La Giustizia è il frutto dell'applicazione del principio di legalità ? O va oltre? Oppure, addirittura, ne è una precondizione? Un partito politico che si nomina nonviolento e mira all'affermazione della democrazia, come il (transnazionale e transpartito) Partito Radicale si trova a dover dirimere questa questione, che costituisce per molte ideologie un'aporìa, un'impossibilità intrinseca derivante da una contraddizione.
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Ciò che non è mai aporia per le ideologie “pure” (spesso monoreferenziate, vedi “i diversi, Libri” ed autoreferenziate quanto al possesso dell'unica Verità per il soccorso e la necessarietà  di un atto di fede, un atto non necessariamente ed esclusivamente razionale cioè, è, per un approccio laico e religioso ma non clericale, come il nostro, un ripido passaggio necessario, un nodo da sciogliere razionalmente facendo ricorso solamente al Logos/Ragione ed a tutti i suoi contributi nella storia.
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E' “giusto” solo ciò che viene confermato tale a mezzo di un giudizio legittimo,quindi? I Principi dello Stato di diritto sembrano assumere questa accezione, questo “volto” della giustizia; in cui è convenzionalmente definito da una serie di procedure basate sul diritto ciò che non può essere condannato, distinguendolo da ogni atto che tale sanzione di condanna pretende per la regolazione della convivenza più pacifica di una popolazione. Così è giusta ogni differenza possibile fra i suoi componenti, se giustificata dalla testimoniata assenza di pratiche illecite per conseguirla e mantenerla. Il liberismo politico ed economico, il mercato, si basano su quest'idea di giustizia.
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Per altri è invece giusto od ingiusto solo ciò che risponde a Principi di fondo di un sistema di valori e di credenze, inalterabile per mezzo di un atto d'intervento umano, perchè originantisi in una morale che trascende l'umano. Nel Divino, che può essere rappresentato da una legge universale piuttosto che da una rivelazione.
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Ratzinger, oggi, lancia la sua critica sostanziale all'economia ed al liberismo, oltre che al mercato: unisce tutto in una critica al Relativismo Nichilista, cui contrappone una verità assoluta sottratta ad ogni disconferma, schermo totale, ribattuto con i dogmi, contro ogni “assalto al Cielo”, ogni nuova “Hybris”.
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C'è un punto di contatto, uno snodo, un cardine comune che collega il mondo della Fede a quello della Ragione, esile, mite ma tenacissimo: la nonviolenza. Essa trae la sua stessa essenza di dottrina civile dalle tradizioni religiose, ma le trascende poi in termini di conquistata legittimità ad assumere per l'uomo la totale responsabilità del proprio destino di persona, di popolo, e di specie.
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Gandhi, e soprattutto Tolstoj che, da cristiano ne ha inizialmente sollecitato le riflessioni di erede di una cultura antichissima e non cristiana, affermano non contro una verità religiosa, ma contro ogni menzogna coperta di sacralità dalle gerarchie sociali dominanti, il primato della verità ricercabile e raggiungibile mediante uno sforzo umanamente non impossibile.
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Hanno chiamato nonviolenza il percorso, la via per conseguire il risultato di basare sulla verità accettata da tutti la condizione stabile della pace fra gli uomini (non come “non guerra” così come lo presumerebbe una semplice sospensione della e dalla violenza, ma come qualcosa che è intrinsecamente sottratto alla violenza come ad un possibile e necessario ricorso). Dal riscoperto comandamento Tolstojano di “non resistenza al malvagio (al Male)”, deriva anche l'Ahimsa gandhiana con tutte le sue prassi.
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Comune ad entrambi è il concetto base del doveroso astenersi dall'uso della violenza contro chiunque, innocente o colpevole, si ponga in opposizione a sé, ai propri bisogni, anche ai propri diritti; “Innocente o colpevole“, mosso, quindi, giustamente od ingiustamente, da motivazioni che si esprimano in violenza rivolta verso chiunque altro.
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Il grande russo, giunge a riconoscere la verità nella non resistenza al Male pur riconosciuto come tale. Gandhi, anch'egli, vieta di opporre violenza ad ogni violenza perpetrata su di noi, rivolgendo piuttosto le conseguenze dolorose dell'aggressione ingiusta verso di sé come modo di rendere palese all'aggressore l'ingiustizia del suo agire dopo aver fatto leva sulla verità  indelebilmente iscritta nell'animo umano.
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Tolstoj porta all'estremo il suo concetto di giustizia deprivando di credibilità ogni forma sovrastrutturale della sua “amministrazione “in nome dell'interesse della società . E' radicale quando nega che un uomo costituito dalle stesse passioni e motivazioni di un altro possa ergersi a suo giudice (il non giudicare, e non condannare, costituisce quasi una delle porte bronzee su cui si dà accesso alla verità fatta per essere la prassi dell'umanità . Con il conseguente divieto morale, fra altri, di essere, oltre che giudice, anche semplice giurato o partecipe qualsiasi del rito processuale in ogni sua variante).
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E' questa la giustizia compatibile con le conquiste del processo di sviluppo civile dell'umanità , con la stessa forma della Democrazia liberale di cui il Giudiziario costituisce un Ordine o un Potere indispensabile? E' doveroso dubitarne. Al posto di questa giustizia starebbe piuttosto quel senso sepolto nella coscienza umana e pian piano affinato in diverse, sempre più attuali, sensibilità che è più corretto individuare come “coscienza”. Sembrerebbe una regressione verso la visione Creazionista e quindi verso una relazione creatore/ creatura, in cui alla seconda non spetterebbe che seguire gli indirizzi e le sollecitazioni del Primo, unico, inappellabile giudice, purtroppo attivo solo a mezzo di suoi rappresentanti.
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Tolstoj, ed è questo forse il nocciolo del tormento che ha accompagnato la sua lunga e magnifica esistenza, sembra quasi restituire a monte ciò che contestava a valle, ovvero l'autorità morale dell'accertamento della verità nel giudizio da riservare alla Gerarchia.
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Ma , è, forse, più profondo il livello su cui si muove la scoperta del principio- guida per la pace della non resistenza. Esso risiede nel tentativo di restituire del tutto all'individuo la libertà di giudicare e distinguere il suo bene dal suo male; che se esteso e condiviso da tutti renderebbe superfluo il ricorso stesso ad un giudice che non avrebbe nulla da dirimere fra persone autoregolate e soddisfatte (quindi, davvero beate).
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Se il malvagio non incontra resistenza ma riceve in cambio della propria cattiva azione una testimonianza di bene dalla sua vittima, egli non sarà portato (se non come perversione del bene riconosciuto) a reiterare meccanicamente azioni di aggressione per lo spossessamento di altri a proprio favore (riguardi questo beni, salute, felicità ...); il suo limite di malvagità sarà prima o poi raggiunto, al punto in cui all'azione non corrisponderebbe più una risposta che valga anche per lui come automatica sua giustificazione.
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Al momento in cui il dolore inflitto non producesse più piacere, diverrebbe un non senso, infatti. Ma, soprattutto, il nuovo precetto, renderebbe possibile il convivere e l'intersecarsi di piani di motivazioni, bisogni e desideri, altrettanto potenzialmente “diversi”, almeno quantitativamente per ciascuno, quanto uguali qualitativamente poiché espressione dei comuni identità  e destino di essere umano. La violenza si esaurisce quando perde il proprio bersaglio da colpire e non ritrova barriere da rovesciare. Come l'onda non si riavvolge rovinosamente su di sé ma si quieta con tanta maggiore dolcezza tanto è poco ripido il declivio che deve risalire E' il modo di rendere l'universale esigenza di giustizia nella non discriminazione di alcun eccesso, nell'infinita eterogeneità dei suoi volti possibili, multipli, mutevoli, cangianti. Non esiste un protocollo del valore prestabilito di ogni cosa per ciascun uomo, anche se, ed è questa la menzogna, ogni sforzo viene compiuto strumentalmente dai “soliti, poveri violenti” per convincerci del contrario.
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Solo così si rendono compatibili un volto della giustizia democratica, progressiva e moderna, che pretende una libertà convenzionalmente garantita regolata da leggi, con l'altro, archetipo, ortodosso, millenarista che pretende da ciascuno la rinunzia ad ogni “vero”confronto con sé da sostituire con l'accettazione del “Vero”, in un'attesa che sarà necessariamente disperata per tutti.
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La statua dell'isola di Elephanta di fronte a Mumbay conserva in una grotta la gigantesca testa della Trimurti Hindu scolpita in tre volti, coesistenti . Sembra un concetto complesso (quello trinitario, comune a molte fedi) reso con semplicità , addirittura con apparente ingenuità .
Ma non è nulla l'espressione di tale complessità , se messa a confronto con la possibile, pur se irriconoscibile dall'esterno, quasi illimitatamente estensibile, poliedrica identità umana.
A mezzo del comune tramite, non potremmo tendere a riconoscere una giustizia meglio condivisibile, Vostra Santità ?