I BARBARI SONO TRA NOI 3)
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Gli uomini di sinistra, quelli che denunciano il riformismo del PCI senza, peraltro, risolversi ad adottare la violenza rivoluzionaria, che comportamento assumono in questa circostanza?
Gli uomini di sinistra, lo si sa, in fondo non sono altro che dei cattolici vecchio stile, fanatici, funebri, e non lo sanno…E’ stato veramente un peccato che la chiesa cattolica abbia avuto una così gran fretta ad aggiornarsi secondo i gusti correnti. Se essa si fosse trincerata dietro la sua autorità , se fosse ridiventata chiusa e spietata come ai tempi di Filippo II, dell’Inquisizione, della Controriforma, quelli di sinistra l’avrebbero adottata in numero sterminato, perché il loro più grande desiderio è quello di proibire, di portare l’Inquisizione ovunque…Oggi, in Italia, gli uomini di sinistra si danno un gran daffare per arginare il processo di decomposizione del quale soffrivamo già prima dell’affare Moro. E’ anche possibile che ci riescano. E’ anche possibile che ritornino di moda, soprattutto se il PCI persevera nella sua politica di “compromesso”.
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Una volta lei ha paragonato la DC e il PCI ai due teologi di cui parla Borges, che si erano odiati per tutta la vita prima di scoprire, nell’Inferno, che avevano abitato la stessa anima…
E’ vero. Sono convinto che un giorno democristiani e comunisti arriveranno a capire che l’Inquisizione, lo stalinismo, abitano la stessa anima. Forse la DC sarà la prima ad accorgersene, e rendendosi contro che non c’è abbastanza spazio per due nella stessa anima, si deciderà finalmente a cacciare il PCI. Oggi ad ogni modo la DC ha completamente in mano il gioco politico. E la cosa rischia di andare per le lunghe.
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Il suo pessimismo è veramente così puro? Dopotutto l’eroe del suo ultimo libro si chiama “Candido”…Non è strano, per un uomo come lei, ricorrere a questo personaggio volterriano, che non la finiva mai di propinare al prossimo formule di felicità ?
No, veramente non è così strano come sembra. Attraverso questo moderno Candido ho voluto inventare una formula di felicità che consisterebbe nel “coltivare” la propria testa piuttosto che il proprio giardino; di fidarsi più di quello che noi pensiamo, piuttosto che di quello che gli altri pensano per noi e non cercare di ridare la vita a cose morte…
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Cose morte…ossia?
Il marxismo, per esempio, questo cadavere gigantesco, questa carogna che fa marcire la testa di quelli che non osano pensare. Da un’infinità di tempo infatti tutti sanno che il marxismo è morto, ma, in Italia, tutto accade come se i morti potessero parlare. Prima si è accennato a Candido. Quanto a me preferisco parlare di Pangloss, quel miserabile Pangloss che, al cospetto di un carnaio, osava dire, in nome di tutta la filosofia della storia, che tutto è per il meglio nel migliore dei modi…Oggi Pangloss sarebbe marxista se all’epoca di Voltaire era leibniziano. Secondo Pangloss la felicità è proprio come l’immaginano gli intellettuali. Una felicità di idee, una felicità promessa, anche se questa promessa passa per l’Inferno.
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Per Dante l’Inferno era assai più interessante del Paradiso…
Anche per me, purtroppo, ed è per questo che ne parlo così spesso.
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La Sicilia, la sua Sicilia – senza la quale, lo dice lei, non sarebbe mai stato scrittore – è forse una delle raffigurazioni possibili di questo Inferno?
Il mio rapporto con la Sicilia appartiene più all’ordine del risentimento. Io sono nato in questa terra e la vivo come una sofferenza, senza amarla, forse, ma al di là dell’amore che tanti siciliani pretendono di avere per essa. Da quando scrivo non faccio che parlare del potere, della Chiesa, del fascismo e, in maniera diffusa, di tutte quelle attitudini “mafiose” della classe politica italiana. Da questo punto di vista la Sicilia era assai marginale in rapporto all’Italia, lo stesso rapporto dell’Italia col resto dell’Europa. Ma oggi è a Bruxelles che si decide il numero delle vacche che dovranno partorire nella campagna di Siracusa o di Agrigento…
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La Sicilia di cui lei parla rassomiglia più a quella del “Gattopardo”, sono pochi gli aristocratici lucidi e scettici…non se ne incontrano molti.
A me è sempre parso che la Sicilia descritta da Lampedusa nel “Gattopardo” non sia altro che un’astrazione geografica e climatica sottratta al tempo e alla storia. Quella Sicilia abitata da scettici e aristocratici ha forse dato modo a Lampedusa di scrivere un bel libro, ma se Stendhal avesse avuto il tempo di fare quel viaggio in Sicilia che tanto aveva desiderato, avrebbe potuto scrivere quel libro con l’anticipo di un secolo…
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Perché lei dedica uno dei suoi libri “Recitazione della controversia liparitana”, la cui vicenda si svolge nella Sicilia del XVIII secolo, ad Aleksander Dubcek?
La Sicilia del XIII secolo cercò di inventare la libertà più o meno come ha fatto la Cecoslovacchia al tempo della “primavera di Praga”. Quando nel 1712 gli spagnoli lasciarono la Sicilia si poté assistere alla nascita di una classe parlamentare laica e liberale. Quei borghesi fecero molte cose per la libertà ,ma ebbero troppo poco tempo, visto che sette anni dopo, nel 1719, gli spagnoli tornarono con la loro Inquisizione. Tutto ciò non rammenta qualcosa?
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Dopo quella “normalizzazione”cosa è diventata la sua Sicilia?
Da allora, in Sicilia, come nel resto d’Italia, il potere divenne invertebrato, diffuso, e di conseguenza, infinitamente perfido. Lo Stato non è altro che una piovra e la mafia, in Sicilia, conta sempre, tra i suoi tentacoli, i più efficaci. Sì, la mafia, la cui semplice etimologia contiene la storia intera della Sicilia. Un dizionario del 1868 registra la parola come un neologismo importato in Sicilia dai piemontesi, al seguito di Garibaldi…Ma forse proviene dalla Toscana, dove “maffia” con due effe, significa miseria e “smaferi”, sbirri. Il medesimo dizionario asserisce che questi due termini definiscono il medesimo individuo che in Sicilia viene chiamato mafioso. La miseria amministrata dagli sbirri: come riassumere meglio tre secoli di “sicilianità ”…
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(Intervista rilasciata a “Le Nouvel Observateur”, 25 giugno 1978, terza parte)
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