Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  giovedì 23 giugno 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Risorgimento scomunicato (8)

di Vittorio Gorresio

Molto correttamente, tuttavia, il 12 novembre 1873 Quintino Sella inviava un proprio funzionario in Vaticano a presentare al cardinale Antonelli, perché la rimettesse a propria volta al pontefice, una cartella nominativa di 3 milioni e 225 mila lire in rendita iscritta nel gran libro del debito pubblico a favore della Santa Sede apostolica. L’involto, che conteneva il titolo di rendita era “elegantissimo” ed il titolo stesso, che rappresentava l’importo della lista civile del papa secondo la determinazione della legge delle guarentigie, era stato “foggiato con gran lusso tipografico”. Cionostante il cardinale Antonelli “rifiutò perfino – si legge nei giornali di quei giorni – di gettarvi l’occhio sopra”. Il lusso tipografico e l’eleganza della confezione erano andati dunque sprecati, e il funzionario di Sella si riportò la cartella al ministero. Il 6 dicembre Sella dava conto dell’accaduto in Parlamento e fra i rumori della sinistra comunicava che a partire dal giorno 13 del decorso novembre aveva avuto principio “la data del quinquennio dopo il quale sarebbe rimasto prescritto e perduto ogni diritto della Santa Sede a riscuotere quel credito dal Tesoro Italiano”.

A questo punto è necessario aprire una parentesi, anche se in modo non formale. L’atto compiuto dallo Stato nell’offrire alla Chiesa il versamento dell’annualità non fu tenuto in conto alcuno dalla Santa Sede. Sappiamo infatti da una pubblicazione curata da Mario Missiroli nel 1929 che le prime richieste finanziarie del Vaticano, quando si iniziarono le trattative per la conciliazione furono così enunciate nell’articolo 10 del progetto di accordo formulato dal Vaticano: “In relazione alla dotazione annua che era stata assegnata al Sommo Pontefice con l’articolo 4 della legge italiana 13 marzo 1871 n.214 e che non fu mai versata…l’Italia s’impegna a versare alla Santa Sede la somma di lire italiane due miliardi. Tale somma sarà pagata in…rate annuali di lire…ciascuna con gli interessi scalari del cinque per cento a cominciare dal…”.

Nel 1929 la somma di due miliardi faceva molta impressione, tanto che Mussolini, quando dovette parlarne alla Camera, disse il 14 maggio: “Saputosi che esisteva una convenzione finanziaria, anzitutto, per arrotondare le cifre, si è detto che si trattava di due miliardi. Molto meno! Si tratta, infatti, di 750 milioni in contanti e di un miliardo in consolidato, il quale però, non è piacevole il constatarlo, si può comperare oggi con 800 milioni. Sono dunque 1550 milioni, ma di lire carta. Bisogna dividere per 3,66: sono 400 milioni di lire oro. Poco, quando voi pensate, e scommetto che non ve ne spaventate affatto, che noi abbiamo duecento miliardi di debiti. La cifra è una di quelle che fanno rabbrividire, ma noi rimandiamo i brividi a migliore stagione. Cosa sono 400 milioni di lire oro?...Tuttavia la Santa Sede – ed anche qui bisogna riconoscere che il Sommo Pontefice è venuto incontro molto liberamente ai nostri desideri – in base ad accordi intervenuti, allo scopo esclusivamente di evitare aggravi alla circolazione bancaria, non ne farà prelevamento alle casse della Banca d’Italia, se non gradualmente. Altre assicurazioni ha fatto la Santa Sede circa l’uso del miliardo del debito pubblico, confermando così quella fiducia nel nostro maggior titolo azionario, dimostrata con la firma degli accordi finanziari. Voglio dire ancora che non mi dispiace di aggiungere il peso di questa somma a tacitazione del passato e a garanzia di tutto il futuro”.

Era comunque stata messa a tacere essenzialmente la norma della legge italiana che dichiarava prescritti di quinquennio in quinquennio i crediti della Santa Sede verso lo Stato. Ora diremo, per riprendere il racconto ordinato, che mentre Sella dava alla Camera la notizia della ripulsa della Santa Sede andavano alle stampe gli articoli del disegno di legge contro le corporazioni religiose, e che Pio IX nella allocuzione natalizia di quell’anno ne parlava come di cosa “ripugnante al diritto naturale e sociale” onde diceva di essere nel dovere di stigmatizzarlo con parole d’esecrazione condannandolo a nome degli apostoli san Pietro e Paolo, e di voler con ciò colpire qualsivoglia altro schema di legge “che si fosse arrogato la potestà di affliggere, vessare, diminuire, sopprimere le famiglie religiose in Roma e nelle circostanti famiglie, e privar quasi dei suoi beni la Chiesa, e addirgli al fisco, o in altro modo erogargli”: e perciò dichiarava irrito e nullo ogni acquisto dei beni tolti alle congregazioni religiose. Disse anche parole molto acerbe contro i governi della Germania, della Svizzera e della Spagna, minacciò le più severe censure spirituali contro gli autori e i fautori della legge “iniqua e funesta”.

Il 6 maggio fu messa all’ordine del giorno della Camera e subito cominciarono gli attacchi contro il progetto governativo, soprattutto sul punto controverso del mantenimento delle case generalizie. I deputati Damiani e Cesarini affermarono che conservando tale privilegio nella provincia di Roma ci si umiliava di fronte alla Chiesa e le si davano altri mezzi per combattere lo Stato. Luigi Miceli disse che se Lanza e i suoi amici della destra continuavano ad assoggettare lo Stato alla Chiesa, un giorno avrebbero avuto a pentirsi di essere stati i becchini della monarchia. Il deputato Billia osservò che il papa aveva a sua disposizione una congregazione di vescovi e poteva quindi fare benissimo a meno dei generali degli ordini religiosi per il governo della Chiesa. Emanuele Ruspali invitò il Parlamento a togliere dalla nobile fronte di Roma l’emblema della città teocratica. Pasquale Stanislao Mancini infierì contro il governo servile di fronte alla Chiesa ed ammonì i ministri: “Sarebbero inutili i vostri conati se voleste alterare il carattere nazionale dello spirito italiano. Questo spirito, essenzialmente antipapale ed anticlericale, passò, checché se ne dica, attraverso i secoli. È un deposito che dall’uno all’altro si trasmisero i nostri grandi geni. Arnaldo, Dante, Machiavelli, Sarpi, Giannone con la splendida scuola dei giuristi napoletani, la magistratura subalpina, le nostre università, tutti non hanno fatto che proclamare la necessità di combattere incessantemente l’ultramontanismo, di resistere alle invasioni e agli abusi del papismo e del clericalismo. No! Non sarà il ministro Lanza che potrà venire dinanzi all’Italia, e quali che siano i suoi mezzi di azione e d’influenza, intimarle d’inchinarsi al Vaticano e rinunziare alla sua storia!”.

Un po’ di distensione fu portata da un discorso di Borghi, moderato ed umoristico ad un tempo: “Io agli ordini religiosi ho fatto questa grandissima ostilità, nella mia vita, che non mi sono frate (ilarità) e che non ho mai consigliato nessuno a farsi frate. Gliene ho fatta anzi e gliene fo una più grande ancora, che ho dei figliuoli e non li mando a scuola dai frati (ilarità prolungata) mentre vedo moltissimi i quali dei frati dicono assai più male di me, ma mandano i loro figli a scuola dai frati (nuova ilarità)”.


Tre giorni dopo, il 17 maggio, Ricasoli trovò la via di un compromesso tra le due parti della Camera: non si riconosceva il diritto alle case generalizie degli ordini religiosi di avere alloggio o residenza in Roma, ma si concedeva al governo la facoltà di consentire ai padri generali ed ai procuratori di dimorare nella sede romana fino allora posseduta, fin tanto che non avessero cessato di esercitare il loro ufficio. Così mentre si escludeva la requisizione degli edifici dei generalati, si toglieva ad essi ogni riconoscimento giuridico, I beni delle corporazioni religiose venivano confiscati a beneficio della congregazione di carità, del municipio e della provincia di Roma e alla Santa Sede veniva assegnata una rendita annua di 400.000 lire per le necessità degli ordini religiosi esistenti all’estero e finché la Santa Sede non avesse creduto bene di disporre di quella somma, il governo ne avrebbe affidato l’amministrazione ad enti ecclesiastici giuridicamente esistenti in Roma.

Questo capolavoro di compromesso fu approvato con 220 voti favorevoli di fronte a 193 contrari, ma per riaffermare l’intransigenza della gran parte Mancini tentò un altro grave colpo. Sopprimendosi gli ordini religiosi, venivano soppressi naturalmente anche la Compagnia di Gesù: ma questa parità di trattamento non bastava a Mancini: egli infatti propose che ai gesuiti venisse tolto anche il diritto di riunione, in qualunque numero di persone. Lanza si oppose vivacemente in quanto i gesuiti, ridotti alla condizione di privati cittadini, non potevano essere posti fuori della legge. Privare del diritto di associazione individui non riconosciuti rei, non sottoposti ad alcun processo, era violare nel modo più aperto il principio di libertà e lo stesso diritto comune.

Quintino Sella, di rincalzo, parlò a favore di padre Angelo Secchi, onore e lume della scienza, proponendo che gli fosse lasciata la direzione dell’osservatorio astronomico, e finalmente toccò ancora a un deputato di destra, il pugliese Orazio De Donno, dazegliano in gioventù, di trovare la via d’uscita, proponendo un regime di particolare severità non illegale tuttavia, da praticare contro i gesuiti: al rappresentante della Compagnia di Gesù non venivano cioè fatte le stesse concessioni riservate alle altre case generalizie di continuare nel godimento della sede posseduta.

Il 27 maggio tutta la legge fu votata ed approvata, ed il Senato la approvò a sua volta il 17 giugno, e forse è inutile avvertire che le scomuniche infierirono: la legge fu dichiarata “irrita e nulla” dal papa e coloro che l’avevano proposta, approvata e sancita, insieme ai fautori, aderenti, consultori ed esecutori ed ai compratori dei beni ecclesiastici erano compresi nella scomunica maggiore e si trovavano pertanto “in pericolo manifesto di eterna dannazione”.

Gli esecutori della legge e gli acquirenti dei beni mostrarono però di tenerne poco conto: in un solo mese si vendettero 1397 lotti dell’asse ecclesiastico con un aumento medio del 25 per cento del prezzo di aggiudicazione rispetto al prezzo d’asta. Le cartelle del nuovo titolo della rendita ecclesiastica erano pregiati e ricercati, tenendosi il loro corso costantemente superiore a quello degli altri titoli di Stato, visto che gli operatori economici del tempo erano poco sensibili ai decreti del Sant’uffizio.

Ugualmente imperturbabili, gli organi del ministero della giustizia diedero 15 giorni di tempo per lo sgombero di quattro conventi dei gesuiti (del Gesù, di Sant’Ignazio, di Sant’Eusebio, di Sant’Andrea del Quirinale), di uno dei chierici minori (a San Lorenzo in Lucina) e di uno dei minori osservanti (all’Ara Coeli). Avendo i religiosi protestato, due giorni dopo i commissari della giunta liquidatrice dell’asse ecclesiastico presero possesso effettivo degli edifici, distribuendo af ogni padre una cartella del debito pubblico a titolo di pensione. Protestarono anche i superiori di tutti i collegi internazionali di Roma – per mezzo del loro decano che dirigeva il collegio inglese – e nel termine di dieci giorni dall’avvenuto pronunciamento il governo emise altri due decreti per l’esproprio di altri sette conventi: di San Marcello, di Sant’Andrea delle Frate, del residuo del convento dei Santi Apostoli, del residuo del monastero di San Silvestro e Stefano in capite, di San Paolino alla Regola, di San Pietro in Vincoli e case annesse, di Santa Maria in Campitelli.

Non essendosi mostrata sufficiente la protesta dei superiori degli ordini religiosi italiani né avendo avuto migliore effetto quella dei superiori dei collegi internazionali, protestò ancora lo stesso papa, e formalmente, con un’enciclica del 21 novembre 1873: “E’ meglio per noi il morire che vedere lo sterminio delle cose sante. Per fermo,m da che quest’alma nostra città, Dio permettente, fu presa colla forza delle armi ed assoggettata al reggimento di uomini dispregiatori del diritto, nemici della religione, per i quali non ci ha distinzione veruna per le cose divine ed umane, non passò quasi alcun giorno che al nostro cuore, già piagato da ripetute ingiurie e vessazioni, non si recasse una nuova ferita. Risuonano tuttavia alle nostre orecchie i lamenti ed i gemiti degli uomini e delle vergini appartenenti a religiose famiglie, che, cacciati dalle loro case e ridotti all’indigenza, ostilmente vengono afflitti e dispersi”.

Di lì a poco il governo prese possesso del convento dei camaldolesi a San Gregorio a monte Celio ed espropriò i terreni postini Roma presso le vie Antoniana e Santa Balbina intestati al collegio di San Bonaventura dei minori conventuali dei Santi Apostoli: “La rendita offerta in corrispettivo del fondo espropriato – informano i giornali – è di lire 2000. Appare perciò chiaro pur tra la serie degli errori e delle intemperanze, che una sola restava la strada da seguire da parte dei governi liberali: coraggio e audacia, spregiudicatezza portata fino al segno da poter essere confusa con la mancanza di scrupoli. In mancanza di simili espedienti l’unificazione dell’italia, da compiersi a dispetto della Santa Sede e di un clero che si manifestò quasi sempre retrivo, non sarebbe mai stata realizzata. Fortuna fu che quel coraggio e quell’audacia non mancarono.

8. Segue.