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  martedì 18 marzo 2014
 Direttore: Gualtiero Vecellio
ENZO TORTORA. ARTICOLO DI VITTORIO PEZZUTO SU "IL FOGLIO" DELL'11 GIUGNO

TORTORA, UNA COLONNA INFAME
Giugno 1983, debutta l’Italia dei pm “senza riguardi” e del linciaggio facile

di Vittorio Pezzuto

Vent’anni fa, alle quattro e un quarto del mattino del 17 giugno, hanno bussato alla porta di una camera dell’hotel Plaza di Roma. Spalancato l’armadio, aperta una valigia, sequestrata un’agenda telefonica, scrutato dentro un salvadanaio di ceramica a forma di porcellino (non si sa mai) si sono portati via un uomo stralunato, che ha appena avuto il tempo di vestirsi e di raccogliere pochi effetti personali in una sacca di tela rossa. Fuori è buio. In via del Corso non passa nessuno. La prua dell’Alfetta punta decisa su via In Selci, sede del nucleo operativo dei carabinieri. Condotto in ufficio, l’uomo viene fatto sedere davanti a una scrivania ingombra di incartamenti. “Lei è in stato d’arresto”. “Come?”. “C’è un ordine d’arresto dalla procura di Napoli”. “Ma per cosa??”. “Non lo sappiamo”. Un collasso, le mani e le gambe che si fanno di ghiaccio. Quindi la ricerca di un avvocato e una telefonata alla figlia più grande: “Ricordati che papà è quello di sempre”. L’angoscia si raggruma in una lunga, incomprensibile attesa. I militari hanno l’ordine di aspettare mezzogiorno per tradurlo nel carcere di Regina Coeli, nessuna fretta deve compromettere la riuscita di una regìa studiata da tempo. Il cellulare è stato posteggiato dall’altra parte della strada per meglio consentire a teleoperatori e fotografi di vivisezionare in tutta calma il volto del prigioniero, zoomando sulle manette che stringeranno i suoi polsi. Il tempo sgocciola. All’uomo vengono prese le impronte digitali e scattate le foto di rito: faccia e profilo. La faccia e il profilo di Enzo Tortora.

Il maxi-blitz anticamorra, ordinato dai sostituti procuratori Lucio Di Pietro e Felice Di Persia a dieci giorni dalle elezioni politiche, è imponente per dimensioni e clamore: 856 mandati di cattura. Come ci spiega sul Giorno un entusiasta Guglielmo Zucconi, il lavoro dei magistrati “è costato e ha prodotto migliaia di cartelle dattiloscritte, decine di migliaia di intercettazioni telefoniche, cinque mesi di pedinamenti e di appostamenti in tutta Italia, di interrogatori in tutte le carceri italiane”. L’arresto di Tortora e di centinaia di presunti altri camorristi prova che “non è vero che in questo paese non cambia nulla, non è vero che le leggi o sono sbagliate o se sono giuste non vengono applicate, non è vero che esistono gli intoccabili”. A fondamento dell’inchiesta vi sono invece solo le parole di due superpentiti della Nuova camorra organizzata (Nco): Giovanni Pandico e Pasquale Barra.
Il primo è in carcere dal giugno 1970 in seguito a una strage compiuta negli uffici del Comune di Liveri di Nola, suo paese di origine: ha ucciso due persone (ferendone una terza), innervosito dalla lentezza di un impiegato nel rilasciagli un duplicato dell’atto di nascita. E’ pregiudicato per calunnia, tentato parricidio, tentato incendio dell’abitazione dei genitori, minacce a mano armata contro il padre, tentato avvelenamento della madre e della fidanzata quattordicenne. Le cartelle cliniche dei manicomi giudiziari lo definiscono “paranoico, schizoide, dotato di una personalità aggressiva fortemente condizionata da manìa di protagonismo”. Nel carcere di Ascoli Piceno diventa il “segretario” di Cutolo. Ai giudici ha dichiarato di essersi dissociato dalla Nco per motivi ideologici. Una settimana dopo il suo primo interrogatorio ha fornito un elenco di nomi in cui – al sessantesimo posto – compare anche quello di Tortora, “camorrista ad honorem”.
Barra, detto “‘O animale” per l’efferatezza dei suoi delitti, è invece un killer delle carceri: ha già trucidato due detenuti quando, nel 1981, nel carcere sardo di Bad’ e Carros, ammazza (divorandone in seguito le viscere ancora calde) il boss della mala milanese Francis Turatello. Anche stavolta l’ordine era partito da Cutolo ma questi – in seguito ai reclami di alcuni boss mafiosi di cui la vittima era figlioccio – gli ha addossato la responsabilità dell’omicidio. Sentendosi minacciato e tradito, Barra si è quindi dissociato. Ha fatto il nome di Tortora solo al diciottesimo interrogatorio, dopo aver letto l’elenco redatto da Pandico. “Gli inquirenti lo hanno definito un vero cervello elettronico, una banca dati precisa, senza tentennamenti. Durante gli interrogatori ha citato alla perfezione luoghi, dati, personaggi senza mai sbagliare. Ovviamente all’inizio gli investigatori lo hanno messo alla prova per verificare la veridicità di quanto stava raccontando, ma il Barra non ha sbagliato una virgola” (Massimo Esposti, La Notte). “Barra diceva qualcosa? Subito si controllava, nei minimi dettagli. Ma non c’è stato verso di coglierlo in errore” (Paolo Bonaiuti, Il Giorno). Si saprà in seguito che il superpentito è stato trattato con ogni riguardo nella caserma in cui era detenuto. Sorseggiando coppe di champagne, ha proceduto coscienzioso – con un inappellabile “Chiste sì, chille no” – al riconoscimento delle persone che i carabinieri gli hanno via via presentato. In attesa del “verdetto”, alcuni di questi sono stati colti da malore.

I demiurghi della “retata del secolo”, quella che ha finalmente decapitato la camorra, diventano subito i beniamini della stampa. Sui giornali proliferano notizie, indiscrezioni, gli stessi verbali degli interrogatori. Di Pietro e Di Persia? “Scrupolosi, seri, prudenti, stimati” (Gigi Moncalvo, Il Giorno). “Esemplari per zelo e disprezzo del rischio ascoltano, registrano, controllano e agiscono poi di conseguenza” (Massimo Nava, Corriere della Sera). “Il massimo riserbo [sic] sembra dettato più dalla volontà di evitare strumentalizzazioni pre-elettorali che non dalla necessità di trovare altre prove, certe e sicure” (Massimo Esposti, La Notte). I due magistrati sanno bene che la cattura di Tortora è ormai la cartina di tornasole della loro serietà professionale, per questo intendono rassicurare l’opinione pubblica. “Non potevamo avere occhi di riguardo, la notorietà non significa impunità per nessuno”; “non siamo pazzi, non vogliamo essere screditati a vita”; “il racconto di Pasquale Barra è stato accuratamente verificato. Non siamo disposti a compromettere una carriera per un provvedimento emesso con troppa leggerezza”; “indubbiamente la presenza di Tortora in questa indagine ha sorpreso tutti e anche noi. Su Tortora siamo andati molto cauti, ma ora possiamo affermare che abbiamo molto più delle testimonianze dei due pentiti”. Qualunque cosa sia, non sembra granché se lo stesso Di Pietro – in un intervista apparsa su La Repubblica del 30-31 ottobre – così risponderà a Giampaolo Pansa (che obietta sulla credibilità di un’inchiesta basata esclusivamente sulle affermazioni di due pentiti): “Ci abbiamo pensato. Ma l’ipotesi non regge dal punto di vista logico: Barra e Pandico ci hanno consentito di arrestare centinaia di persone che non sarebbero mai state neppure sospettate. Alcune di queste stanno in carcere per reati da ergastolo. Pensi quale catena di drammi, di rancori, di vendette ha origine da quelle confessioni. Quei due sono dei condannati a morte dalla camorra. E avrebbero detto tutto ciò che han detto solo per screditare i giudici? No, non sta in piedi. E c’è dell’altro. Con quei verbali il collega Di Persia, io, la polizia e i carabinieri abbiamo lavorato per quattro-cinque mesi. A fare cosa? A identificare le persone nominate dai pentiti, a cercare ogni riscontro, a far rilievi fotografici, a rileggere centinaia di vecchie indagini di polizia giudiziaria rimaste senza sviluppo. Così, controllo dopo controllo, è affiorata la scoperta più sconvolgente; la camorra non era costituita dal killer, dall’estorsore, dal rapinatore, ma anche da soggetti che appartengono a categorie e professioni di solito insospettabili. Certo, ciascuno con compiti diversi, ma sempre all’interno della stessa organizzazione criminale”.
La realtà è invece molto diversa. I due hanno operato “così meticolosamente e brillantemente” (Massimo Esposti, La Notte) che 144 arrestati risulteranno omonimi di presunti camorristi o indicati “per sbaglio” dai pentiti. Altri 65 sospetti saranno prosciolti in istruttoria, molti mesi dopo. “Un sacrificio pagato sull’altare della possibilità statistica”, chioserà Luca Villoresi su La Repubblica.

Mentre sale sul cellulare che lo trasporterà verso la cella 16 bis di Regina Coeli, Tortora è travolto da flash, telecamere e insulti. “Ladro, farabutto, ipocrita, faccia di merda!”. E invece dovrebbero dargli del coglione, è quello che si merita. La procura di Napoli avrà pure custodito il segreto istruttorio, sta di fatto che la notizia del suo arresto è già stata annunciata alle 16,25 del giorno prima da un flash dell’Ansa. Interpellato con qualche imbarazzo dai cronisti aveva risposto divertito: “Un caro saluto da Rebibbia. Eh sì, lo ammetto, hanno proceduto per ordine alfabetico: Tognazzi, Tortora, Vianello…”. E giù una risata.
Il presentatore genovese è infatti al momento la star televisiva più popolare in Italia. Da sette stagioni conduce “Portobello”, programma cult con una media di 25 milioni di telespettatori. Ogni venerdì sera il paese si ferma per guardare in tv il mercatino con i prodotti più insoliti e le invenzioni più stravaganti, le rubriche “Fiori d’arancio” e “Dove sei?”, i tentativi frustranti di far parlare il pappagallo simbolo della trasmissione. Ogni settimana – prima che venga pronunciata il rituale “Big Ben ha detto stop!” – va in onda lo spettacolo della gente comune: un caleidoscopio di tic, virtù e curiosità che i critici osservano sussiegosi. Eppure quella trasmissione contiene in sé i format che riempiranno i palinsesti dei successivi vent’anni. Tortora è infatti un grande innovatore del linguaggio televisivo. Nel 1959 ha realizzato a “Campanile Sera” i primi collegamenti in diretta tra lo studio e la piazza. La sua “Domenica Sportiva” ha inventato la moviola calcistica. Con “Cipria”, su Retequattro, sarà il primo a far cantare seriosi deputati della Repubblica.
Il presentatore ha una personalità che sfugge a qualsiasi facile cliché. E’ colto (ama Stendhal, ha letto tutto Karl Popper e Joseph Roth, è un fine cultore del neopositivismo logico) e parla forbito: aggettivazione ricca e puntuale, congiuntivi e consecutio temporum. Un marziano. Carattere ruvido, la battuta sferzante, per nulla incline alla mondanità, passa le sue giornate assorbito dal lavoro. E’ iscritto al Pli ma non appartiene a nessuna cordata aziendale o politica. In lui si fondono un naturale savoir faire e il gusto di remare controcorrente. La Rai lo ha già cacciato due volte: nel 1960 (quando a “Telefortuna” ha proposto Alighiero Noschese in una formidabile imitazione di Amintore Fanfani) e nel 1969 (per un’intervista rilasciata a Oggi in cui definiva la Rai lottizzata “un jet condotto da un gruppo di boy-scout”). Ha trascorso il lungo esilio con il praticantato alla Nazione e la collaborazione a diverse altre testate. Crede nella libertà d’antenna: dopo aver lavorato nelle prime televisioni libere via cavo (Telebiella, Telealto Milanese) ha fondato Antenna 3 Lombardia.
E’ contro quest’uomo che, torrenziali, si scatenano il livore e l’invidia dei suoi colleghi. Alcuni inventano di sana pianta. Mentre è chiuso in isolamento – quando neppure gli avvocati Alberto Dall’Ora, Raffaele Della Valle e Antonio Coppola lo possono incontrare – il Messaggero titola in prima pagina: “Tortora ammette solo: vidi Turatello”. Il Giorno risponde con un “A Milano lo stavano pedinando da cinque mesi”. Sulla Stampa Giuseppe Zaccaria fa invece esclamare a Barra, appena descritto come un detenuto isolato da mesi in un carcere superprotetto: “Portatelo di fronte a me: saprò io cosa dirgli”. E’ difficile dar conto con completezza di ogni titolo tendenzioso, di ciascun articolo diffamatorio, dei moltissimi “si dice”: in troppi si divertono nel fare a pezzi la sua immagine personale e pubblica. Non resta che rovesciare la pattumiera di quei giorni e dare un’occhiata ad alcuni reperti di giornalismo antropofago. “Enzo Tortora rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto. Le labbra mosse con flemma, i muscoli del collo e della faccia tirati e la voce compassata sembrano voler ricordare e riprodurre a tutti i costi il personaggio del piccolo schermo, amato dalle massaie” (Marino Collacciani, il Tempo). “Dosando con grande mestiere indignazione e sbigottimento ha retto bene la parte della vittima innocente” (Wladimiro Greco, il Giorno). “Il suo arresto conferma quello che chiare indicazioni davano già per sicuro, e cioè che Tortora è un personaggio dalle mille contraddizioni. Ligure spendaccione, se non proprio generoso, giornalista e quindi osservatore ma al tempo stesso attore e portato all’esibizione, umorale e tuttavia al servizio del più rigoroso raziocinio, colto (come ama anche ostentare in tv) eppure votato alle opere di facile popolarità, incline a un’affettazione non lontana dall’effeminatezza ma notoriamente amato dalle donne e propenso ad amare le più belle (due mogli e falangi di amiche). Moralista infine – proprio questo il sigillo che l’arresto imprime alla sua sfaccettata personalità – e ora colpito da un’accusa che fa di colpo traballare ogni sua credibilità morale” (Luciano Visintin, Corriere della Sera). “Desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata, quando conduce sotto l’insegna dell’ordine una vita personale tutt’altro che ordinata assumendo nello stesso tempo atteggiamenti da moralista o da Catone il Censore. I moralisti o i moralizzatori sono sempre da salutare con favore, specialmente in tempi come quelli che viviamo, ma a condizione che non bistrattino con l’azione i loro princìpi, che conducano una vita irreprensibile” (Costanzo Costantini, il Messaggero). “Tempi durissimi per gli strappalacrime” (Giovanni Arpino, il Giornale). “Qualcuno a Milano dice che quando era stato licenziato dalla Rai lo si poteva vedere, di notte, in un giro di balordi. Qualcun altro si meravigliava di averlo incontrato spesso, anche in questi ultimi tempi, sugli aerei Roma-Palermo, Palermo-Roma. Che interessi poteva avere Tortora in Sicilia? E poi, per chi lo conosce bene, c’è un altro elemento inquietante: Tortora, di solito violento a parole nel difendersi e così conscio del potere dei giornali e della tv, quando è uscito dalla questura di Roma aveva a sua disposizione televisione e giornalisti: poteva dire quello che voleva; invece, a parte generiche dichiarazioni di innocenza, non ha avuto le reazioni che gli erano solite” (Alessia Donati, Novella 2000). “Tortora non può, non deve diventare un simbolo. Egli è solo uno dei tanti, tantissimi pessimi esempi dell’italiano che, sotto la lacrimuccia televisiva, nasconde il suo ardore per il danaro: e quindi è disponibile a tutto” (Luigi Compagnone, il Secolo XIX). Anche perché lo spaccio operato da Tortora non consisteva certo in “stecchette o bustine, ma in partite di 80 milioni a botta. Un’attività durata anni e stroncata solo ultimamente, secondo indiscrezioni, per uno sgarro commesso dal noto presentatore. E ancora, pranzi e cene con noti e meno noti camorristi, incontri segreti, rapporti, inchieste, raccomandazioni, suggerimenti, appalti” (Daniele Mastrogiacomo, la Repubblica).
Anche alcune prime firme del giornalismo prendono parte. Sono degli intellettuali, umorismo e intelligenza non fanno loro difetto. “Se un uomo viene catturato in piena notte vuol dire che qualcosa di grave ha commesso” (Camilla Cederna). “Era un po’ malinconico, non tanto perché costretto a camminare con le mani ammanettate e la scorta dei carabinieri, ma perché è arrivato sul teleschermo senza il suo concubino pappagallo” (Sergio Saviane). “Dicono che la tv di Stato è una droga. Mai detto è stato più vero dopo l’arresto di Tortora” (elzeviro sul Giornale attribuibile a Indro Montanelli). Non manca neppure la vignetta di Giorgio Forattini sulla prima pagina della Stampa: il pappagallo di Portobello che, rinchiuso in gabbia, esclama “Portolongone!!!”.

Primo interrogatorio, 23 giugno 1983. E’ molto breve. Il giudice Di Pietro conserva su di sé gli occhiali da sole e si rivolge a Tortora con toni bruschi. “Le farò quattro domande. Ha mai conosciuto, avuto rapporti, con un certo Domenico Barbaro?”. Tortora guarda l’avvocato Della Valle, che lo rassicura con un sorriso. Il legale ha in cartella le fotocopie del carteggio intercorso nel lontano 1979 tra il detenuto e il presentatore. Barbaro aveva inviato a Portobello dei centrini da tavola perché venissero battuti all’asta durante la trasmissione. Il pacco che li conteneva era andato perduto e, ripetutamente sollecitata, la Rai aveva risarcito il proprietario con un assegno di 800 mila lire. I magistrati, fidandosi ciecamente della versione di Pandico (che risulterà essere l’autore materiale delle missive), si sono convinti che le lettere di protesta del detenuto – spedite dal penitenziario di Porto Azzurro – non siano altro che messaggi in codice: la camorra avrebbe sollecitato minacciosamente Tortora a restituire la partita di cocaina (o il suo equivalente in denaro) che gli aveva affidato perché la piazzasse su Milano. Di Pietro afferra il carteggio, lo sfoglia perplesso per dieci minuti e impallidisce. Il segretario che sta stenografando si interrompe e scoppia in pianto. La tensione è altissima. “E’ mai stato a Ottaviano?”. Tortora nega. “Ha mai conosciuto un certo Guarnieri?”. E’ Alfredo Guarnieri, figlioccio di Cutolo. Ha firmato, senza mai spedirlo, uno scritto indirizzato al presentatore e rinvenuto vicino alla sua branda su indicazione di Pandico. Tortora lo prende in mano e nega di conoscerne l’autore. I magistrati almeno su questo dovrebbero credergli: il superpentito ha infatti indicato nel suo ex compagno di cella il killer incaricato dalla camorra di eliminare il presentatore per lo sgarro subìto. Logico quindi che i due non si conoscessero. Lo stesso Guarnieri – saputo dai giornali del suo indiretto coinvolgimento – scagionerà completamente Tortora, definendo la lettera (che contiene affermazioni deliranti del tipo “ricordati che siamo tutti figli dello stesso Dio e che dobbiamo ubbidire ai suoi comandamenti. Saluti a tua sorella”) come uno scherzo e un tentativo di interessarlo al problema delle carceri. “Ha mai conosciuto questa donna?”. Di Pietro esibisce una sbiadita fotografia in formato tessera. Tortora la osserva e scuote la testa. Si tratta di Nadia Marzano: nel 1978, sempre secondo Pandico, è nella sua abitazione milanese che il giornalista sarebbe stato affiliato alla Nco. Al processo la donna negherà di conoscerlo, dimostrando che all’epoca non si trovava neppure in città perché a Madesimo insieme al figlio malato di pertosse. Finisce così il primo incontro tra il presentatore e i suoi inquisitori. Nel congedarlo Di Pietro gli dice: “Buona fortuna”. Tortora rabbrividisce. “E’ una frase – scriverà in una lettera a La Stampa – che accetto da un venditore di biglietti della Lotteria di Merano e non certo da un giudice. La magistratura, ch’io sappia, amministra la giustizia e non la fortuna”.

Passano alcune settimane. Nel frattempo, Barbaro ha pubblicamente confermato la versione di Tortora e della Rai sulla storia dei centrini. Ai legali del presentatore, che chiedono invano un incontro con il detenuto, gli inquirenti rispondono imbarazzati che “trattasi di un altro Barbaro”. Non è vero ma non possono dire altro: se liberano Tortora crolla l’impalcatura principale della loro inchiesta. Stanno per scadere i quaranta giorni previsti per l’istruttoria formale e nelle loro mani resta ben poco. E’ allora che avanza sulla scena la più scalcagnata coppia di testimoni della storia giudiziaria italiana. Il 5 luglio Gerosalba Castellini, moglie del “pittore” Giuseppe Margutti, dichiara al giudice Di Persia di aver visto Tortora cedere a due sconosciuti un sacchetto di plastica contenente droga. La compravendita si sarebbe svolta il 5 novembre 1979 all’interno di uno studio deserto di Antenna 3 Lombardia. Quel giorno, sostiene, Tortora conduceva con Cino Tortorella (il popolare Mago Zurlì) una trasmissione a favore dell’Unicef. Appartatasi durante una pausa del programma allo scopo di riparare l’elastico delle mutandine che le si era spezzato, si sarebbe chinata dietro a un paravento e – non vista – avrebbe assistito a tutta la scena. Una volta tornata a casa avrebbe deciso con il marito di non denunciare l’accaduto, nella convinzione che nessuno avrebbe loro creduto. Solo dopo l’arresto di Tortora, consigliati da un amico giornalista, hanno trovato il coraggio di denunciare tutto ai magistrati. La donna è pervasa da una grande coscienza civica. “Qui se ne vedono di tutti i colori: bambini che si drogano, che muoiono. Bisogna colpire gli spacciatori grossi, non solo i pesci piccoli. La droga la so riconoscere, e quel pomeriggio Tortora ne aveva un pacco così…”. Sulla prima pagina del Secolo XIX Mario Carillo osserva che “se fosse stata una mitomane non avrebbe resistito tanto tempo alla tentazione di raccontare la storia vissuta con la sua fantasia malata. E la data è certa, ne fa fede il marito”. Bella garanzia, il marito. Più che un pittore, Margutti è infatti un affermato protagonista delle cronache. Nel 1975 ha introdotto per scommessa un suo quadro al Louvre: la tela resta esposta per 36 ore insieme ad alcuni capolavori dell’impressionismo e lui si guadagna una denuncia per danneggiamento. Pochi mesi dopo gliene arriva un’altra, stavolta per simulazione di reato: lo accusano di un finto rapimento allo scopo di nascondere una scappatella extraconiugale. Quattro anni dopo spedisce da New York alcune cartoline affrancate con francobolli da lui dipinti. Immediatamente espulso, manifesta davanti al consolato americano di Milano per chiedere al presidente Jimmy Carter un risarcimento di un milione di dollari. Non ascoltato, il 5 ottobre 1981 dichiara guerra agli Stati Uniti (“Pensavo che mi aggredissero – disse allora deluso ai giornalisti – e invece non mi hanno manco cagato”).
Gerosalba Castellini e Giuseppe Margutti: è alle parole di questa coppia (“testimoni a difesa degli inquirenti”, li definisce l’avvocato Dall’Ora) che i magistrati e molti giornalisti decidono di aggrapparsi. Eppure sarebbe facile accertare la verità. Basterebbe dar credito alla secca smentita di Tortorella oppure acquisire la testimonianza di Leonida Barezzi, direttore del settimanale Stop. E’ a quest’ultimo che già a giugno si è rivolto Margutti, promettendo l’esclusiva del suo racconto in cambio di un congruo compenso. Allora la versione dei fatti è stata diversa: i protagonisti sarebbero stati lui e una ragazzina, Tortora avrebbe avuto in mano una valigetta ventiquattrore e non un sacchetto di plastica. Comunque sia, che Tortora e i suoi coimputati si rassegnino ad attendere in cella il ritorno dei magistrati dalle meritate ferie estive. La giustizia va in vacanza e un’Italia distratta fischietta il tormentone musicale dei fratelli Righeira: “Vamos a la playa, oh-oh-oh”.

E’ un ferragosto torrido. Chiuso in un cellulare, con la pressione al massimo, Tortora affronta un viaggio allucinante di dieci ore che lo conduce alla cella 12 del reparto infermeria del carcere di Bergamo. Nessuno dei carabinieri di scorta che gli offra da bere: preferiscono giocare a fare i grandi poliziotti (e tra sgommate e contatti via radio in codice – “Volpe chiama volpe, rispondete!” – più volte sbagliano strada). Chiuso in una cella di cinque passi per tre, il presentatore è trafitto dai nuovi verbali di interrogatorio, dalle nuove ‘rivelazioni’ che quasi ogni giorno si affacciano impuniti da settimanali (sull’Espresso, Pietro Calderoni e Sergio De Gregorio non ne bucheranno uno), quotidiani e telegiornali. Solo in questo modo, peraltro, i suoi avvocati possono essere aggiornati sull’andamento dell’istruttoria: a loro i giudici rifiutano qualsiasi informazione. Non possono far altro che presentare una memoria difensiva in cui chiedono di conoscere esattamente gli spostamenti dei pentiti nelle varie carceri (per provare la possibilità di accordi preventivi), di acquisire agli atti i numerosi articoli scritti da Tortora contro mafia e camorra e soprattutto che vengano effettuati accertamenti fiscali e tributari sul patrimonio del loro assistito. “Se nella ‘memoria’ non c’è altro di più importante, gli argomenti della difesa si rivelano d’una debolezza sconcertante”, sentenzia Pino Aprile su Oggi. In quei giorni non tutti sono però disposti a credere alla colpevolezza del presentatore. Su Repubblica Enzo Biagi ha già esposto con lucidi argomenti – si rivolgerà anche al presidente del Csm Sandro Pertini – le sue riserve: “E se Tortora fosse innocente?”. Adesso quella domanda è stata ripresa da un appello redatto da Piero Angela e Giacomo Ascheri e sottoscritto da decine di intellettuali, giornalisti, politici e uomini di spettacolo. A esprimere forti dubbi sulle prove a carico del presentatore e sulle modalità dell’inchiesta saranno anche Indro Montanelli sul Giornale, Massimo Fini (“Io vado a sedermi accanto a Tortora”) e Gigi Moncalvo sul Giorno, Enzo De Mitri sulla Notte, Dino Biondi sul Resto del Carlino, Walter Vecellio sull’Avanti!, Rossana Rossanda sul Manifesto, Stefano Rodotà su Repubblica, Giorgio Bocca sull’Espresso, Italo Mereu sul Sole 24 Ore e pochi altri. Sull’Unità Luciano Violante si chiede se la spettacolarizzazione dell’intervento giudiziario non nasconda “un’idea della giustizia come vendetta, del potere come violenza, dell’accusato come prigioniero, come uomo senza diritti”. Leonardo Sciascia sollecita sul Corriere della Sera l’apertura di un dibattito sul caso giudiziario che sta dividendo l’Italia. “Ho l’impressione che la carta Tortora sia stata messa proprio a chiave di tutta la costruzione: una volta che si sarà costretti a toglierla, l’intera costruzione crollerà e tutto apparirà sbagliato e privo di credibilità”. Il grande scrittore siciliano chiede che anche i magistrati siano finalmente responsabili degli errori commessi e propone che, una volta superato il concorso, si facciano almeno tre giorni di carcere all’Ucciardone o a Poggioreale: “Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Giorgio Manganelli sottoscrive la sua analisi. E’ allora che interviene il sostituto procuratore generale della Repubblica di Milano, Gerardo D’Ambrosio: “C’è da rimanere veramente sgomenti quando due autorevoli esponenti della cultura concludono nell’individuare i rimedi agli indiscutibili mali della giustizia italiana, rispettivamente nella responsabilità civile del magistrato e in tre giorni di carcerazione per i nuovi giudici. E’ un po’ come affermare che gli ospedali funzionano perché i medici rispondono civilmente e penalmente dei loro errori e hanno sempre sotto gli occhi le sofferenze del malato”. Lo spalleggia di lì a poco, sempre sul Corriere della Sera, il collega Ferdinando Pomarici. La responsabilità civile dei magistrati per colpa grave? “Una soluzione puramente fittizia e apparentemente frutto – come tante recenti – più di ‘sentiti dire’ orecchiati e ripetuti superficialmente che di un effettivo collegamento con la realtà”.

Secondo interrogatorio, 29 settembre 1983. Alla presenza degli avvocati Dall’Ora e Della Valle, il giudice istruttore Giorgio Fontana rilegge le precedenti dichiarazioni di Pandico e Barra e contesta a Tortora le accuse dei Margutti: sembra di assistere a una rassegna stampa ormai datata. Quindi passa alle dichiarazioni di un altro noto personaggio delle carceri, il killer Domenico Sanfilippo, che sostiene una tesi che la morte di Turatello rende impossibile verificare, e cioè che il boss milanese avrebbe frequentato abitualmente il presentatore televisivo. Tortora continua a negare. A questo punto il giudice istruttore chiede se siano suoi i numeri di telefono di un certo Tortora trovati sull’agendina del camorrista Giuseppe Puca, detto ‘O Giappone. La notizia, al solito, è già stata ampiamente anticipata dai giornali e la contestazione è singolare: gli inquirenti non li hanno ancora composti per una semplice verifica (solo otto mesi dopo si scoprirà che l’agendina è di una sua amica, Assunta Catone, e che i numeri sono quelli di un certo Tortona, imprenditore salernitano). Il sequestro dell’agenda risale al maggio precedente e allora nessuno ne informò la star di Portobello. La scena diventa grottesca. Tortora chiede di poter controllare questi numeri di telefono. “Ah, non li ho portati”, esclama il giudice. Poi, di fronte allo stupore dei presenti, aggiunge: “Non deve mica farsi illusione sull’efficienza dei nostri uffici”. L’interrogatorio si chiude qui. L’avvocato Dall’Ora chiede a Fontana se è tutto quello che hanno in mano. Il giudice risponde: “E’ tutto”. I due legali sono finalmente sereni. “Niente. Niente. Niente. Zero più zero fa zero e non quattro. Hanno vuotato il sacco… e il sacco è vuoto” confidano ad Anna Tortora, che li aspetta fuori dal carcere.

Il sacco è talmente vuoto che va subito riempito. Due giorni dopo, sulla prima pagina del Corriere della Sera, l’inviato speciale Adriano Baglivo spiega che i magistrati dell’ufficio istruzione (Farina, Della Lucia, Spirito e Fontana) sono costretti a difendere il loro lavoro dagli attacchi quotidiani di una parte della stampa, che giudicano “per scopi esclusivamente economici interessati alla liberazione di Tortora”. Ma questo è solo l’incipit. “Veniamo ai fatti concreti. Il colloquio con uno degli inquirenti squarcia il velo sul mistero Tortora e delinea un iceberg di prove documentate che finalmente fanno uscire dai forse e dai si dice per entrare nel mondo clandestino della camorra. […] Il quadro nel quale Tortora si colloca assume tinte fosche, per certi versi allucinanti. Un magistrato ha battuto a tappeto alcuni istituti di credito di Milano, ha sequestrato conti bancari e registri. L’altro ieri, in tre banche del centro del capoluogo lombardo, ha sigillato e trasferito a Napoli tre registri navali che documentano un’operazione di acquisto di una barca, condotta da una società che faceva capo a Tortora. In uno degli istituti un inquirente ha vissuto giorni e notti fino a raccogliere tutta la documentazione della truffa che Tortora avrebbe compiuto sui fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. […] ‘Chi avrebbe mai pensato – ha detto con profonda amarezza il magistrato – che dietro questa benevola iniziativa si nascondesse un’estorsione tipica della camorra? Dietro una faccia che invoca umanità e che è vicina al dolore, alle vicissitudini umane, si nasconde un cuore di pietra, una sporcizia impensabile’. Dice il magistrato: ‘Se lei sapesse quello che ci sta sotto… Ci sono interessi economici vertiginosi, cifre impensabili. Non abbiamo dubbi, siamo in possesso di prove documentali ineccepibili. Ciò che conta è questo: i riscontri su Tortora sono incrociati, è una maglia fitta di situazioni che conduce a configurare reati’. […] Abbiamo una confluenza di raggi che conducono a Tortora. Ci sono giochi di miliardi. Questa volta li teniamo in mano, l’organizzazione è alle corde’”. Baglivo a questo punto abbandona l’uso del condizionale e racconta i dettagli della truffa. “Legnano: Tortora lavora ad Antenna 3 e lancia un appello a favore dei terremotati. I soldi inviati dai telespettatori vengono depositati presso il Banco Lariano, che garantisce un interesse del 15 per cento. A questo contratto ufficiale se ne aggiunge un altro, occulto, un cosiddetto fondo nero per il quale l’istituto di credito corrisponde in effetti il 21 per cento d’interesse. Accade che la differenza tra le due percentuali, il 6 per cento, finisce nelle tasche di Tortora, di Villa (un altro presentatore) e di un dirigente della società. La procura di Milano, delegata dai giudici napoletani, ha svolto indagini a tappeto, accurate”. Tutta la stampa, tutte le televisioni rilanciano i contenuti dell’articolo. L’impatto sull’opinione pubblica è enorme. Il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Francesco Di Maggio contesta a Baglivo la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 del Codice penale) e apre un’inchiesta. Dieci giorni dopo archivia la squallida vicenda, non senza aver prima testimoniato che i fondi raccolti – 2 miliardi e 600 milioni di lire in vaglia e assegni non trasferibili intestati al commissario per la ricostruzione Giuseppe Zamberletti – sono stati amministrati “in forma corretta e in modo oculato”. Il 24 aprile 1985 il Tribunale di Milano condannerà Baglivo e il suo direttore Alberto Cavallari, rispettivamente a sei e a quattro mesi di reclusione. Il Corriere della Sera nasconderà la notizia in undicesima pagina, con un articolo di Adriano Solazzo in cui la soffiata anonima all’origine dell’articolo viene descritta come “ricca di particolari non del tutto inverosimili”.

All’inizio di dicembre le condizioni di salute di Tortora si sono notevolmente aggravate. E’ dimagrito di undici chili, soffre di depressione psichica, ha il cuore provato dall’ipertensione arteriosa e forti dolori alla colonna vertebrale causati da un’ernia del disco. Con ogni evidenza, necessita di cure specialistiche che non possono essere assicurate nell’infermeria del carcere di Bergamo. Dall’Ora e Della Valle presentano così quella domanda di libertà provvisoria che il presentatore con coerenza continua invece a rifiutare. “Se Tortora resta in carcere rischia di morire”, dichiarano in una conferenza stampa. Il giorno dopo, l’Unità titola: “Tortora? E’ quasi pazzo, parola dei suoi legali”. Forse è per questo che – scorgendo dalla sua branda l’arrivo in visita dei deputati liberali Antonio Patuelli e Giuseppe Facchetti – si mette a urlare: “L’Italia è la lebbra dell’Occidente!”.
I giudici istruttori dispongono in tutta calma una perizia medico-legale e il 30 dicembre depositano un’ordinanza con la quale rigettano non solo l’istanza di libertà provvisoria ma anche quella di concessione degli arresti domiciliari: “Il presentatore non trarrebbe nessun miglioramento concreto nel trasferimento in un centro clinico. Permangono inoltre il pericolo per l’acquisizione delle prove e la pericolosità dell’imputato. Rimetterlo in libertà comprometterebbe le esigenze di tutela della collettività”. Sette mesi sono passati dal suo arresto, addirittura dieci (a loro dire) dall’inizio dell’indagine. Di quale pericolo, di quale prova da inquinare parlano? L’affermazione è a tal punto contraddittoria che il Tribunale della Libertà, concedendo il 17 gennaio gli arresti domiciliari, non potrà non stigmatizzare i contenuti “superficiali” delle motivazioni addotte nell’ordinanza del giudice Fontana. Il quale aveva intanto dichiarato al Mattino: “Quello, se non è in coma non lo mollo”.

Terzo e ultimo interrogatorio, 9 marzo 1984. La caserma Pastrengo è in assetto di guerra, presidiata da militi armati. Tortora arriva a Napoli a bordo di un’ambulanza, steso su una barella con le manette ai polsi. Ha dovuto abbandonare in tutta fretta la stanza 304 della clinica Città di Milano dove stava per sottoporsi a un’angiografia computerizzata. Due nuove star del pentitismo hanno tardato a entrare in palcoscenico (addirittura dieci mesi dopo il maxi-blitz) e adesso non possono più aspettare. Sono presenti i giudici Di Pietro, Di Persia e Fontana. L’atmosfera è kafkiana. Agli avvocati non viene consentito di prendere parte al confronto. Andrea Villa, un noto killer della banda Turatello che sta scontando l’ergastolo per duplice omicidio, viene introdotto al cospetto di Tortora con un cappuccio in testa. Una messinscena che non verrà mai spiegata. Dichiara di aver visto Turatello e Tortora mangiare insieme al ristorante La vecchia Milano, nel capoluogo lombardo. Al processo confonderà il pranzo con la cena, per cui a mezzogiorno i due si sarebbero accompagnati a signore dell’alta società in abito da sera (le persone indicate come commensali risulteranno essere tutte decedute almeno due anni prima). Gianni Melluso detto ‘Il bello’ o altrimenti ‘Cha-cha-cha’, si presenta invece a volto scoperto. Si rivolge a Tortora chiamandolo “Enzino”. Riferisce di avergli consegnato, per conto della banda Turatello, diverse partite di cocaina (qualcosa come undici chili). I primi incontri sono collocati nei pressi di Milano, “tra la fine del 1975 o l’inizio del 1976” (impossibile: in quel periodo il pentito era rinchiuso nel carcere di Sciacca). Ricorda soprattutto una riunione – con scambio di denaro e droga – nello studio milanese dell’avvocato Cacciola. Siamo alla fine del 1976 e oltre a Turatello e a Tortora vi avrebbero preso parte anche Roberto Calvi e Francesco Pazienza (“Ci mancava solo Sindona in soffitta e il Papa in portineria!”, commenterà Dall’Ora). Tortora contesta deciso tutte le dichiarazioni dei due pentiti. E’ allora che il giudice Fontana, insinuante, tenta l’approccio amichevole: “Ma lo dica Tortora, lo dica che lei usava droga… Non è mica un reato, sa?”.

Avanzano intanto le tristi figure di nuovi pentiti, attratti dalla facile notorietà e dai possibili benefici (detenzione in caserma, protezioni, permessi premio, riduzione della pena) che possono trarre dall’accusare Tortora. Sono killer ed ergastolani. Sostengono di aver udito da affiliati alla Nco che il presentatore era uno dei loro oppure di aver assistito a un incontro a Ottaviano tra Tortora e Rosetta Cutolo oppure che Guarnieri vuole sbugiardare Pandico per difendere a tutti i costi l’insospettabile camorrista. Sono Mario Incarnato, Antonio Verderame, Giovanni Monaco, Guido Catalano, Pasquale D’Amico e Michelangelo D’Agostino. Con Pandico e Barra, Sanfilippo, Melluso e Villa fanno undici: la “Nazionale della menzogna”.

“Enzo, se sei libero, vieni dopodomani alla presentazione del nostro programma”. Al Teatro Eliseo di Roma Marco Pannella è ospite di Italia Parla, tribuna elettorale condotta su Retequattro da Tortora e Pippo Baudo. Per chi la segue il 19 giugno 1983 l’effetto è surreale. Da due giorni il presentatore è rinchiuso a Regina Coeli e sullo schermo, insistente, scorre una scritta che precisa trattarsi di una trasmissione registrata. Ma nella vita ci sono appuntamenti che possono essere solo rimandati. Per questo un anno dopo, il 5 maggio 1984, Pannella si reca a casa del vecchio amico (si conoscono dai tempi della battaglia sul divorzio) e gli chiede di candidarsi al Parlamento europeo. Per entrambi è un momento molto delicato. Il presentatore langue in attesa di un processo dall’esito già scritto, i radicali sono invece ancora scossi dalla clamorosa fuga a Parigi di Toni Negri. Lo avevano fatto eleggere deputato per denunciare l’abnorme lunghezza della carcerazione preventiva subìta degli imputati del processo “7 aprile”. Ma quando, tre mesi dopo, la Camera aveva concesso l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, il leader di Autonomia operaia aveva tradito ogni impegno, dandosi alla latitanza. Pannella, travolto dalle polemiche, non demorde: la battaglia per una giustizia giusta deve continuare, e stavolta con un protagonista più credibile. Tortora accetta. Costretto in casa, decide di trasformare il suo salotto in uno studio di registrazione collegato a Radio radicale e alle televisioni private del Pr. Editoriali parlati, dibattiti, fili diretti con gli ascoltatori. Nasce L’altra Italia Parla, trasmissione di due ore a conduzione domiciliare. Per un mese e mezzo – tre volte alla settimana – sfilano in via Piatti personaggi della cultura e dello spettacolo che sostengono convinti la sua candidatura: tra questi Giorgio Albertazzi, Orietta Berti, Angelo Branduardi, Gigi Sabani, Claudio Villa, Teddy Reno e Rita Pavone, Bruno Lauzi, Nilla Pizzi e il quartetto Cetra. E poco importa se alcune grandi firme del giornalismo – che pure credono nell’innocenza del presentatore (Biagi, Bocca, Montanelli) – storcono la bocca davanti alla scelta della militanza politica. Poco importa che ancora aleggi l’ingombrante fantasma di Toni Negri e che siano in molti a predire con tono saputo una nuova fuga, una nuova latitanza (Giulio Andreotti – all’epoca già “salvato” 27 volte dall’immunità parlamentare – commenterà sardonico sull’Europeo: “Alcuni galeotti per evadere si servono della lima. Altri, invece, ricorrono alla scheda elettorale”). Quelli che seguono sono soprattutto giorni febbrili, di intensa simbiosi con i nuovi compagni radicali. Tortora riprende forza e coraggio. L’ultima settimana di campagna elettorale vive un crescendo tumultuoso che travolge di rinnovato affetto il suo protagonista: sono centinaia le lettere e le telefonate di sconosciuti che ogni giorno lo invitano a non mollare, a combattere anche nel loro nome.

Una data – il 17 – continua a segnare sul calendario le tappe importanti di questa storia. Ieri la prima puntata di Portobello, la cattura e la concessione degli arresti domiciliari. Domani il rinvio a giudizio e la condanna al processo di primo grado. Oggi invece è il 17 giugno 1984 e Tortora può festeggiare con uno sformato di spinaci e due bicchieri di vino bianco la sua elezione a deputato europeo. Ha raccolto 415 mila preferenze, un consenso incredibile che supera gli stessi voti di Pannella. I magistrati di Castel Capuano non la prendono benissimo. Dopo questo imbarazzante plebiscito non si allenta la presa sull’imputato simbolo della maxi-inchiesta. Passa un altro mese ancora prima che a Tortora venga concessa la revoca degli arresti domiciliari. Non c’è fretta, potrà tornare libero solo alla vigilia della seduta di insediamento del Parlamento di Strasburgo (al quale, peraltro, inoltreranno immediatamente la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del neoeletto).
Nel frattempo Fontana, De Lucia e Spirito firmano l’ordinanza del suo rinvio a giudizio per spaccio di droga e appartenenza alla Nuova camorra organizzata. Nelle quarantotto cartelle dattiloscritte compare un’affermazione inaudita: “Anche a voler prescindere, in ipotesi, dalle risultanze fin qui esaminate, va considerato come il Tortora non sia certamente estraneo all’uso della cocaina”. Malgrado le ripetute richieste verbali e scritte dei suoi avvocati, nessuna visita specialistica, nessuna analisi medica verrà mai compiuta al fine di accertare la veridicità di questa ennesima “rivelazione”. Si sarebbe altrimenti scoperto che l’unico vizio del presentatore è quello di fiutare ogni tanto alcune prese di tabacco Santa Giustina, un’abitudine trasmessagli da sua nonna Marcella.

Il processo alla Nco – che si apre il 19 febbraio 1985 – è diventato un circo a tre piste. Il numero degli arrestati nella notte del maxi-blitz è così imponente che si è deciso di frazionarlo in tre tronconi, il primo dei quali esibisce l’imputato-simbolo dell’intera inchiesta. Tortora, che ha insistito perché venisse concessa dal Parlamento europeo l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, può guardare finalmente in faccia i suoi accusatori. Nell’aula-bunker di Poggioreale non si presenterà invece Pasquale Barra: ha dato forfait. Il suo duetto con Pandico stentava a sincronizzarsi in molti passaggi, soprattutto per quanto riguarda le date dell’affiliazione di Tortora alla camorra: lui la colloca tra il 1977 e il 1978, il suo collega nel 1980. Pandico comunque basta e avanza a giudici e cronisti giudiziari. Soprattutto ad Alfonso Madeo del Corriere della Sera, che a stento trattiene la sua ammirazione: “Destreggiandosi con malizia fra il ruolo di imputato e quello di testimone, uno dopo l’altro, in ordine alfabetico, sta impallinando decine di cutoliani con tono impavido ancorché incolore, attentissimo a non abbassare la guardia appena un avvocato chiede la parola e altrettanto pronto, dopo rapida consultazione degli appunti, a ribattere battuta con battuta, ironia con ironia, senza l’ombra di un’incertezza e senza un attimo di compiacimento. Va accumulando ore e ore di interrogatorio con l’aiuto di una memoria che un po’ sbalordisce e un po’ atterrisce. Perché non dà tregua, non conosce pausa, non indugia, non perdona, non è di tutti”. Luisa Forti del Secolo XIX si crede invece a un evento mondano e opta per la cronaca rosa, soprattutto quando al processo sfila Melluso: “La camicia immacolata, la cravatta in seta gialla, le scarpe nuovissime ancora scricchiolanti, i capelli lucenti di shampoo, almeno due accessori ‘made in Napoli’ (l’orologio rosso Ferrari e la cintura beige coccodrillata con fibbione Pierre Cardin), lo sciccoso Gianni Melluso si è presentato davanti ai giudici in un lino primaverile, guardacaso tinta tortora, con taschino impreziosito da stilografica d’oro. Preciso, tagliente, alle volte fin troppo pignolo, è apparso implacabile”. Sono solo due esempi, ma possono dare un’idea della strategia informativa scelta dai cronisti (fa eccezione l’inviato del Giorno, Gigi Moncalvo, che infatti verrà poi sostituito): sorvolare sulle testimonianze che scagionano Tortora, minimizzare gli episodi imbarazzanti per l’accusa. Il teste René Vallanzasca esclude in aula che Turatello abbia conosciuto il presentatore? Il giorno dopo Paese Sera titola: “‘Sì, Turatello conosceva Tortora’ dice Vallanzasca”. Il colonnello dei carabinieri Roberto Conforti dichiara che sulle parole dei dissociati non sono mai state fatte verifiche, accertamenti? Meglio sorvolare. Nadia Marzano racconta che – interrogata nel carcere di Nisida dal giudice istruttore Fontana – è stata lasciata sola con Melluso (“Lo scambiai per un magistrato. ‘Andate pure, con me parlerà’, disse. Poi, mettendomi le mani addosso, dichiarò che poteva farmi uscire quando voleva”)? L’indomani si può leggere sull’Unità che “tutte le deposizioni non aggiungono molto a quanto già si sapeva”, mentre il Resto del Carlino titola: “Nadia Marzano: a casa mia si è incontrato con Cutolo”.
Dopo la deposizione di Tortora – diciotto minuti di monologo senza che né la Corte né il Pm Diego Marmo gli rivolgano domande – Paolo Gambescia scrive sul Messaggero che “per difendersi concretamente il presentatore aveva ben poco. Tortora non può pensare di aver vinto perché non è riuscito a dare una spiegazione convincente all’interrogativo principale che da sempre lo insegue: perché i pentiti avrebbero dovuto avercela con lui?”. Per il cronista del Tempo Alfredo Passarelli “la sua arringa è quasi un capolavoro, certamente a effetto, ma non ribatte con dati sostanziali alle testimonianze, ai riscontri, ai dati processuali”. Luisa Forti, che come tutti ha seguito l’udienza alle spalle del presentatore, supera se stessa: “Enzo Tortora, con occhi abilmente lucidi…”.
Commentando invece l’interrogatorio di Melluso, Salvatore Maffei (sono sue le corrispondenze su Nazione, Resto del Carlino, Napoli Notte e Gazzetta del Mezzogiorno) scrive: “Per Tortora una giornata nera. Il pentito siciliano ha confermato nei minimi particolari le cose dette in istruttoria. I difensori dell’imputato non hanno potuto contestargli nessuna contraddizione”. E in effetti non hanno potuto, perché il tribunale non ha concesso loro di rivolgergli domande. Gli avvocati del presentatore giocano in trasferta, davanti a un pubblico ostile. Le loro eccezioni vengono sistematicamente respinte dal presidente Luigi Sansone. E solo a fatica trovano ascolto le proteste per le ripetute, illegittime conferenze stampa che Melluso e Pandico rilasciano indisturbati dalle loro gabbie. Se La Repubblica parla di “incredibile protesta di uno dei difensori”, sul Corriere della Sera il garantista Madeo commenta: “Perchè a Tortora è concesso di dire ciò che vuole e ai pentiti no?”. E infatti dopo un paio di udienze riprendono come prima le quotidiane, plurime interviste televisive e radiofoniche rilasciate dai camorristi. Il giornalista di Radio radicale Marco Taradash viene invece immediatamente espulso dall’aula-bunker. Pandico lo ha appena accusato di averlo avvicinato per ingiungergli di ritrattare le sue accuse contro il presentatore: la sua parola può bastare, ogni confronto tra i due è inutile.
Tortora va condannato perché la sua colpevolezza è l’architrave dell’intero processo. E il polverone mediatico-giudiziario è buono a confondere le idee, a coprire l’inconsistenza delle accuse, a contenere il fastidioso puntiglio della difesa. Il 26 aprile il pm Marmo non ce la fa più: “Avvocato Coppola, il suo cliente è stato eletto con i voti della camorra! I pentiti con i colpi della camorra rischiano di essere uccisi. Voi non avete alcun rispetto della vita umana”. Enzo Tortora si alza di scatto: “E’ un’indecenza!”. Il procuratore della Repubblica di Salerno lo denuncerà per oltraggio a un magistrato in udienza. Quindici giorni dopo la commissione giuridica del Parlamento europeo negherà l’autorizzazione a procedere e voterà all’unanimità un documento di forte deplorazione per l’incredibile offesa rivolta a un suo membro.
Il 10 settembre la Corte si ritira. Nell’aula si è già spenta l’eco della requisitoria di Marmo (che chiede per Tortora 13 anni di carcere, definendolo “un cinico mercante di morte”) così come delle arringhe degli avvocati Dall’Ora (“Se sarete liberi dalla paura di un giudizio o dalla speranza di un encomio, voi assolverete Tortora”) e Della Valle (“Datemi un incensurato… Un incensurato!”). Il presidente Sansone e i giudici a latere Gherardo Fiore e Orazio Dente Gattola devono adesso giudicare le posizioni processuali di 247 persone ed emanare il loro verdetto. Resteranno in camera di consiglio sei giorni. Una media di quaranta sentenze al giorno, quattro all’ora, una ogni quindici minuti.

Ore 17.15 del 17 settembre 1985, Tribunale di Napoli
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tortora Enzo Claudio Marcello fu Salvatore e di Silvia Mariano è condannato a dieci anni di carcere. 50 milioni di multa. Un anno di libertà vigilata a pena scontata. Interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Ho visto giornalisti che si sbranavano e io mi sono trovato nell’arena. Ero arrivato a Napoli diciamo agnostico e per la mia riluttanza a sposare la tesi colpevolista sono stato bollato innocentista, come fosse un’infamia. E deriso. La corporazione voleva a larga maggioranza la condanna di Tortora, neanche si trattasse di una conquista per la categoria. E se tentavo di far presente che non c’erano prove, ero travolto: i pentiti sono testimoni come gli altri, e lui dev’essere incastrato. Ma perché tanto accanimento? Ho avuto l’impressione di uno scoppio di irrazionalità, di una specie di tifo cieco analogo a quello negli stadi, alimentato per giunta dall’antipatia dell’imputato e dal suo modo, ora goffo ora insolente, di difendersi. Nessuno che fosse disposto a concedergli l’attenuante di aver perso la testa, magari perché innocente sul serio. Ma quale innocente, e giù a colpirlo. Un collega lo odiava perché con la tv aveva strappato un facile successo, e scordava che, se il successo fosse facile, l’avrebbe avuto anche lui. Ha inciso anche la sua popolarità: troppa per essere perdonata da chi non ne ha affatto. Ed ora il presentatore era a terra, il piacere di sferrargli delle pedate era voluttuoso. Durante la lettura della sentenza ho visto cose turpi. Il nome di Tortora tardava a essere pronunciato. Che fra i colpevoli non ci sia? I giornalisti si interrogavano con lo sguardo, increduli, delusi, amareggiati. Parecchi avevano scommesso sulla condanna, avevano investito articoli ed articoli e temevano di essere sconfessati. Uno si volta e, allargando le braccia, mi sussurra: vedrai che l’hanno assolto, mi toccherà andare in giro con i baffi finti. Ma la sua disperazione, e non solo la sua, è durata poco: ‘Tortora Enzo… dieci anni di reclusione e 50 milioni di multa’, ha detto il presidente Sansone. Qualcuno ha stretto i pugni dalla felicità, altri hanno sorriso, sia pure con moderazione, dato il momento. Era come se la loro squadra avesse segnato in trasferta. E alla sera, ho saputo, hanno brindato: alla faccia di Tortora”.
(Vittorio Feltri, Il Corriere della Sera)

Signor presidente, l’augure potrebbe trarre gli auspici: oggi è il 10 dicembre, il giorno dedicato a celebrare i diritti dell’uomo, i diritti della persona per decisione delle Nazioni Unite ed era il 10 dicembre dello scorso anno quando, quasi presago, il Parlamento europeo volle dare una risposta, apparentemente neutra, alla giustizia del mio paese, che chiedeva l’autorizzazione a procedere contro di me. ‘Sì – disse – ma non avrete mai l’autorizzazione ad arrestarlo, prima della sentenza definitiva’. Oggi dunque scelgo la via del carcere – e quali carceri, in Italia, sapeste colleghi – mentre avrei potuto continuare a coltivare l’onore di essere e operare per altri anni con voi, in attesa che giustizia fosse fatta di un’accusa che l’intero popolo italiano sente essere mostruosa. Ma colpevole di essere innocente – condizione tipica e necessaria come sappiamo di ogni vittima sacrificale, di ogni capro espiatorio, quando con rito barbaro una comunità vuole trasferire e colpire i propri demoni interiori, dando il corpo e il volto di un altro al proprio male – mi assumo la responsabilità di disubbidire. Ma disubbidisco per fedeltà. Per fedeltà ai miei ideali, a quello del Partito radicale che ho l’onore di presiedere, ai vostri, ai nostri, ho deciso di dare corpo non già a un sacrificio in torbida convivenza con i miei persecutori ma alla esigenza più urgente, più rigorosa di fare, di dire, di creare giustizia contro ogni violenza, contro la violenza della menzogna e dell’ingiustizia. Questa è la mia scelta. Non dubitate che in carcere sarò e resterò persona libera, più libera certo di coloro che hanno voluto mandarmici!”.
L’onorevole Tortora torna a sedersi al suo scranno, accanto a Pannella, nell’ultima fila del settore centrale dell’emiciclo di Strasburgo. Il silenzio che ha accompagnato il suo ultimo intervento viene rotto da un lungo applauso. Molti di loro vanno ad abbracciarlo commossi. In meno di un anno il deputato radicale si è fatto apprezzare dai colleghi di ogni paese, di ogni gruppo politico. Sbigottiti, molti di loro hanno appreso per la prima volta – studiando i dossier sulla sua odissea giudiziaria – in quale stato versi l’amministrazione della giustizia italiana. Eletto presidente del Partito radicale nel novembre 1985, Tortora ha visitato decine di carceri (ogni volta accolto trionfalmente dai detenuti) e ha partecipato senza sosta a manifestazioni e convegni (il più importante dei quali, “Il caso Italia”, riunisce per due giorni, proprio al Parlamento europeo, giuristi e politici da ogni parte del continente).
Il 29 dicembre, in piazza del Duomo a Milano, Tortora si consegna alle forze dell’ordine davanti a una folla composta e solidale, che sa di assistere a un evento storico: per la prima volta un deputato italiano si è dimesso per affrontare da semplice cittadino i rigori degli arresti. Quel giorno, davanti alla Madonnina, evaporano gli ultimi residui del fantasma di Toni Negri.

Siamo alle ultime battute del processo d’appello contro i superstiti 191 imputati del primo troncone del maxi-processo. Un solo anno è passato dalla clamorosa, controversa sentenza di primo grado ma nell’aula-bunker di Poggioreale e nel paese si avverte, palpabile, un’atmosfera completamente diversa. Costretto agli arresti domiciliari, l’imputato Tortora ha animato con successo la campagna di raccolta delle firme sui tre referendum (responsabilità civile dei magistrati, modifica dei criteri di elezione al Csm, abolizione della Commissione inquirente per i procedimenti d’accusa contro i ministri) che il segretario del Pr Giovanni Negri – insieme ad Adelaide Aglietta e a Emilio Vesce – ha avuto l’idea di promuovere per trasformare il suo caso in una battaglia politica di più ampio respiro. Sono cambiati anche i cronisti giudiziari: a seguire il processo vi sono adesso giornalisti seri, non prevenuti.
Dopo ventisette udienze, l’istruttoria dibattimentale si conclude senza colpi di scena. C’è aria di smobilitazione nelle fila della “Nazionale della menzogna”. L’autunno del pentitismo (di questo pentitismo) è cadenzato dalle ritrattazioni a catena di molti suoi titolari: Michelangelo D’Agostino, Guido Catalano, Mario Incarnato e altri. Il presidente Antonio Rocca e i giudici a latere Michele Morello e Carmine Ricci verificano l’attendibilità di ogni dichiarazione. I giudici non giocano più a Tetris: la verità non deve più essere forzata a ogni costo nell’angusto rettangolo di un teorema. Come un giapponese nell’isola, il pm Armando Olivares coltiva invece ostinato le certezze che furono di Marmo. Radio radicale, che da giorni tace per protestare contro lo scarso interessamento del mondo politico alla sua crisi finanziara, decide di trasmettere lo stesso in diretta la sua requisitoria. Non è un intervento facile: più volte i difensori lo interrompono. In un caso il giudice Morello richiama il collega a una maggiore attenzione: seguendo la sua ricostruzione il pm ha confuso nomi e sovrapposto date, mescolando elementi non secondari. Olivares difende l’attendibilità di Melluso con argomenti risibili (“Le sue confusioni danno ancora più peso alle sue parole. Se avesse inventato tutto si sarebbe documentato meglio”) e la butta in politica. “Ci sono oscuri maneggi in atto, ma voi giudici non dovete prestarvi: è l’intero ordine giudiziario chiamato in causa. Una volta c’era il ciabattino che andava chiedendo: ci sarà pure un giudice a Berlino, contro l’imperatore Federico. Ora il ciabattino si è rivolto a Federico per impedire al giudice di fare giustizia. Durante il ventennio mandarono il prefetto Mori a far la guerra alla mafia. E fin quando se la prese con i piccoli mafiosi tutto andò bene. Poi toccò la mafia alta e lo giubilarono. Gli diedero un laticlavio e, con tanti complimenti, lo rispedirono a Roma. A noi ci vogliono mandar via e anche senza laticlavio. Eppure eravamo stati avvertiti dai pentiti: all’alta mafia, quella che si confonde quasi con le istituzioni, non ci arriverete mai”. Tortora? “Un ingenuo, uno sprovveduto, una vittima della politica. Alle sue spalle hanno tramato forze politiche intervenendo – per motivi che resteranno oscuri – nel regolare svolgimento di un processo, come mai era accaduto nella storia italiana”. Per lui Olivares chiede uno sconto sulla pena di primo grado (sei anni di carcere e 30 milioni di multa): è solo un uomo che ha ceduto a un momento di debolezza e va premiato per le sue dimissioni da deputato. “Tortora un capo della camorra? Non se ne abbia a male, al massimo era un collaterale”.
In un dossier dei radicali Sciascia analizzerà la requisitoria, definendola “la lettura più faticosa in cui mi sia imbattuto in più che mezzo secolo di esercizio. Un andare e venire dentro gli atti e le cose ascoltate come dentro una gabbia, cercando inutilmente un’uscita. In quanto al diritto, lasciamolo ancora nella valle del sonno in cui giace”. Dopo tre settimane di pausa per le ferie estive, il processo riprende con le arringhe degli avvocati difensori. Della Valle e Dall’Ora parlano per nove ore. Ribadiscono l’assoluta estraneità del loro assistito a qualunque fatto di camorra, contestando con precisione tutte le accuse dei pentiti e soprattutto quelle di Melluso, nel frattempo dichiarato inattendibile dal tribunale di Milano al termine di un’istruttoria a carico dell’attore Walter Chiari. Scortato in treno dai carabinieri (“in seconda classe, vagone detenuti”), il presentatore arriva in aula il 13 settembre. “Non sono venuto qui per poter fruire untuosamente di una riduzione di pena, se sono colpevole allora datemi trent’anni. Ritengo un metodo di decimazione, non di civiltà giuridica, il ragionamento del procuratore generale secondo il quale se viene condannato Tortora dovranno essere tutti condannati, se Tortora viene assolto dovranno essere tutti assolti. Si è voluto condannare in me un diverso, ma io sono innocente. Sono convinto di essere innocente. Spero, dal profondo del mio cuore, che lo siate anche voi”. Esplode fragoroso l’applauso del pubblico e di molti altri imputati. I tre giudici si ritirano in camera di consiglio. La sentenza viene emessa alle 11,06 del 15 settembre 1986. Il presidente del Pr la ascolta in diretta da Radio radicale, nel salotto di via Piatti. Il tribunale di Napoli assolve con formula piena, “per non aver commesso il fatto” e “perché il fatto non sussiste”, ben 114 dei 191 imputati: tra questi anche il presentatore televisivo. Esplode la festa in casa Tortora e al sesto piano di via Uffici del Vicario. Le stanze del gruppo parlamentare radicale sono infatti gremite di assistenti e deputati di tutti i partiti. Vengono stappate sette bottiglie di Cordon Rouge. Abbracci, urla di gioia e lucciconi, brindisi liberatorio. Tortora, che si rifiuta di parlare con le troupe e i giornalisti che premono sotto il portone di casa, rilascia commosso una dichiarazione a Radio Radicale: “Vorrei dire un grazie immenso a tutte le compagne e i compagni radicali, un grazie che - dovessi vivere mille vite - non riuscirei mai a dire come meriterebbe, per quanto avete fatto. Per quanto il partito si è battuto. Per Marco, Giovanni, Adelaide, Gianfranco… e scusate se non li ricordo tutti. Ma il mio pensiero va a coloro che ancora vivono angosce simili alla mia; e ce ne sono troppi, in questo paese. Questa battaglia io l’ho fatta per difendere uomini che non si chiamano Enzo Tortora. Il partito ha impostato una battaglia dura, ma rispettosa e i compagni hanno fatto cose meravigliose, imponendo in un paese distratto dei referendum per la giustizia giusta che oggi hanno un vero senso. Lasciatemi abbracciare tutti, davvero tutti…”.

Sono contento che Tortora sia stato assolto e non avevo dubbi al riguardo”.
(Dichiarazione di Giuseppe Margutti ripresa da un lancio Agi delle 15,03 del 15 settembre 1986)

Sono trascorsi pochi giorni dalla lettura della sentenza e Olivares si rivolge all’Italia dai microfoni del Tg1 e del Tg2. “Ha vinto la camorra”, dichiara livido di rabbia. “Quando dico questo, e ne sono convinto, mi riferisco al principio che questa sentenza ha accolto: quello che in mancanza della prova documentale non ci può essere condanna. Diciamolo chiaramente, la mia opinione è che oggi i soli pentiti veri siano i giudici della quinta sezione penale della Corte d’appello. Non escludo che i miei colleghi possano aver subìto delle pressioni indirette. Non penso che qualcuno sia andato a dir loro ‘Assolvete Tortora’. Però intorno a quel processo si era creato un clima che ho denunciato pubblicamente fin dai primi giorni. Siamo alla fine, quando la politica entra nelle aule di giustizia. Stiamo scivolando su una brutta china, prevedo conseguenze pesanti”. Achille Farina, capo dell’ufficio istruzione che rinviò a giudizio il presentatore, considera l’assoluzione un violento atto di accusa al suo operato: “Senta, noi non agiamo in base alle antipatie. Chi era, all’epoca dell’arresto, Enzo Tortora? Un signor nessuno, un presentatore di Portobello. Soltanto successivamente i radicali ne hanno fatto un emblema della giustizia”. E sulle polemiche che divampano nei palazzi romani: “Sa cosa dico? Neanche il fascismo arrivò a tanto…”. Riccardo Boccia, prefetto di Napoli all’epoca della maxi-inchiesta contro la Nco e da due anni Alto commissario per la lotta alla mafia, non ha dubbi: “Ora a Napoli tornerà la camorra, come prima”. Nelle motivazioni della sentenza il giudice Morello saprà ribattere colpo su colpo: “La valutazione della prova deve essere oggettiva perché interpretare non significa aggiungere qualcosa”. I pentiti che hanno accusato Tortora sono del tutto inaffidabili. Barra, Pandico e Melluso hanno mentito per ottenere vantaggi. Le loro testimonianze andavano “pesate, non contate. Paradossale è poi la tesi dell’accusa: se le dichiarazioni convergono valgono di più perché danno sicurezza. Se non convergono, beh, invece pure perché dimostrano che non c’è stato accordo”. Freddo, puntiglioso e misurato, Morello denuncia “la ricerca di scorciatoie nella prassi giudiziaria” e impartisce una vera e propria lezione di diritto ai suoi colleghi napoletani. “Il giudice è in taluni casi sempre meno giudice e sempre più parte, si sovraccarica dei più gravi problemi la cui soluzione spetta allo Stato. E lui, nel vuoto di intervento, fa supplenza. Il magistrato oggi lotta contro determinati fenomeni sociali, mentre il suo unico compito è quello di giudicarli. Da questo malcostume nasce l’abbassamento del livello del rispetto delle regole del gioco”.

“Dunque, dove eravamo rimasti?”. Così il 20 febbraio 1987 Enzo Tortora saluta in video il suo pubblico pochi istanti prima che parta la sigla di Portobello. Sono immagini ormai consegnate alla storia della nostra televisione: si avverte in quest’uomo un’emozione a stento trattenuta, a lungo sognata. In piedi, altrettanto commosso, il pubblico dello studio F2 di Milano gli tributa un lunghissimo e sincero applauso davanti a una platea di oltre dodici milioni di telespettatori. Il presentatore ha deciso di riprendere la sua carriera proprio dal punto in cui era stata interrotta (“Non sono un pentito. Casomai un irriducibile”). Sono passati ormai dieci anni dal primo mercatino televisivo del venerdì sera e gli autori sono quelli di sempre: Anna Tortora, Angelo Citterio e Gigliola Barbieri. La regia viene affidata a Giancarlo Nicotra (deus ex machina di Drive In) e nel cast non può non esserci la fedele René Longarini. La formula rimane sostanzialmente invariata. Alle consuete rubriche si aggiungono le interviste di Lino Jannuzzi e i collegamenti dall’estero dell’inviata Gabriella Carlucci. Al centralone telefonico, insieme ad altri cinque ragazzi, siede la diciannovenne Federica Panicucci. Il pappagallo simbolo della trasmissione viene fatto atterrare con un elicottero al suono della Cavalcata della Valchirie di Richard Wagner: scortato da dieci hostess in divisa carta zucchero, viene trionfalmente sistemato sul suo trespolo. “Torno in tv senza il coltello tra i denti né voglio tediare il pubblico con le mie vicende quando ci sono diecimila persone che hanno vissuto la mia stessa esperienza senza nemmeno la soddisfazione di chiamarsi Tortora”, aveva detto nelle settimane precedenti. Per lavorare a RaiDue, ritrovando il suo collaudato staff tecnico e la possibilità della diretta (allora negata alle televisioni private), il conduttore ha rifiutato una cifra quattro volte superiore offertagli da un insistente Silvio Berlusconi (“Guardi, è inutile. Tanto mangio due volte al giorno. Anzi ora soltanto una, per disposizione medica”). Alla televisione pubblica ha imposto una sola clausola contrattuale: precedere il suo ritorno in video con un gesto di riparazione delle troppe ferite inferte per anni alla sua reputazione professionale. Chinando la testa, la Rai ha quindi mandato in onda su Focus - il settimanale di attualità del TG2 condotto da Antonio Di Bella - un ampio servizio sulla sua vicenda giudiziaria e politica.

Nei mesi precedenti, la scelta di tornare a lavorare in viale Mazzini gli è costata una lunga e furibonda polemica pubblica con Pannella, che avrebbe senz’altro preferito un suo contratto con la Fininvest. Ma il nodo della questione è un altro, tutto politico. C’è aria di elezioni anticipate e i radicali vogliono garanzie sulla sua disponibilità a guidare nuovamente le liste del partito. Tortora nicchia (“Valuterò e deciderò”), cercando di attenuare i toni dello scontro. “Quello di Marco è un impeto d’amore. Non voglio polemizzare con colui che stimo per la sua rettitudine e che amo come un fratello. Io non ho alcuna intenzione di disertare le battaglie radicali per la giustizia e la democrazia”. Ma Pannella lo incalza. “Enzo sta per commettere un errore inaudito, incredibile, indecoroso. Se fosse per la Bbc e non per la Rai, capirei. Ma adesso - dopo tanti giuramenti di eterna dedizione alla lotta per la giustizia giusta - ha scelto TeleNusco, Biagio Agnes e gli altri. Stia attento a non diventare, in pochi giorni, il radicale della Rai-tv e del suo sistema. Altrimenti avremmo Enzo in gabbia al posto del pappagallo, in un Portobello politico di produzione partitocratica”. Al presidente del Pr si rimprovera una clausola non scritta del contratto che gli impedirebbe di prendere parte all’attività politica. “Ma non è vero. Nessun editore ha il potere di vincolare il futuro dei suoi dipendenti o collaboratori e tantomeno di privarli dei loro diritti civili e politici”. Pannella allora esibisce in televisione, leggendola, una lettera in cui il presentatore sostiene il contrario. Tortora sbotta: “Non sono un radicale a sovranità limitata. Credo di aver dimostrato a sufficienza che ci si può battere per la giustizia anche senza essere deputato”. E’ il dicembre 1986 e il Partito radicale è impegnato con tutte le sue forze a raggiungere, per la prima volta nella sua storia, l’obiettivo dei diecimila iscritti. “O lo scegli o lo sciogli”: in caso di fallimento si torna tutti a casa. Tortora - che, per protesta contro l’indifferenza dei media alla campagna straordinaria, si era dimesso dal vertice del partito insieme al segretario Giovanni Negri - conferma la sua scelta di non essere più il presidente del Pr. “Continuerò a fare il mio dovere da semplice iscritto”.

Il 13 giugno 1987 la prima sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Roberto Modigliani, lo assolve definitivamente con formula piena. Viene così accolta la richiesta dello stesso procuratore generale Antonio Valeri. L’irriducibile Olivares aveva accompagnato il suo ricorso (un vero e proprio volume 78 pagine) con dichiarazioni al vetriolo riprese da tutti i giornali. “Sulla colpevolezza di Tortora non ho avuto e non ho ombra di dubbio per il traffico di droga. Avevo qualche perplessità per la sua appartenenza alla Nco ma solo fino a quando non è stata rilevata la confluenza della banda Turatello nelle fila dell’allora potente organizzazione di Cutolo”. Addirittura il magistrato aveva scritto di “attendere una parola chiara e definitiva sulle pressioni politiche di ogni genere, tutt’ora in atto” che hanno portato alla sua assoluzione, denunciando “l’incidenza che queste possono avere sulla certezza del diritto per il turbamento che ne può derivare alla serenità dei giudici”. E i pentiti? “Non si può pretendere di affermare che non contino nulla”. Le motivazioni della sentenza della Suprema Corte, depositate il 15 marzo dell’anno dopo, lo smentiranno una volta per tutte. Rancori personali, manie di grandezza, fandonie inventate per millantare ruoli importanti all’interno della camorra: questi i veri motivi della collaborazione dei pentiti. Il verdetto di assoluzione “fu aderente alle risultanze probatorie, valutate e interpretate secondo le regole della logica. Quando le dichiarazioni dei pentiti non offrono il minimo riscontro non possono servire in alcun modo a infliggere condanne”.

Milano, corso di Porta Vigentina 15/A. Nello stanzone della sede radicale Tortora solleva le dita in segno di vittoria: l’80,5 per cento degli italiani ha appena votato sì al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, appoggiato anche dal Psi e dal Pli. E’ il 9 novembre 1987. “Stanotte, per la prima volta, potrò dormire tranquillo, sapendo che le mie manette non sono state inutili. Sono servite a cambiare la giustizia italiana e ad affermare un principio che altre legislazioni avevano recepito da tempo. Anche per noi è giunta una conquista di civiltà. Sono felice. E’ una vittoria che in me non ha nulla di astioso né il sapore della vendetta”. Il giorno dopo Olivares si dimette dalla magistratura: “Il referendum segna una paurosa involuzione democratica tesa a neutralizzare l’azione dei magistrati”. A Castel Capuano hanno i nervi tesi. Il procuratore generale Franco Vessia dichiara al Secolo XIX: “Non conosco direttamente il processo Tortora ma so che alla fine non è stato un processo solare né limpido”. Il cronista Franco Manzitti raccoglie anche le confidenze di un magistrato che chiede l’anonimato. “Tortora è stato un evento programmato… E’ servito ai radicali, sotto la regia del Psi, per far esplodere la questione della responsabilità dei giudici… Il processo Tortora è stato tutto meno che un processo giusto, sia prima che dopo. Sulla prima condanna di Tortora era stato costruito un castello ad arte. Per processare poi la magistratura… Noi magistrati siamo intimiditi, condizionati, subordinati”. “Mi verrebbe da ridere, se tutto ciò non fosse semplicemente disgustoso”, replica il presentatore. “Sarei stato dunque io l’agente provocatore dell’arresto di me stesso, delle bestialità altrui, della mia condanna, della mia galera ingiusta e indegna. La verità è esattamente l’opposto. Ci sono magistrati che gestiscono processi al solo fine di esaltare la propria immagine e di curare i loro rapporti con l’opinione pubblica e con il mondo politico. E pretendono addirittura di gestire la memoria storica, la verità di tali processi, anche quando le malefatte sono venute alla luce e se ne è fatta giustizia da parte di altri magistrati seri e onesti”. Qualche settimana dopo a Genova, al congresso dell’Anm che si svolge sulla nave Achille Lauro, Olivares, riferendosi al caso Tortora, dichiarerà che “un errore giudiziario non è solo quando si condanna un presunto innocente ma anche quando si assolve un presunto colpevole”.

Ora che è definitivamente assolto, Tortora passa al contrattacco. Querela Margutti e sua moglie, quindi presenta un lungo esposto al ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e al Procuratore Generale della Cassazione Vittorio Sgroi, sollecitando l’apertura di un procedimento disciplinare non solo nei confronti di tutti quei magistrati che si sono occupati direttamente del suo caso ma anche nei confronti dei titolari degli uffici giudiziari che non hanno vigilato né esercitato il dovuto controllo sull’intera maxi-inchiesta, avvallando così una serie di clamorosi errori. Al tempo stesso – è il 12 dicembre 1987 – si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiedendo la condanna dell’Italia per i suoi mille giorni trascorsi ingiustamente in carcere o agli arresti nella sua abitazione milanese. Infine intenta una causa contro lo Stato e i magistrati Di Persia e Di Pietro, Fontana e Sansone, Dente Gattola e Fiore. Chiede un risarcimento di 100 miliardi di lire per i danni professionali e umani subìti: una cifra imponente ma giustificata dalla privazione della libertà per 22 mesi, dalla lesione dell’onore e dalla reputazione, dai danni permanenti alla salute così come dalle spese giudiziarie e dai mancati guadagni professionali. Serviranno a finanziare una Fondazione europea che porti il suo nome e che si batta per la tutela dei cittadini vittime della giustizia. La corporazione reagisce. Il giudice veneziano Ennio Fortuna, già membro del Csm, commenta: “E’ un’iniziativa che sa di vendetta. Lo scopo dell’iniziativa non è di perseguire il risarcimento di un danno materiale ingiustamente subìto ma di pubblicizzare ulteriormente un preteso sopruso e di vendicarsene, se pure indirettamente. Non credo che si tratti di uno scopo commendevole”. Il giudice Fiore replica arrogante: “Sorrido nel sentire questa storia dei danni che dovremmo pagare. Chiunque mastica un po’ di diritto sa infatti che colui che promuove azioni temerarie, cioè con pretese manifestamente infondate, può essere costretto a coprire i costi del giudizio”. L’immancabile Olivares dichiara all’Europeo che “la tendenza allo spettacolo è una delle note caratteriali dei radicali. Ma a questo punto mi sa che si stia scadendo nel tragicomico. Cento miliardi di risarcimento non oserebbe chiederli la Regina Elisabetta indebitamente arrestata per furto”.

7 aprile 1988. Già operato un anno e mezzo prima per un tumore alla vescica e ora ricoverato d’urgenza per una doppia ernia del disco alla colonna vertebrale, Tortora – che ha concluso a fatica le ultime puntate di Giallo, la sua ultima trasmissione televisiva – trascorre ormai la maggior parte del tempo a letto. Solo pochi famigliari sono ammessi al suo capezzale. Marco Pannella e gli altri compagni radicali si tengono costantemente in contatto con lui per telefono. Le notizie che devono dargli non sono affatto buone. Nonostante un durissimo ostruzionismo radicale (il capogruppo Francesco Rutelli, espulso dalla commissione Giustizia della Camera, è stato portato via di peso dai commessi insieme a Pannella), il Parlamento ha appena approvato una legge-truffa sulla responsabilità civile dei giudici che ribalta in maniera clamorosa la limpida volontà popolare espressa con il voto referendario. Seguendo una procedura farraginosa, il risarcimento potrà essere chiesto dal cittadino soltanto allo Stato (e quindi a spese di tutti i contribuenti) e unicamente nei casi di colpa grave od omissione di giustizia. Se condannata, la pubblica amministrazione potrà rivalersi economicamente sul giudice, costringendolo a pagare una parte del risarcimento (fino a un massimo del terzo dello stipendio).
Tortora si appella inutilmente al presidente della Repubblica Francesco Cossiga perché non promulghi la legge. “Se queste ore scottano, bruciano non è già perché siano le ultime. Io sto vivendo, in questi giorni, come non mai. Potrei anche aggiungere che sono già morto tante volte e che, per queste morti, da compiangere non vi sono che gli autori. Se queste ore bruciano, e bruciano, è perché ieri il Parlamento ha compiuto il misfatto, mettendo a ferro e fuoco principi insuperabili, la Legge stessa, il libro fondamentale che è la nostra Costituzione, la fiducia e la possibilità di una pacifica convivenza. Scrivo ‘Parlamento’ e sarebbe bene leggere ‘la Partitocrazia’, di nuovo unificata, con la solita eccezione nostra, del Partito radicale”.
Quello stesso giorno rivela ai giornalisti di avere un tumore ai polmoni. “Il destino vuole che le mie condizioni di salute siano divenute molto gravi proprio mentre si tradiscono Costituzione, referendum, giustizia e diritti. Accelererò e aggraverò, quindi, le mie iniziative contro realtà criminali che si mascherano come giustizia. Da uomo, da cittadino, da radicale, lotterò fino all’ultimo respiro”. Fa discutere la scelta di parlare pubblicamente di una malattia allora quasi indicibile. E ancora di più la tesi di Tortora che rivendica l’origine psicosomatica del nuovo tumore, riconducendola allo stress subìto negli ultimi anni. In diversi si chiedono se sia accettabile che un uomo minato dalla malattia sia sotto i riflettori di una pur legittima campagna politica. “Ma la mia non è un’invocazione di querula pietà. E’ una dichiarazione di guerra. Io ho intenzione di battermi con tutte le forze”, ribadisce per l’ultima volta a Enzo Biagi. La sua vita si spegne lentamente e già gli sciacalli avanzano. Colpo di teatro, spettacolarizzazione del dolore, manìa di esibizionismo: queste le ultime accuse. Insomma, la gravità della malattia sarebbe ingigantita ad arte per meglio sostenere la sua causa di risarcimento danni.

Enzo Tortora muore il 18 maggio 1988, nella sua casa milanese di via dei Piatti. A darne la notizia intorno a mezzogiorno è un commosso Marco Pannella che interrompe alla Camera il dibattito in corso sulle riforme istituzionali. “Era un uomo di cultura e non di potere, né nelle istituzioni né nella professione. E’ forse l’unico che si sia conosciuto in questi decenni che amasse il beau geste, lo stile, l’eleganza, riuscendoli. Lo amasse, ripeto. Non che lo divertisse. E il suo dimettersi dal Parlamento europeo fu gesto unico, nelle circostanze in cui accadde. Non a caso su questo la memoria nazionale è stata subito ferocemente aiutata a dimenticare, a non capire. Era un liberale. E accadde anche a lui di doverlo essere ‘altrove’ per meglio esserlo, fino alla fine. Era un radicale. Fu lui a scoprire tante pagine e frasi di Voltaire che spiegavano meglio a noi stessi quel che eravamo andati facendo e tentando, nelle carceri e altrove. Era, dicono, un ‘presentatore’. Ma nessuno come lui ha ‘rappresentato”, e non ‘presentato’ o commentato, la passione per la giustizia, l’amore per coloro che la condividevano o per coloro che ne soffrivano la mancanza o la violenza. Era anche capace di essere spietato. Ma la carità è dura, non melassa. Ha conosciuto anche lo strazio dell’aver intelligenza e ragione: perché quel che la ragione e l’intelligenza vedono oggi è e non può essere che dolore, causa di dolore”. Poi un minuto di silenzio, con tutti i deputati in piedi. La notizia si diffonde subito in tutto il Paese. L’emozione è profonda, vivissima. Il giorno dopo almeno settemila persone si stringono nelle tre larghe navate della Basilica di Sant’Ambrogio per assistere ai funerali. Nel sagrato antistante un grande striscione dei radicali - “Grazie Enzo, ti vogliamo bene” - sovrasta una folla intrisa di dolore e come incredula. Una semplice bara in noce (al suo interno, accanto al cadavere, una copia de ‘La colonna infame’ di Alessandro Manzoni) viene sistemata davanti all’altare tra quattro ceri, quasi compressa dalla marea dolente dei moltissimi che si mescolano ai dirigenti radicali e ad alcuni suoi colleghi del mondo dello spettacolo. Flash impazziti, pianti dirotti e urla strazianti, tensione palpabile ma controllata. Le note della quarta sinfonia di Gustav Malher, eseguite dall’orchestra della Rai, segnano lo stacco tra la parte religiosa della cerimonia e quella laica. Il sindaco di Milano Paolo Pillitteri prende la parola a nome di tutti i suoi concittadini, definendolo “un innocente sacrificato sull’altare dell’ingiustizia che si è caricato sulle spalle i fardelli altrui”. L’orazione funebre è del senatore radicale Gianfranco Spadaccia. Per la prima volta un anticlericale si rivolge dal pulpito di una chiesa, più volte interrotto dagli applausi dei fedeli: “Caro Enzo, non sei stato l’interprete di una commedia all’italiana ma di un’autentica tragedia. E sei stato all’altezza del ruolo. Lo devono ammettere tutti adesso, anche quelli che in passato ti giudicavano con spocchia, perché parlavi attraverso i sentimenti alla gente comune. Qualcuno ha scritto che sei morto senza una parola di perdono. Tu non hai mai pronunciato parole di vendetta, ma soltanto di giustizia. Finalmente ora puoi riposare in pace. Tocca a noi continuare”. Leonardo Sciascia gli dedica su Corriere della Sera un ultimo saluto. “L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. Il giorno dopo la salma verrà cremata al cimitero monumentale di Milano. Sull’urna, appunto, una sola frase: “Che non sia un’illusione”.

La morte di Tortora mi ha colpito emotivamente perché ne posso essere responsabile indiretto. Purtroppo sono un collaboratore e non ho fatto altro che il mio dovere civico”.
(Telegramma di Gianni Melluso trasmesso all’Agenzia Ansa)

Vent’anni sono passati da quella notte e le ceneri di Enzo Tortora aspettano ancora giustizia. Oggi sappiamo che le cause intentate presso il Tribunale civile di Roma e la Corte europea dei diritti dell’uomo si sono insabbiate in un mare di cavilli e che non uno degli inquisitori ha pagato una lira o un’oncia della propria carriera (che quella, anzi, è avanzata tranquillamente per anzianità). Eppure, poche settimane dopo la sua morte, familiari e compagni di partito coltivano una timida speranza di giustizia postuma. Il trauma per la sua scomparsa è ancora troppo forte per non lasciare qualche traccia. Il presidente della Corte Costituzionale Francesco Saja ammonisce infatti che il caso Tortora deve diventare un’occasione di riflessione per tutti i magistrati: “Prima di adottare, in materia penale, provvedimenti relativi alla libertà personale di un soggetto è indispensabile avere degli elementi, sia pure indicati dalla legge come indizi, che possano dare una convinzione oggettiva della reità dell’imputato. La libertà personale è il bene fondamentale del cittadino”. Nella corporazione togata affiorano i primi contrasti. Per il segretario di Magistratura democratica Franco Ippolito “non si può continuare a tacere sui comportamenti tenuti da alcuni colleghi. La vicenda drammatica di Enzo Tortora ha costituito una lacerazione profonda che ogni magistrato dovrebbe sentire, bruciante, dentro di sé. E impone alla magistratura una doverosa e dolorosa autocritica”. Il presidente dell’Anm Raffaello Bertoni reagisce alle accuse radicali (Pannella continua a parlare di “lordure napoletane”) e invoca un intervento del capo dello Stato per “far cessare questa insensata campagna di denigrazione in atto contro i giudici”. Lo smentisce il suo stesso segretario generale, Edmondo Bruti Liberati: “Non giova alla magistratura napoletana e ai moltissimi giudici che lavorano con scrupolo e serietà che si parli di loro genericamente per accusarli o per difenderli. Non esiste una magistratura napoletana, esistono i singoli giudici. E alcuni di loro hanno agito in modo censurabile”. Cossiga convoca entrambi al Quirinale e riafferma salomonicamente il principio della tutela più ampia dell’indipendenza della magistratura così come quello della libertà di opinione. Acqua fresca. La battaglia infuria sui giornali e a colpi di carta bollata. Anche perché - adesso che Tortora non c’è più - i suoi giudici avanzano di nuovo allo scoperto. Di Pietro, Di Persia e Fontana tentano la carta estrema della querela per calunnia contro gli avvocati Giandomenico Caiazza e Vincenzo Zeno-Zencovich che per conto suo avevano firmato l’atto di citazione che chiede la loro condanna e il conseguente risarcimento dei danni. Ma il più scatenato è Di Persia, che nel 1986 è stato promosso a membro del Csm: lui vuole addirittura riscrivere il processo. Il Mattino pubblica in esclusiva un suo lunghissimo memoriale difensivo (40 cartelle dattiloscritte) indirizzato al ministro Vassalli e allo stesso Csm. “Ho anch’io il diritto di difendermi. E lo faccio. La gente ha finito con il convincersi che l’abbiamo inquisito per un caso di omonimia, per l’incerta trascrizione di un cognome, se non addirittura per le delazioni di un mitomane. Non è così. Tortora ha fatto ricorso a grossolane falsità e a veri e propri travisamenti della realtà. Fino a diventare una sorta di capro espiatorio di chissà quale intrigo ordito da giudici perversi e da pentiti. E tutto questo per dimostrare all’opinione pubblica la sua obiettiva e assoluta estraneità. La verità invece è che Tortora, già prima della disinvolta sentenza di secondo grado, aveva iniziato a battere la grancassa, ad avviare una sottile campagna di alterazione della verità per guadagnarsi i favori dell’opinione pubblica. Mi viene il sospetto che gli invero poco accorti giudici di appello abbiano, in più di un passaggio, motivato la loro sentenza tenendo in maggior conto gli articoli dei giornali, le opinioni dell’imputato e dei tanti suoi sostenitori, che fornendo spiegazioni accettabili sul piano del corretto esame degli atti e del buon uso delle prove che presiedono al governo del processo. E’ comprensibile anche se difficilmente giustificabile che abili difensori ricorrano ad ogni mezzo, dal sottile travisamento dei fatti al subdolo coinvolgimento degli inquirenti, ma non è certo consentito a magistrati di appello di accogliere con tanta superficialità e senza alcun vaglio critico messaggi di tal fatta e porli addirittura a fondamento della sentenza d’assoluzione, calpestando oltretutto con affermazioni proditorie e gratuite professionalità specchiate e testimoniate da anni di duro e difficile impegno”. Ancora una volta viene zittito dal giudice Morello: “Per poter condannare Tortora avremmo dovuto affermare un’infinità di bestialità. Lo abbiamo invece giudicato con indipendenza, serenità e chiarezza. Disturbando molte persone, per ultimo Di Persia”. Radicali e Md chiedono invano le immediate dimissioni di quest’ultimo dal Csm.
Intanto, dopo un’istruttoria durata quattro mesi, l’ispettore ministeriale Ugo Dinacci presenta in via Arenula la relazione conclusiva sull’indagine sollecitata a suo tempo dall’esposto di Tortora. Le sue conclusioni? Sostanziale assoluzione per tutti i magistrati napoletani coinvolti nella vicenda. Il ministro Vassalli non ne tiene conto e il 31 agosto 1988 promuove comunque un’azione disciplinare nei confronti di Di Persia e Di Pietro, Fontana e De Lucia. “Decine di volte – dichiara – è stato violato l’articolo 304 del codice di procedura penale. Una violazione gravissima: un’enorme quantità di imputati è stata interrogata senza l’assistenza di un difensore”. E’ il caso di Pandico, Barra e Melluso. Durante gli interrogatori-fiume si sono autoaccusati, diventando automaticamente degli imputati. In quel preciso momento, secondo la legge, i quattro magistrati avrebbero dovuto interrompere gli interrogatori e nominare dei difensori. E così, secondo le conclusioni di Vassalli, a Napoli non è stato violato il diritto della difesa: i ‘perseguitati’ furono invece i pentiti che accusavano. Un paradossale capovolgimento. Di tutta la mole delle accuse riversate sui giudici napoletani resta ben poco: una semplice violazione procedurale. I radicali insorgono contro il comportamento ambiguo del Guardasigilli, definendo il tutto “un colossale imbroglio”. Di Persia è in bilico (per la prima volta un membro del Csm si trova sottoposto a un procedimento disciplinare che lo porterebbe a essere processato dall’organo di cui fa parte), Fontana addirittura furibondo: “E’ una vergogna. Non intendo subire alcun procedimento disciplinare. Mi dimetto dalla magistratura. Il ministro ha rispolverato il caso Tortora solo per motivi politici. Lo denuncerò per interesse privato in atto d’ufficio o quanto meno per abuso d’atti di ufficio. E’ un socialista e in quanto tale non poteva vanificare cinque anni di battaglie politiche del suo partito, dichiarando che l’istruttoria su Enzo Tortora si è svolta nel rispetto della legge”. Bertoni lancia l’allarme dal suo fortino: “Ormai siamo alla mercé dei politici. Ognuno dei settemila giudici italiani, chiamati quotidianamente a prendere decisioni, non sa più se il giorno dopo si troverà sulle pagine dei giornali o davanti al Csm”. Seguono mesi di polemiche e accuse incrociate, di interpellanze parlamentari e nuovi esposti radicali, con la corporazione togata che minaccia scioperi e dimissioni in massa.
Mai come stavolta, tanto rumore per nulla. La sera del 20 aprile 1989 il plenum del Csm vota infatti a maggioranza (17 voti a favore, 11 contrari, 2 astenuti) l’archiviazione di ogni accusa nei confronti dei giudici che decisero l’arresto e la condanna di Tortora. Viene approvata la relazione della prima commissione referente: “I giudici di Napoli lavorarono con serietà. Mancò nei magistrati inquirenti e in quelli di primo grado qualsivoglia preordinazione dolosa. I pentiti furono loro segnalati da altri organi giudiziari come soggetti qualificati e attendibili per la raccolta delle prove. E un fatto è certo: dopo il maxiprocesso la sigla Nco è quasi scomparsa dalla mappa criminale della nazione”. E’ un clamoroso colpo di spugna. Alle argomentazioni di Giancarlo Caselli (l’esponente di Md aveva denunciato la “sciatteria” e anche altre “gravi omissioni” dei giudici napoletani: gente arrestata per omonimia e tenuta in galera per due anni e mezzo, presunti camorristi riconosciuti sulla base di foto segnaletiche, imputati trattenuti in galera senza indizi) i colleghi preferiscono la generale chiamata in correo di Marcello Maddalena: “Sbagli, Giancarlo, a dire che fare errori di omonimia non è fisiologico in certe inchieste, perché questi errori li abbiamo fatti tutti. Io per primo. Per questo faccio qui, in questa sede, un atto di autodenuncia”. Chiosa finale del cinico Vincenzo Geraci (“Il calvario di Tortora? Quando si mangia si fanno le briciole”) e poi via, tutti a casa. Che si è fatto tardi.

Vent’anni sono passati dall’arresto del suo cittadino più popolare e Genova non ha ancora tributato a Tortora il tardivo riconoscimento dell’intitolazione di una piazza, di una strada, fosse anche di un carrugio del suo centro storico. Paola Balbi, assessore pidiessina al decentramento, respinge nel 1992 una prima petizione popolare. Motivo? “Enzo Tortora non è abbastanza conosciuto a livello nazionale”. Il 27 luglio 1994 il Comune boccia un’analoga mozione del consigliere della Lista Pannella, che pure partecipa della maggioranza che sostiene il sindaco (e giudice) Adriano Sansa. Questa volta il pretesto è più raffinato. Siamo in piena rivoluzione giustizialista e figuriamoci se si può dedicare una strada alla vittima di un clamoroso errore giudiziario. Per il capogruppo del Pds Ubaldo Benvenuti “parlare di giustizia giusta proprio mentre è in atto un conflitto tra governo e giudici suona come una presa di posizione contro questi ultimi”. A centinaia le telefonate indignate dei lettori intasano i centralini dei quotidiani locali. Silvia Tortora scrive pubblicamente al sindaco: “Non ero al corrente dell’iniziativa e debbo dire che ormai in undici anni dall’inizio del caso Tortora ho fatto un po’ il callo a questo genere di rimozioni collettive. Quindi mi permetta di non esprimerle proprio nulla. Perché nulla mi interessa delle sue delibere e tanto meno di quelle del suo consiglio comunale. Leggo però che la motivazione presa per rifiutare una titolazione stradale a mio padre sarebbe la seguente: per non entrare nella polemica con i giudici di Mani pulite. Mi sfugge il nesso. Ma una cosa è certa: la mamma dei fessi è sempre incinta”. Il pidiessino Michele Casissa replica qualche giorno dopo su Il Secolo XIX che “la richiesta è inopportuna e strumentale. Inopportuna perché entra nel merito di fatti giudiziari ed è oggettivamente un attacco generalizzato ai giudici, continuativo di quella strategia pannelliana e berlusconiana che li definisce assassini e un’associazione a delinquere. Strumentale perché presentata due giorni dopo l’emanazione del decreto Biondi. Rinviamo il tutto a un momento più sereno”. Alla fine, insomma, anche il piccolo Big Ben di Palazzo Tursi ha detto stop.

Pensi di aver commesso qualche errore?” “Sì, il passaporto. Aver preso un passaporto sbagliato”.
(Enzo Tortora a Enzo Biagi, Il caso, Rai Uno, 12 aprile 1988)

Vittorio Pezzuto