Su questo punto specifico, ci pare dunque che le schiette parole di Gobetti conservino la virtù di un ammonimento. Per non esser riuscito a trovare una parola più sobria, ho lasciato che questo opuscolo fosse intitolato Il messaggio di Piero Gobetti”; è un termine di tono troppo alto, e insieme troppo esterno, di cui mi rammarico, ma indica se non altro una precisa convinzione: che la visione generale che Gobetti ebbe degli eventi di quegli anni non può ancora valere come un orizzonte nuovo e che tante delle sue convinzioni e delle sue “scoperte” si protraggono fino a noi, come fossero d’oggi.
Di più c’è che tornare all’opera di Gobetti, significa per noi tornare a una stagione della nostra gioventù che, per merito dell’influsso e della presenza del nostro amico, non fu di sogni illusi e di intellettuali avventure, ma fu tutta materiata di esperienza critica. Quella esperienza fu stroncata dalla sua morte e dal trionfo del fascismo; e oggi ne ritroviamo gli elementi condannando le tappe che allora furono aperte e franche pur nell’atmosfera drammatica di una catastrofe, che non era del resto tutta nostra. Solo oggi peraltro si prova indubbiamente la bontà e l’esattezza del suo giudizio e del suo impegno, portando di nuovo “a fuoco” la sua posizione di allora e valutandola di fronte alle conseguenze di una storia di cui scorgevamo con tanta apprensione l’indice e la prospettiva. Bisogna (questo lo ripetiamo segretamente a noi stessi) andare molto oltre la generica (e ipocrita) soddisfazione della nostra intransigenza; o di quella anche più esile di non aver errato le previsioni. Bisogna rompere i pigri schemi che ci hanno valso allora a farci riconoscere. Non si tratta solo di rileggere un’opera, ma di respirare un’aria, di rituffarci, per quanto possibile, in un clima; di risuscitare un fremito interno e una prontezza di percezione; un nuovo scatto psicologico di cui la molla, in tanti anni, si era depressa; di valutare un modo di libertà e di intelligenza critica che nacque in un momento di intenso fervore, privilegio di uno spirito la cui maturità , raggiunta di volo, non negava mai nulla all’estro intellettuale, ma giungeva a disciplinarlo in una sfera morale, nel rigore di un totale impegno.
La lettura delle pagine di Gobetti, a cui li invitiamo, non dovrà sembrare, nemmeno ai giovanissimi, arcaica; né serve a fornire, quasi in margine e a deformazione del pensiero, il “colore del tempo”. Crediamo sicuramente che proponga cose vive a chi è conscio dei motivi che informano in genere la vita politica e di una necessaria continuità storica dei problemi. Traspare subito da quelle pagine l’acuta sensibilità di Gobetti, affiora la sua nervosità equilibrata, il suo dono di scrittore icastico dovunque ci sia da caratterizzare un personaggio o anche, da individuare movimenti e idee. Ma non bisogna fermarsi, gradevolmente o paradossalmente sorpresi; bisogna giungere al centro del pensiero così ben confermato e costruito che guadagna in rilievo e in incisione per non essere mai diffuso o ripetuto. Sarebbe quindi incauto, presi dalla destrezza dei suoi trapassi, dalla sua sagacia sempre tanto acuminata, stimare che tutto Gobetti sia frammentario e parziale. Non ci pare ci sia invece giovane scrittore dove il frammento sia più organico, la critica più pensante, più rispondente a un indirizzo totale dello spirito in cui nulla di umano resta sacrificato. Questo dice la stessa curiosità di Gobetti, che si appunta a tanti aspetti della vita, dal teatro alla tecnica operaia, a non mai in modo arido o programmatico. Si ha la riprova dell’organicità del suo pensiero rivedendo ora, dopo gli eventi, quasi maturato dagli anni in cui è giaciuto tra le pagine di un libro, mentre i fatti precipitavano verso una catastrofe ch’egli presentiva e scontava in quel contenuto esemplare “pathos” in cui l’intera sua vita fu iscritta.
Se la storia d’Italia, nelle pagine gobettiane, si trova “scorciata” dai Comuni a Machiavelli al Risorgimento, in brevi “viste” e cenni che sono tutti succo essenziale, ma non svolgono, e forse non inquadrano quanto sarebbe equo fatti e argomenti, se nello spicco che prendono gli oggetti della sua predilezione mentale, il Piemonte per esempio, si osserva un che di sproporzionato, nell’analisi dei casi come gli si presentavano giorno per giorno il rilievo del suo giudizio è potente, l’acutezza del suo sguardo storico e politico isola e intende il particolare importante e lo scava fino a indovinarne le remote ripercussioni, indicando così e anticipando tante cose del futuro. La accusata frammentarietà si rivela non una incapacità di pensare, ma uno stile; il più appropriato a rendere e a preservare una speciale gioventù delle idee, palese nella freschezza odierna delle sue conclusioni,ignara e incurante di canoni e che ripete in sede critica la mobilità stessa della vita.
Precisato il permanente valore del pensiero gobettiano, non si pretenderà certo che tutto in esso sia valido allo stesso grado, o che, salvo puntuali imprecisioni, non siano da indicarvi errori o correzioni possibili. Il giudizio, sempre tanto esemplarmente preciso, è talvolta un poco frettoloso; purtroppo la parabola della sua vita lo obbligava alla fretta. A prescindere da quelle opere un poco marginali che costituiscono come il breve tirocinio della sua maturità , da quelle dove cercava attraverso la letteratura un segreto impulso rivelatore della storia russa, o, nel riandare per sommi capi il nostro Risorgimento, vi vedeva ingigantite e spiegate quelle manchevolezze, quelle falle morali della presente società italiana che più suscitavano il loro sdegno, l’intuizione della storia che egli stessi viveva, l’intuizione che egli ebbe del fascismo è chiarissima e autentica; l’isolamento ch’egli fa della “media borghesia” nel suo carattere infantile è definitivo per la conoscenza della vita politica italiana. Il fascismo però fu anche qualcosa di diverso: fu strumento delle classi dai più forti interessi, di quei centri di cosciente attività industriale che egli aveva guardato con simpatia e con qualche speranza nella fase della lotta politica e che attraverso la dittatura dominarono lo stato come mai fino ad allora. La prediletta FIAT, nel cui grembo era sorto il tentativo dei consigli di fabbrica, divenne un’accaparratrice dei favori e un’ispiratrice delle direttive sociali in combutta coi meno oculati e più statici interessi agrari; tutta una polemica un po’ elementare contro le “piovre” dello stato sarebbe quindi da ricominciare. Umanamente Gobetti dovrebbe riconoscere oggi la rinnovata nobiltà ed efficacia di certi “principii” che gli parvero generici e stantii e la sua critica si farebbe forse meno acerba e più sfumata.
La storia dei vent’anni ha provato che l’interpretazione psicologica dei fenomeni politici verso cui così spesso sembra pencolare, era meno valida di quanto allora egli stimasse. Non per questo cadono le sue riserve o perdono d’importanza certi suoi rilievi. E’ valida in genere la sua posizione di storico non dogmatico; in particolare, la critica che fa propria del “millennio marxistico”, che è l’uscita fuori dalla storia in un paradiso terrestre, così come la sua visione (quasi profetica” dei vari pericoli di un partito comunista composto di funzionari e di burocrati. A questo è giunto per la schiettezza della sua natura, staccandosi perfino dalla solidarietà che lo legava a Gramsci e all’ “Ordine Nuovo”, appena gli parve di scoprire qualche “corpo opaco” nella loro azione. E anche questo è un ammaestramento poiché senza questa vigilanza ogni giudizio positivo scivola verso l’inutile elogio.
A conclusione di queste poche pagine, mi pare di dover tornare ancora su un punto. Gobetti aveva salutato la ripresa violenta di lotta politica dal 19 al ’22, quella “guerra civile” come addirittura una volta chiama, come una speranza; in contrasto, come abbiamo già osservato, con un costume “infantile” di egemonia e di compromissioni che era quello vigente prima del 1914. Ancora sugli inizi del fascismo, sperava che nel contrasto ci fosse qualche virtù salutare; e sperava (quasi contro l’evidenza) che il regime allora instaurato fosse una cosa seria. Una cosa seria il fascismo non lo è stato altro che nelle conseguenze catastrofiche. Oggi ci si ritrova in una situazione (malgrado le inutili querimonie contrarie) troppo remissiva e edulcorata che non conosce reazioni spontanee, iniziative immediate. La nostra è una antica stanchezza aggravata dai recenti patimenti. Forse è un clima adatto alla convalescenza; ma Gobetti ci fa sentire qual è l’aria che si confa alla piena salute. Un’aria robusta pur se pervasa da correnti nervose, una regione ideale cui dobbiamo aspirare se vogliamo sentirci maturi in un mondo di adulti.
8) Fine.