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  domenica 26 marzo 2006
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Giustizia: carceri allo sbando c’è bisogno d’un pensiero nuovo

• da “Corriere Cesenate”

di Rosa Alba Casella (Direttrice Casa Circondariale di Forlì)

Il Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno ha ricordato che nelle carceri sovraffollate del nostro paese "non si vive decentemente, si è esposti a rischi ed abusi e di certo non ci si rieduca".

 

Poche e semplici parole, che descrivono in modo molto eloquente la realtà degli istituti penitenziari in cui sono reclusi oltre 65.000 detenuti su 44.000 posti disponibili, ammassati in due o in tre per cella, spesso di dimensioni inferiori a quelle previste (9 mq per ciascun detenuto) e chiusi 20 ore su 24: una discarica che raccoglie quelle fasce di popolazione di cui la società opulenta non riesce o non vuole farsi carico, cioè immigrati, tossicodipendenti, poveri, disoccupati.

 

Il sovraffollamento, che secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo equivale a trattamento disumano, incide negativamente non solo sulle condizioni di vita dei detenuti, ma anche sulla funzione rieducativa che la pena detentiva dovrebbe avere. La limitazione degli spazi vitali, infatti, aumenta innanzitutto la frustrazione e l’aggressività verso se stessi e verso gli altri e in definitiva la chiusura verso gli interventi trattamentali.

 

In secondo luogo aumenta il rischio del contagio criminale per effetto della coabitazione forzata, che spesso può comportare la convivenza tra il recidivo e il giovane alla prima esperienza detentiva: è, infatti, impossibile la separazione dei detenuti a seconda dell’età, del crimine commesso, dello stato di salute e della posizione processuale, pur raccomandata dalla legislazione internazionale.

 

In terzo luogo riduce gli spazi fruibili per le attività culturali, ricreative e sportive, oltre che le opportunità lavorative. Il carcere attuale è quindi il fallimento di quello disegnato dalla legislazione vigente. Piuttosto che finalizzato alla rieducazione, così come prevede l’art. 27 della Costituzione, imprime un marchio indelebile e olia il meccanismo della porta girevole, che ben illustrano le statistiche sulla recidiva: il detenuto, infatti, provato fisicamente e psicologicamente, privo di lavoro e degli affetti, dopo anni di inattività viene rimesso in libertà come un essere diventato superfluo e destinato quindi a tornare in carcere. Non a caso Bauman sostiene che per un ex detenuto il rientro alla società è quasi impossibile e il ritorno in galera quasi certo.

 

Negli ultimi mesi dell’anno si è parlato di piano-carceri per aumentare il numero dei posti disponibili, addirittura di carceri-galleggianti. Alcune storie di detenuti hanno conquistato le cronache, ma poco o troppo poco si è detto delle condizioni di vita dei ristretti, che il cardinale Tettamanzi ha di recente definito "uno squallore intollerabile".

 

Eppure questo carcere sembra l’unica risposta possibile alla richiesta sempre maggiore di sicurezza sociale. Anche se ammala: alcuni studi in materia dimostrano che la detenzione prolungata provoca psicosi, nevrosi, allucinazioni. Anche se dall’inizio del 2009 a oggi i morti all’interno sono stati 175, di cui 72 per suicidio; anche se gli atti di autolesionismo su cui, peraltro, non ci sono statistiche, sono spesso il solo mezzo di comunicazione con l’esterno di chi è rimasto senza voce.

 

Quanti sosterrebbero la carcerazione se sapessero che un detenuto costa 148 euro al giorno? Se sapessero che la disperazione in galera porta ad una percentuale di suicidi più alta che all’esterno? Quanti sarebbero disposti a rivedere i propositi di vendetta se conoscessero l’impatto della detenzione sulla famiglia ed i figli? Il problema non è scegliere tra la sicurezza sociale e la rieducazione: le statistiche dimostrano che il livello di carcerazione non dipende dai tassi di criminalità, ma da fattori sociali, culturali, economici e politici. La politica di criminalizzazione, che dimentica la solidarietà sociale, l’integrazione, la comprensione e asseconda l’individualismo, l’esclusione e la coercizione non risolve i problemi della sicurezza, come dimostra l’esperienza degli Usa.

 

È necessario che la pena mantenga la finalità rieducativa per dare a chi ha sbagliato una seconda possibilità. Perché in ogni uomo c’è un lato oscuro che costituisce parte integrante della propria personalità, di cui prendere coscienza per controllarlo. Perché i sistemi repressivi scatenano i peggiori istinti dell’uomo, quali aggressività, rabbia, odio e vendetta, violenza e spietatezza e il dolore evitabile, anche se legale, inflitto per forza, difficilmente rende migliore l’uomo (Martini). Perché le statistiche dimostrano che se la pena viene espiata sul territorio, sotto il controllo del servizio sociale, vicino alla famiglia i tassi di recidiva si riducono (19% ).

C’è bisogno di un pensiero nuovo rispetto a quello per antinomie che si escludono a vicenda: il bene e il male, i buoni ed i cattivi, noi e loro, in cui gli opposti non si escludono a vicenda, ma come poli di un tutto unitario si condizionino reciprocamente.