A che serve oggi parlare di fascismo e antifascismo, a che serve raccontare e conoscere le storie e le scelte tragiche di chi visse quei momenti, e a quali esiti quelle scelte portarono? Comprendere il fascismo e l'antifascismo ha secondo me a che vedere, oltre che rispondere ad una necessaria ma forse settoriale curiosità storica, ha a che fare con il riflesso più importante e cruciale della nostra storia, che è relativo a ciò che ad esempio Adriano Sofri, un paio d'anni fa nel corso di una conversazione con Pannella aveva chiamato il “fascismo personale e collettivo italiano”. Si tratta di quell'aspetto, quel carattere che nel “paese delle Controriforme” che è l'Italia, è forse uno dei tratti identitari più rintracciabili nella nostra vicenda storica, quel tratto fascista in senso quasi astorico, cioè quella propensione ad organizzarci ricorsivamente in senso ademocratico, illiberale, corporativo, immobile, clericale.
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La discussione su questi temi ogni tanto torna ad interessare giornali e riviste e l'ultima occasione per parlarne è stata originata da un articolo di Duccio Trombadori che sul Foglio ha espresso le sue perplessità sul libro di Mirella Serri dal titolo “I Redenti”, in cui si raccontano le storie di quei gruppi o classi dirigenti che transitarono con una certa facilità dal fascismo della rivista Primato ai gangli nodali della dirigenza del Pci. A chiarire meglio quel contesto, che nel libro della Serri appare abbastanza appiattito in una chiave interpretativa tutto sommato semplicitisca, ci ha pensato Angiolo Bandinelli, che in una breve ma ricca intervista a Radio Radicale ha spiegato bene i termini della questione. Di quello che discute Bandinelli mi interessa mettere in luce un aspetto per me fondamentale tralasciando gli altri: fascismo e comunismo sono stati due mondi che nella loro realtà storica hanno avuto modo di eleggersi quali interlocutori, quali soluzioni consapevolmente “compossibili” di un mondo giudicato da entrambi, da comunisti e fascisti, il mondo liberale, in crisi irreversibile. L'intervista contiene molti spunti a cui rimando; io voglio concentrarmi per lo più su questo aspetto. La cosa “grande e tragica” che è il fascismo nelle parole di Bandinelli rimanda al quadro che faceva anche Pannella nel 1973 parlando dell'antifascismo, e per come esso si andava manifestando nel ceto politico italiano dal dopoguerra in poi: un antifascismo ufficiale, simbolo, spiega Pannella, di una "sinistra grande solo nei funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni: tutta roba, anche questa, nera".
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Bandinelli tra le altre cose, mi sembra sciolga una volta di più il nodo di quanto rimane fondamentale nella interpretazione della realtà storica del fascismo, citando alcuni degli assunti intorno al quale si è mosso nelle sue ricerche Renzo De Felice. Il fascismo fu non solo una storia di “manganellatori”, ma fu una vicenda che raccolse il consenso degli italiani. Questo consenso ha da fare i conti in qualche modo con la natura profonda del fascismo, e fu probabilmente proprio quella natura profonda che consentì a molti di non trovare alcuna difficoltà ad emigrare in seguito nel mondo del Pci. Questo fenomeno non va inteso, come mi pare spieghi Bandinelli, come una manifestazione di “nicodemismo” di coloro che vissero quei momenti, ma ha che fare, lo ripeto, con quel tratto profondo della realtà italiana che generò quelle tragiche esperienze. Dunque il nodo che la Serri non coglie è questo carattere di profondità , di intimità tra fascismi e comunismi, questa intimità con i totalitarismi che riguarda la storia italiana. Il comunismo del Pci dell'Italia del dopoguerra sembra iscriversi in questo contesto, raccogliendo questa intimità di cui parliamo. Altro discorso è ciò che in modo minoritario, e gestito con la nota doppiezza di Togliatti per arrivare fino ad alcune pagine di Berlinguer, fu il giocare sui due tavoli, quello democratico, quello dei padri della patria da una parte, e quello dei referenti di Mosca dall'altra. Anche se in maniera ancor più ridotta di quanto avveniva nel Psi (e che si manifestò sia nel Pci che nel Psi con più decisione dopo il 1956) anche il Pci fu un punto di attrazione, specialmente nei momenti della lotta di liberazione (con i suoi innegabili aspetti di guerra civile), per quei giovani che nel comunismo italiano vedevano lo strumento per la liberazione dalla dittatura, quei giovani che ne vedevano solo gli aspetti libertari e movimentistici.
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Bandinelli ci fa capire inoltre che non regge la tesi di Mirella Serri sul fatto che nel periodo fascista non fosse possibile accedere a forme diverse e alternative di cultura. Egli stesso racconta della sua scoperta delle opere di Benedetto Croce in casa Rendi. Il vissuto di antifascisti come Ernesto Rossi stanno a dimostrare che una cultura di tipo anglosassone, sebbene considerata “vieta” e perciò stesso ancor più vietata, rimossa e materialmente proibita in epoca fascista, potesse essere non solo rintracciata, dissepolta, ma anche messa in campo e perciò ritenuta ancor più pericolosa di quello che comunisti di vario genere mettevano in atto fin dal 1943.
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Nella nostra “Italia delle Controriforme” dunque sembra possibile rintracciare, senza voler scomodare gli storici delle mentalità , Bloch, Le Goff e gli altri, sembra essere presente questo nocciolo duro di lunga durata attorno al quale tutto si muove in modo che nulla gattopardescamente cambi. Il tutto si inscrive, anche oggi, in un quadro di poteri impotenti e immobili. Nella prospettiva di alternativa che ci poniamo sarà secondo me necessario, dopo l'alternanza, mettere i poteri controriformistici davanti a questo tratto profondo della loro storia, della nostra storia, per consentire la prima e vera riforma del nostro paese.