Caro Direttore,
ignoro le ragioni del ritardo di cui sono stati accusati il ministro Bondi e il governo per quanto concerne la celebrazione del 150 anniversario dell’unitĂ nazionale. Se esse risiedessero in quelle indicate sul “Corriere della Sera”, dagli amici e colleghi Ernesto Galli della Loggia e Piero Craveri, al contrario di loro, le troverei ragionevoli e condivisibili.
Â
Due studiosi di area liberal-democraticaa come Galli e Craveri non possono ignorare che l’identitĂ nazionale e la storia di essa nella storiografia italiana non è, e non è mai stata, scontata. Dunque, non è mai diventata un valore condiviso nel quale l’intera comunitĂ nazionale si possa , e debba, riconoscere.
Â
Rispetto alla Francia, all’Inghilterra e alla stessa Germania, da noi c’è stata una prolungata campagna, da parte delle classi dirigenti e dei cosiddetti “apparati ideologici di stato”, come diceva Althusser, per imporre quella che Hobsbawm e Rangers chiamarono l’ “invenzione della tradizione”. Come dire, l’idea che la domanda di uno stato unitario, fosse stato un sentimento nazionale almeno dal Medioevo in avanti.
Â
Sul trittico delle immagini di Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini, come metafora di una collaborazione e di un sentire nazionale unitario, una grande campagna di imbonimento venne scatenata dai “persuasori” ministeriali dei governi post-unitari. Ma non hanno prevalso sull’immagine di un’Italia plurima (le “due Italie” illustrate da Salvemini a Bobbio), cioè di una comunitĂ spaccata, conflittuale, irriducibile ad uno schema unitario. Dunque non esiste, o esiste a brandelli, un valore condiviso di nazione.
Â
Il governo farebbe bene a non cambiare le carte in tavola, riconoscendo che questa identitĂ manca. Da Piero Gobetti e Guido Dorso fino ai sostenitori dell’”antistoria d’Italia” ( Cusin, Colamarino, ma anche Maranini ecc.), alla destra cattolica e soprattutto alla corposa contestazione svolta dalla storiografia marxista nel secondo dopoguerra è stato un martellare continuo sui limiti dell’unificazione nazionale, sull’esclusione della maggioranza della popolazione. Una borghesia dagli interessi ristretti,al servizio di una monarchia (quella sabauda) meno colta e cosmopolita di quella dei Borboni, avrebbe dati vita ad uno o stato accentrato e autoritario, che alla costruzione del consenso popolare ha preferito la politica del sermone, cioè intessuta di prediche e imbonimenti pedagogici.
Â
Con una politica fiscale selettiva avrebbe alimentato un’indutrializzazione forzata e creato una classe operaia corporativa, costringendo i contadini, non solo del Sud, ad una massiccia emigrazione, per poi aprire la strada al fascismo. La tiritera continua denunciando l’alleanza  con l’imperialismo anglo-americano, le complicitĂ con mafia, camorra e servizi di intelligence per disfare la trama del regime repubblicano.
Â
Al di là di questa caricatura della storia nazionale (che in ogni occasione i servizi televisivi di Carlo Lucarelli e in parte dello stesso Giovanni Minoli ribadiscono invitando i loro amici) non è andata la storiografia di sinistra.
Â
Quando ha dovuto fare i conti con le proposte di riforme istituzionali per creare uno Stato moderno, avviate a fine secolo da Sonnino e nel secondo dopoguerra da Craxi, per il primo si è parlato di “colpo di stato della borghesia” e per il secondo di presidenzalismo funzionale agli interessi di Licio Gelli ed della P2!
Â
Degli interpreti di un’Italia “diversa”, “civile” come diceva Bobbio, quali sono stati i radicali, si è sempre voluto fare a meno, oscurandoli anche quando sono stati considerati alleati di governo.
Di che ci si lamenta dunque?
Â
Anche in campo liberale le cose non sono migliori. Al liberalismo dal respiro europeo di Cavour, Sonnino, Fortunato, Villari ecc. ha fatto seguito il liberalismo statolatrico, di origine germanica, di Vittorio Emanuele Orlando. Non aveva nulla a che fare con gli ideali liberali europei di Cavour che si richiamava a Constant e a Bentham.
Â
La politica come mediazione e compromesso di Giolitti ha sconfitto l’idea del partito liberale di massa di Sonnino, che offrì ai contadini poveri e analfabeti il diritto di voto, prima dei socialisti, e la partecipazione agli utili delle imprese.
Â
 Il liberismo di Pareto, Papafava, Antonio De Viti De Marco, e il gruppo radicale avant la lettre raccoltosi intorno al “Giornale degli economisti”, ecc. ha dovuto cedere il passo al protezionismo e ai monopoli.
Â
L’intero gruppo dirigente de dell’Italia liberale è passata al fascismo senza traumi. E senza bisogno di essere malmenata dagli squadristi fascisti.
Â
Quale identitĂ riformista ha lasciato in ereditĂ il Pci con la usa ostilitĂ nei confronti del modo di produzione capitalistico, l’odio per l’impresa, l’esaltazione dl conflitto tra capitale e lavoro, insieme alla lunga subordinazione agli interessi dell’Unione sovietica?
Â
Non molto incoraggiante è la vicenda dei cattolici. Invece che attestarsi sulle posizioni di Sturzo e De Gasperi sono diventati catto-comunisti, condividendone il destino nelle file dell’ex Pci.
Â
Dove risiede l’identitĂ nazionale, i valori condivisi che il governo, secondo Galli, Craveri e Buttafuoco avrebbero tardato a riconoscere e celebrare? Continuano a esistere, e a combattersi, “due Italie”, quella liberale-radicale-riformista e quella catto-comunista. E’ bene che convivano, ma anche che restino distinte. Che i morti seppelliscano i loro morti.