del trattato di Kyoto, che è previsto nel 2012, è visto da alcuni come un’occasione per stabilire obiettivi più ambiziosi e possibilmente coinvolgere i paesi che ancora non hanno sottoscritto il protocollo. Questo coinvolgimento sembrerebbe più probabile per gli Stati Uniti, la cui opinione pubblica dopo l’uragano Katrina sembra essere diventata più sensibile a queste tematiche, e dove tra poco più di un anno potrebbe tornare un democratico alla Casa Bianca. Per quanto riguarda Cina e India, la strada appare ancora lunga e in salita. L’altro grosso nodo da sciogliere sarà la suddivisione tra paesi ricchi e paesi poveri della spesa del 1% del PIL mondiale che è necessario investire da subito per arginare il fenomeno.