Qualche giorno fa è passata forse troppo inosservata una notizia sulle agenzie di stampa: “l’Osservatore Romano” a 40 anni della definizione di morte basata non più sull’arresto cardiocircolatorio ma sul c.d. “criterio di Harvard” (cioè sull’encefalogramma piatto) vuole rimettere in discussione la morte cerebrale. La frase che pone una netta distinzione tra la concezione di "vita" e di "persona" che può avere un laico e quella che può avere un cattolico in linea con le idee della Chiesa, è la seguente: “l'idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo, grazie alla respirazione artificiale, è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica”.
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Secondo “l'Osservatore Romano” anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, anche se lo fa con molte riserve dato che, come è noto, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. E’ fin troppo chiaro che queste considerazioni vogliono rimettere in gioco una difesa ad oltranza della vita umana (come del resto già espresso al concistoro straordinario del 1991 dall’allora cardinale Ratzinger). Insomma, “l’Osservatore Romano” nel quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra voler riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l'accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.
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Questo accade perché la dottrina cattolica ha deciso di ritenere che il cervello non conti nulla (con buona pace di San Tommaso con le sue distinzioni delle forme di vita vegetale, animale e razionale); la persona è identificata come totalità del suo organismo. Ma la cosa, come vedremo, non è così pacifica: molti pensano che noi siamo il nostro cervello ed il nostro cervello siamo noi. In effetti, se dopo un incidente gravissimo una macchina potesse tenerci in vita dal collo in su, pur avendo perso il 95% del resto del corpo ciascuno di noi resterebbe con il proprio “io”, ragionerebbe come prima, avrebbe le stesse cognizioni di prima, riconoscerebbe i propri parenti, potrebbe addirittura completare un'opera precedentemente iniziata. Ci sono dati clinici incontrovertibili che lo dimostrano e dati pratici come la vicenda del "miracle man" Peng Shulin che ha perso il 70% del corpo e vive ancora alimentato dalle macchine, recentemente riesce persino a deambulare tramite speciali stampelle.
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Il problema nasce dal fatto che in realtà non c'è coincidenza tra vita biologica e vita dell'io, né alla fine della vita biologica, né al suo inizio poiché si osservano processi molto complessi di cui si possono fare descrizioni varie che però non sono mai neutre dal punto di vista etico. Se la morte cerebrale (cessazione dell'attività elettrica del cervello) è la morte di un solo organo (e non di tutto l'organismo) allora la morte biologica vera è il destino a cui il morto cerebrale andrà inesorabilmente incontro se non si interviene ad oltranza con gli strumenti di cui oggi i reparti di rianimazione dispongono. Di conseguenza che si stacchino i supporti o che si facciano espianti, la morte vera dei c.d. “morti cerebrali” interverrà in seguito alla decisione (presa da terzi) di farli morire veramente. Anche un embrione certamente non è un “io”: non c'è traccia di attività elettrica cerebrale prima della 10°-12° settimana di gravidanza ma non possiamo certo dire per questo motivo un embrione sia da ritenersi morto.
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Dunque se ciò che conta davvero è l'io, vuol dire che non possiamo più gestire le questioni bioetiche con strumenti superati quali il principio di inviolabilità della vita umana (biologica). Invece, non avendo il coraggio di mettere in discussione il quadro etico, cerchiamo di ridefinire i confini della vita biologica come un elastico: spostandone un po' più avanti l'inizio per consentire la ricerca sulle staminali e un po' più indietro la fine, per permettere gli espianti.
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D’altra parte non possiamo neppure dire che un paziente è cerebralmente morto se presenta un elettroencefalogramma piatto, cioè che ad un esame neurologico non dà alcun segno di funzioni cerebrali, nessuna risposta al dolore, nessun riflesso dei nervi cranici. Non possiamo dirlo perché una tale condizione può essere presente non solo in organismi non evoluti completamente (feto) ma anche in organismi evoluti e "fermati" (ad esempio una pesante anestesia può generare le stesse condizioni di elettroencefalogramma piatto). Quindi sarebbe necessario definire la morte come la condizione di totale irreversibilità di tale stato, ossia una condizione che permane dopo tutti i possibili tentativi di rianimazione protratti per un tempo “ragionevole”. In tal caso, la condizione in cui si trova un uomo con arresto cardiaco oppure in anestesia pesante oppure ancora il feto non sviluppato, sono invece condizioni reversibili. Ciononostante non è affatto detto che questa distinzione sia la base migliore su cui costruire una teoria relativa alla liceità dello spegnimento delle macchine. A parte la difficoltà di attribuire un significato univoco al concetto di tempo ragionevole per i tentativi di rianimazione, dire che una certa condizione medica è “irreversibile” ha comunque una valenza relativa e non assoluta: non è una verità matematica come dire che “tutti i numeri pari sono divisibili per due”. Quindi se una condizione medica irreversibile non è altro che una valutazione di probabilità , per quanto essa sia quasi certa, resta sempre una probabilità : irreversibile al 99,99% significa che esiste la probabilità 1-0,9999= 0,0001 che la condizione sia reversibile. Di più, questa apparentemente piccola probabilità significa in realtà che su 10 mila casi, mediamente uno è reversibile! Basterebbe soltanto questo per poter giustificare sia la scelta di mantenere il soggetto in sospensione crionica sia quella di fargli un funerale. E’ chiaro che la questione se il soggetto sia da ritenersi morto oppure no diventa un argomento metafisico: una persona non è “morta” fintantoché contenga anche solo una cellula viva o che possa essere riattivata.
Il confine etico di fine-vita indicato (irreversibile impossibilità di recuperare l'io) si giustifica con l'argomento che il valore sta nella vita dell'io (o della coscienza): se la vita biologica avesse valore in sé il c.d. morto cerebrale (e a maggior ragione il c.d. morto corticale, cioè ad es. quello in stato vegetativo permanente come il caso di Eluana Englaro), pur non potendo più recuperare l'io, andrebbe fatto vivere ad oltranza, perché non è per nulla morto come organismo. D’altra parte, se diciamo che l’aborto non è giustificabile proprio perché il feto è un organismo in fase evolutiva che sta sviluppando la sua coscienza, come si giustifica l'adozione di un criterio all'inizio della vita e di un altro differente al suo termine? Perché, mentre alla fine conta l'io, all'inizio il valore sarebbe invece nel mero materiale biologico in evoluzione, a prescindere dall'io? La risposta non può essere che l'embrione ha la potenzialità di diventare un io (mentre in morto cerebrale non ha più questa potenzialità ) giacché questo imporrebbe di attribuire un diritto alla vita a tutto ciò che ha la potenzialità di diventare un io, quindi anche all'ovulo non fecondato, o alla potenzialità  di ogni singola cellula umana adeguatamente trattata. Del resto, quella dell'embrione non è una condizione di io reversibile (come nel caso del coma) quanto piuttosto quella di un io mai acquisito. Prima di diventare un io una persona fa parte di un processo biologico cieco con il quale non può identificarsi; d’altra parte, neppure ciò che non è mai stato un io può di fatto avere alcun interesse perché qualunque interesse di per sé presuppone l’esistenza di un io. Dunque è l’io il vero orizzonte, il vero confine di quello che intendiamo per vita dotata di senso.
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Giunti a questo punto, è facile intuire perché le gerarchie vaticane non vogliono essere confinati in Chiesa e perché Benedetto XVI in persona auspica nuove generazioni di politici per "evangelizzare". La risposta è che il cattolicesimo offre un sistema di senso influente, con figure, simboli e allegorie imponenti e un magistero sul “valore” che non ha concorrenti. Identificando la persona con un misterioso fuoco fatuo che aleggia intorno al corpo fino all’ultima cellula viva fosse questa del cervello o di un’unghia incarnata, si ha un gioco facile: l'anima è ciò che pensa, il cervello è l’antenna e il corpo la "stazione ricevente". Semplice ed efficace. Quando la stazione ricevente funziona male, la trasmissione resta identica, ma dall'altoparlante escono solo rantoli affannosi senza senso. Il che tra l'altro implica l'idea largamente perlustrata in letteratura, dell'anima imprigionata dal cattivo funzionamento del corpo che non può esprimersi normalmente ma non può neppure andarsene, perché appunto il corpo è ancora "vivo". Una teoria semplice che evita tutta la lunga pappardella di ragionamenti fatti anteriormente sui confini dell’etica. Una teoria però, che a pensarci bene, miete paura, come un film del terrore, alla Boris Karloff, sconsigliabile ai bambini e adulti impressionabili.
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