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  domenica 26 marzo 2006
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Attualità del liberalsocialismo di Capitini nel carteggio con Guido Calogero

di Francesco Pullia

Dopo la pubblicazione, nel 2007, del carteggio di Aldo Capitini con Walter Binni e, nel 2008, con Danilo Dolci, l’uscita adesso delle Lettere 1936-1968 con Guido Calogero (sempre Carocci editore, pp. 617, € 64,00) conferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’originalità e l’anomalia dell’elaborazione filosofica e politica del pensatore perugino.

 

Per rendersene conto basti pensare all’arricchimento apportato alle tematiche gandhiane derivate in lui dalla frequentazione, verso la fine degli Venti, nel periodo degli studi alla Normale di Pisa, di Claudio Baglietto e saldamente innestate all’interno di un approccio etico kantiano.

 

In un momento storico in cui, in un’Italia inebriata dalla retorica clericofascista, non pareva esserci nulla di meglio delle varianti hegeliane rappresentate dall’attualismo gentiliano e dallo storicismo in salsa crociana, Capitini, quasi fosse stato un extraterrestre, parlava di nonviolenza (insistendo, tra l’altro, sulla grafia unitaria del termine per sottolinearne l’aspetto propositivo, costruttivo, e non semplicemente negatore di una condizione), di liberalsocialismo (in un modo del tutto autonomo ed estraneo da quello di Carlo Rosselli), di società aperta (ben prima di Popper), di religiosità laica, cioè di esperienza religiosa in senso non confessionale e antistituzionale, di aggiunta e compresenza dei morti e dei viventi, chiamando da un lato a concorrere all’azione sociale anche i malati, gli assenti, coloro che vengono brutalmente bollati dal sistema come improduttivi, e rimarcando dall’altro la continuità e il rinnovamento del passato, della memoria, nel presente.

 

Nonostante ne stimasse le elevate qualità morali e speculative, Giovanni Gentile, in qualità di rettore della Normale, fu infastidito dalla sua scelta vegetariana, maturata anche come opposizione interiore al fascismo e considerata a quel tempo come una novità scandalosa e sovvertitrice, e non accettò il suo rifiuto a giurare fedeltà al regime. Così, nel gennaio 1933, Capitini dovette prendere le valigie e tornarsene alla natia Perugia cominciando a farsi subito suscitatore di coscienze, propugnatore di una rivolta antifascista di natura, innanzitutto, morale.

 

Lo scambio epistolare con Guido Calogero, con cui diede vita nel 1937 al Manifesto del liberalsocialismo e successivamente ad un apposito movimento, mostra quanto sia stata importante e anticipatrice l’analisi avviata dai due filosofi e la dice lunga sulle convergenze, ma anche sulle differenziazioni, tra la matrice dichiaratamente religiosa capitiniana, con la sua visione sociale omnicratica basata sull’apertura al Tu-Tutti, sulla democrazia diretta, e quella più pedagogico-normativa calogeriana.

 

Dal notevole lavoro di spoglio e ricerca biobibliografica accuratamente svolto, per conto della Fondazione Centro Studi Aldo Capitini, dai curatori Thomas Casadei e Giuseppe Moscati, coordinati dal prof. Mario Martini, emerge un’impressionante rete di contatti che attesta non solo quanto e come il liberalsocialismo, specialmente nel dopoguerra, sia stato sì minoritario rispetto alle culture cattolica e marxista ma nient’affatto marginale e abbia ancora molto da esprimere. Fedele ad un’azione politica partecipativa, con la creazione dei COR (Centri di orientamento religioso) e dei COS (Centri di orientamento sociale), Capitini, cui si deve tra l’altro l’impulso decisivo alla battaglia per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, teneva a smarcarsi dalla tradizionale forma-partito preferendo a questa un modello flessibile, non irrigidito, federativo.

 

Sono sempre più”, scrive nell’agosto 1949, “per strutture autonome-federali-dal basso”.

Si leggano, in questa direzione, le lettere inviate ad Ugo La Malfa e ad altri esponenti del Partito d’Azione in cui ribadisce la sua estraneità ad una politica del tatticismo, compromissoria (“ad essere partito”, annota nel marzo del 1945, “c’è il pericolo (…) di venire poi ad accordi tattici rovinosi”). E non è un caso che, per la sua persuasione nella e dalla forza della verità, Capitini sia stato ostracizzato dalla doppiezza di clericali e comunisti, con il loro contorno partitocratico. Non sono poche, nel libro, le lettere da cui trapela amarezza per i continui ostacoli posti alla sua docenza universitaria. Emblematica e vergognosa la vicenda della sua estromissione dall’Università perugina per stranieri, di cui nel biennio 1946-1947 fu commissario straordinario, così come quella relativa all’ottenimento di una cattedra al Magistero sempre del capoluogo umbro.

 

Fu deriso, sminuito, ridicolizzato da cattedratici poco intellettuali e molto “organici”, vanitosamente asserviti a nauseabonde logiche spartitorie. Ma a differenza della maggior parte di loro, incapaci non tanto di muovere quanto persino di avere ali, è riuscito a consegnarci un patrimonio che, con il passare del tempo, si rivela sempre più prezioso e compresente. Spetta a noi non disperderlo.Â