LA RAPPRESENTANZA ORGANICA NELLO STATO LIBERALE
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Parecchi disegni e tentativi di riforma della rappresentanza politica, nel senso di integrarla con elementi tratti dalla rappresentanza organica o degli interessi, si ebbero in Italia prima ancora dell’avvento del Governo fascista (1). Ma tali disegni e tentativi – pur differendo fra di loro in parecchi punti – questo avevano in comune, che la riforma era rigorosamente mantenuta nel quadro dello Stato preesistente nel nostro paese, e cioè dello Stato liberale. La differenza fra di loro consisteva unicamente in un aderire più o meno stretto di tali disegni e tentativi di riforma agli istituti proprii di tale forma di Stato.
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Vi aderiva più strettamente di ogni altro il disegno, elaborato nella prima metà del 1919 dalla Commissione speciale nominata dal Senato del Regno e presieduta dallo stesso suo Presidente, l’onorevole Tommaso Tittoni; del quale disegno furono poi relatori i Senatori Greppi e Ruffini. Tale disegno poteva qualificarsi perfino come un ritorno allo Statuto. Questo, invero, si differenziava, quanto alla composizione del Senato, dai modelli stranieri, appunto perché attuava di già – massime alle sue origini e finché durò la sua più genuina e corretta applicazione – una sua forma di rappresentanza organica. Il Senato belga, ad esempio, era come il nostro di nomina regina; ma il sovrano poteva scegliere senza vincoli di ufficio, di ceto e cioè di qualsiasi organizzazione sociale, a cui l’individuo appartenesse: - Niente rappresentanza organica, adunque. Il presente Senato francese è eletto dagli stessi elettori politici, solo ripartiti in circoscrizioni elettorali differenti; e risulta, in fondo, un duplicato della Camera politica: - niente, dunque, rappresentanza organica, neppure qui. Il nostro Statuto, invece, fissando tassativamente nel suo articolo 33 le 21 categorie politiche, amministrative, sociali, ecc., onde soltanto potevano essere tratti i senatori, metteva in essere una vera rappresentanza organica, conforme, naturalmente, alla struttura economico-sociale di quel tempo.
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Orbene, tutta la novità del disegno senatoriale del 1919 consisteva – da un lato – nell’allargare, nel rinverdire, nel mettere a giorno, se così possiamo dire, le ormai troppo ristrette ed arcaiche categorie formate nel 1848; e – da un altro lato – nel sostituire parzialmente, nella scelta degli individui compresi in tali categorie e ritenuti degni di rappresentarle in Senato, alla nomina del Sovrano, la cooptazione del Senato, la designazione della Camera e (per una metà ) le elezioni da parte dei Corpi e delle Organizzazioni più qualificati a impersonare le nuove idee e forze, non esclusivamente politiche, della nazione: Consigli provinciali e comunali, Corpi scientifici, Consigli dei varii ordini professionali, Camere di commercio, Associazioni agricole e industriali, Associazioni operaie, e così via.
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Ma è da notare, che il disegno del Senato non si assumeva punto di creare esso, artificialmente, le categorie od organizzazioni o corpi, a cui si dovesse attribuire la rappresentanza, sebbene accoglieva le formazioni preesistenti, quali la natura stessa e le condizioni del corpo sociale gli fornivano.
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Un poco meno aderente al regime anteriore era il disegno, presentato dall’on. Camera nello stesso torno di tempo alla Camera dei Deputati. Esso mirava ad introdurre in questa un sistema misto di rappresentanza, in parte di carattere politico e in carte di carattere organico. Se non che, spostando esso dal Senato alla Camera il campo di applicazione della rappresentanza organica, perdeva quell’addentellato con un articolo dello Statuto, che invece forniva al disegno senatoriale il suo più corretto e solido appoggio. Senza contare poi che il sdegno dell’on.Camera avrebbe introdotto nel secondo ramo del Parlamento una duplice rappresentanza profondamente disforme, e cioè, come si disse, in parte politica e in parte organica; laddove il disegno senatoriale manteneva nel primo ramo del Parlamento una rappresentanza perfettamente omogenea nella sua sostanza; poiché a nulla rilevava il fatto che la scelta tra le categorie fosse fatta da S.M. il Re, oppure dai legittimi elettori speciali propri di ciascuna di tali categorie; essendo questa una questione puramente formale, dato che tanto il Sovrano quanto gli elettori erano egualmente legato al tassativo elenco di tali categorie.
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Meno aderenti ancora i disegni di legge presentati successivamente tra il 1920 e il 1922 dai ministri Abbiate, Labriola, Beneduce. Invero, attribuendo essi funzioni deliberative, sia pure sopra materie ben delimitate, al Consiglio superiore del lavoro, finivano con porre tale collegio accanto al Senato ed alla Camera, quale terzo corpo rappresentativo, e quindi con trasformare per tale via il nostro sistema bicamerale in un sistema tricamerale.
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Ma, ripetiamo, questo va sopra ogni altra cosa posto bene in rilievo; poiché costituisce un elemento discriminatore d’importanza capitale, un vero spartiacque, se così possiamo dire, che avvia le correnti riformatrici o per l’una o per l’altra china, verso questo o quello di due remoti continenti – fuori di metafora – verso un tipo di Stato o verso un altro. Nessuno di tali disegni pretendeva di cacciare a forza i cittadini in nuove categorie e in nuove organizzazioni, artificialmente costruite al puro intento della rappresentanza; sibbene si accontentava di dare a categorie ed organizzazioni già naturalmente formatesi, e cioè preesistenti, una loro specifica rappresentanza. Nessuno poi di essi – e questo è l’essenziale – pensava anche lontanamente a sopprimere la rappresentanza politica per sostituirvi quella organica.
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Per altro, nessuno di tali disegni e tentativi italiani potè ottenere – come è risaputo – anche solo un principio di attuazione. Bisogna quindi rivolgersi all’estero per trovare un qualche riscontro.
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L’esempio più notevole di applicazione effettiva di un tale sistema misto ci è fornito dalla nuova Costituzione repubblicana dell’Impero (Reich) germanico, e cioè dalla cosiddetta Costituzione di Weimer dell’11 agosto 1919. E’ noto che nel trapasso dal vecchio al nuovo regime la Germania assistette a un fierissimo sforzo rivoluzionario da parte dei suoi partiti di estrema sinistra per introdurre il sistema dei cosiddetti Soviet, fin dal 1917 funzionante in Russia e cioè per istituire non solo una repubblica democratica, ma una repubblica socialista, in cui la sovranità fosse per intiero attribuita ai Consigli degli operai e dei soldati. Ma l’Assemblea nazionale di Weimar, convocata il 6 febbraio 1919, votava subito il 10 del mese stesso una Costituzione provvisoria, che assegnava invece la sovranità alla Assemblea medesima, la quale era una rappresentanza politica di tutti quanti i cittadini tedeschi e non soltanto degli operai e dei soldati. A questa Assemblea tutte le autorità sorte dalla rivoluzione rimisero successivamente i loro poteri. Per tale modo la Germania instaurava il suo nuovo regime democratico, a base costituzionale e a sistema parlamentare. Però non tutto quello che la rivoluzione aveva creato fu messo senza più in disparte. Il nuovo regime politico fu invero temperato ed integrato in Germania con una serie di disposizioni di carattere sociale ed economico, e segnatamente con il cosiddetto Consiglio economico dell’Impero. Difatti a questo corpo furono assegnate non solo facoltà consultive, ma un diritto di iniziativa per i provvedimenti di carattere sociale-economico, e per di più il diritto di far sostenere innanzi al Parlamento (Reichstag) tali provvedimenti per mezzo di uno dei suoi membri. Il Consiglio economico germanico non è per altro ancora una vera Camera; è soltanto considerato da alcuni come un Parlamento economico in embrione. Checché sia per accadere, sta ad ogni modo che un abisso separa cotesta sistemazione germanica dalla sistemazione russa. Il fondamento della Costituzione germanica dell’Impero tedesco è risultato invero quello di uno Stato democratico, e cioè costituzionale e parlamentare: - vale a dire, di un vero Stato liberale.
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1) Cfr. il diligente studio di Gaspare Ambrosiani, Sindacati, Consigli tecnici e Parlamento politico; Roma, Anonima romana editoriale 1925, e la letteratura ivi citata.
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2) Segue.