“La Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni”.
Con queste parole, contenute nel paragrafo 76 della costituzione pastorale Gaudium et Spes, il Concilio Vaticano II aveva chiaramente definito i rapporti tra la Chiesa di Roma e la comunità politica.
La Chiesa non si fa forte dei privilegi concessi dallo Stato, tanto da essere pronta a rinunciarvi.
È ancora così?
In ragione del Trattato di diritto internazionale (firmato nel 1929 da Mussolini, ed in virtù del quale lo Stato Citta del Vaticano ha iniziato ad esistere) e del Concordato (siglato nel 1984 in sostituzione di quello stipulato insieme al Trattato del 1929), in Italia esiste uno status giuridico speciale sia per gli organi della Chiesa cattolica, sia per gli individui facenti parte del clero. Tale status consiste in una serie di norme speciali, che in genere concedono privilegi ed a volte riconoscono delle restrizioni per evitare ingerenze in determinati campi (ad esempio il divieto per i ministri di culto di indurre all'astensione in occasione delle votazioni sui referendum).
Negli ultimi anni, si è verificato il fenomeno per cui le norme di favore sono state estese anche unilateralmente dalla legislazione statale ordinaria, mentre le norme che limitano la possibilità di ingerenza del Vaticano non hanno avuto concreta applicazione.
In queste pagine proveremo a passare in rassegna i privilegi -dal latino privilegium, legge eccezionale con cui si attribuiscono diritti, prerogative, esenzioni da tributi, immunità - che lo Stato italiano concede tutt’oggi alla S. Sede.
1) Finanziamento pubblico diretto della Chiesa cattolica: 1 miliardo di Euro
La legge n. 222/1985, adottata in applicazione del Concordato del 1984, ha introdotto il finanziamento diretto della Chiesa cattolica attraverso un meccanismo truffaldino per cui, ogni anno, l’8 per mille della tassa sui redditi delle persone fisiche viene –obbligatoriamente, per il 100% dei contribuenti ed indipendentemente dalla loro volontà - destinata al finanziamento delle confessioni religiose.
L’88% di questo denaro, circa 1 miliardo di euro l’anno, viene assegnato alla Conferenza episcopale, mentre alle altre cinque confessioni religiose ammesse arriva appena il 4%.
In realtà , solo il 34% dei contribuenti (12 milioni di italiani) esprime l’intenzione di destinare l’8 per mille delle tasse alla Cei, mentre il restante 66% (24 milioni di persone) non esprime alcuna scelta o indica altre Chiese (l’1%).
La legge però prevede che le tasse di chi non esprime una scelta vadano comunque assegnate in base alla scelte espresse, così garantendo e rafforzando in eterno la posizione dominante della Chiesa cattolica. La quale, con tecniche di marketing aggressivo, spende ogni anno milioni di euro in pubblicità per accaparrarsi la firma dei contribuenti, mentre le altre confessioni religiose possono permettersi un budget pubblicitario di alcune centinaia di migliaia di euro.
Dal 1990 ad oggi l’entità di fondi statali versati annualmente alla Chiesa cattolica è aumentata di 5 volte ma, nonostante l’evidenza, non è mai stata applicata la norma di legge che prevede una riduzione dell’aliquota in caso di aumento rilevante della quota versata.
Questo aumento, insieme all’assenza di controlli statali sull’uso del denaro pubblico dato, ha permesso alla Chiesa cattolica di spendere 1 miliardo di euro l’anno non solo per pagare il clero e costruire nuove chiese, ma anche per finanziare media, associazioni e iniziative a carattere culturale e quindi politico. Dal 1990 ad oggi sono stati versati alla Conferenza episcopale 9600 milioni di euro provenienti dalle tasche dei contribuenti italiani. L’importanza storica e strategica che l’introduzione del sistema dell’8 per mille ha avuto per l’Italia e per il Vaticano, è testimoniata dalle parole del professore Acquaviva (partecipante alla Commissione paritetica tra Stato e S. Sede che nel 1985 definì le questioni economiche concordatarie) il quale, in un recente convegno, ha affermato come, uscendo da casa del Cardinal Silvestrini ove si era concluso l’accordo sull’8 per mille in presenza anche del Cardinal Layolo e del professor Margiotta Broglio, quest’ultimo conservò il biglietto di ingresso al Vaticano dicendo: “questo è un pezzo di storia”.
2) Esenzioni fiscali: centinaia di milioni di euro. Miliardi?
L’articolo 7 del Concordato del 1984, stabilisce il principio cardine della normativa tributaria ecclesiastica, tuttora fondamento della vigente disciplina: gli enti ecclesiastici sono equiparati sotto il profilo tributario agli enti di assistenza e di istruzione.
Il principio della equiparazione comporta l’estensione automatica, a tutti gli enti ecclesiastici con fine di culto e di religione, di una lunga serie di benefici fiscali sanciti a favore degli enti di beneficenza e istruzione. Il regime fiscale agevolato si applica non solo a tutti gli enti ecclesiastici ma anche a tutti i soggetti (non qualificati come ecclesiastici) che svolgono attività dirette a tali scopi. In altri termini, tutte le attività dirette allo scopo di culto o di religione e svolte da chiunque, sono sottoposte alle rilevanti agevolazioni disposte a favore degli enti di beneficenza e istruzione.
Passiamo in rassegna alcuni dei principali privilegi fiscali di origine concordataria o postconcordataria di cui godono in Italia la Chiesa cattolica ed i suoi organismi: la riduzione della metà dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche; l’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto; l’esenzione dall’imposta sul reddito dei fabbricati di proprietà della Santa sede e dall’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili; la non imponibilità del reddito derivante dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di servizi compiute, anche verso pagamento di corrispettivi specifici, in favore di associati e dei partecipanti oppure in favore di altre associazioni che operano nello stesso settore; esenzione da diritti doganali e daziari per merci estere dirette alla Citta del Vaticano o a istituti della Santa sede ovunque situati.
Sono inoltre deducibili dal reddito complessivo degli enti ecclesiastici tutta una serie di oneri, ad esempio canoni, contributi ai consorzi imposti per legge o da provvedimenti amministrativi, somme corrisposte ai dipendenti, spese per manutenzione o restauro dei beni, spese per attività commerciali svolte dall’ente, dai membri delle entità religiose. Per ciascuno dei membri alle dipendenze dell’ente religioso, è anche deducibile un importo pari all’ammontare del limite minimo annuo previsto per le pensioni Inps. Ai fini dell’Irap, le retribuzioni corrisposte ai sacerdoti dalla Conferenza episcopale, equiparate ai fini fiscali ai redditi di lavoro, non costituiscono, per espressa previsione normativa, base imponibile.
Gli enti ecclesiastici tendono sempre più spesso a svolgere attività di tipo commerciale o a scopo di lucro, beneficiando delle riduzioni fiscali poiché considerano tali attività come strumentali e dirette all’esercizio del fine (statutariamente sancito) religioso o di culto.
A legittimare tale tendenza, è intervenuta nel 2005 la legge che estende l’esenzione dall’ICI non più solo gli immobili destinati esclusivamente all’esercizio del culto, bensì anche quelli tramite i quali vengono svolte, in forma commerciale, attività di assistenza, beneficenza, istruzione, educazione e cultura. In pratica, per scuole, case di cura, ospedali e strutture alberghiere collegate agli ecclesiastici, si aprono le porte di una vasta esenzione, mentre per le imprese “concorrenti” si delinea un trattamento discriminatorio.
Non esistono conteggi ufficiali circa il valore della panoplia di privilegi fiscali che abbiamo riportato; basti pensare che i comuni italiani prevedono per la sola esenzione ICI introdotta nel 2005 una diminuzione di entrate pari a 300 milioni di euro.
3) Finanziamenti pubblici a scuole private cattoliche, chiese ed oratori.
Nel 2000 è stata approvata una legge che parifica la scuola privata (costituita in buona parte da scuole cattoliche) a quella statale, ed a seguito della quale sono stati concessi negli anni successivi sempre maggiori finanziamenti, di gia previsti a livello regionale da una legge del 1997.
 Nel 2004, il finanziamento pubblico complessivo alle scuole non statali è stato di 527 milioni di euro, e ciò nonostante l’articolo 33 della Costituzione disponga che le scuole private possono esistere “senza oneri per lo Stato”. La ratio del limite costituzionale eppure è chiara: impossibilità di promuovere con denaro pubblico scuole ove l'iscrizione degli alunni (e l’insegnamento dei professori) è vincolata all'accettazione del progetto educativo dell'istituto.
L’effetto derivante dal combinato disposto dei contributi pubblici alle scuole private e l’esenzione dal pagamento dell’Ici, rischia di delineare una strategia volta a fare delle scuole cattoliche private –grazie alle migliori opportunità economiche godute- delle scuole d’elite, in cui formare le future classi dirigenti del Paese.
Sempre con riferimento all’insegnamento, l'art. 10 del Concordato, dispone che “Le nomine dei docenti dell'Università  Cattolica del Sacro Cuore e dei dipendenti istituti sono subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica”. Si tratta, è bene ricordarlo, di importanti istituzioni universitarie, cui fanno riferimento anche strutture ospedalieri di primissimo piano, come ad esempio il policlinico Gemelli di Roma.
In conseguenza di una normativa quadro nazionale, infine, molte Regioni hanno introdotto finanziamenti agli oratori cattolici, che si aggiungono ai finanziamenti a pioggia che le amministrazioni locali destinano per la costruzione di chiese cattoliche e delle ulteriori opere urbane necessarie, nonchè per il recupero di edifici di culto.
4) Insegnanti di religione- Cappellani militari; sacerdoti in servizio assistenza presso ospedali e carceriÂ
In forza del Concordato, lo Stato italiano è obbligato ad inserire l’insegnamento della religione cattolica all’interno dell’orario scolastico, e ne paga i professori. Oggi sono circa 20mila ed è il Vescovo a designarli, rilasciando –e revocando- il certificato di idoneità in virtù di un giudizio etico e morale. C’è, dunque, un potere di controllo nei confronti di dipendenti statali da parte della Diocesi e della Conferenza episcopale, che dà le direttive. Andando ben oltre gli obblighi concordatari, nel 2003 è stata approvata una legge che prevede l’assunzione a tempo indeterminato nelle scuole pubbliche degli insegnanti di religione scelti dalla Chiesa cattolica; ne sono già stati inseriti 10mila e si arriverà a 15.383 entro l’anno prossimo. La loro immissione in ruolo apre scenari paradossali: ammettiamo che non venissero più giudicati idonei all’insegnamento e revocati dal vescovo, perché divorziati o perché, supponiamo, hanno votato sì al referendum sulla fecondazione assistita; essendo di ruolo, potrebbero passare ad insegnare filosofia, storia, letteratura, proprio quelle materie umanistiche in cui la loro formazione confessionale giocherebbe un preciso peso.
Per quanto riguarda i costi per lo Stato, si possono calcolare facilmente moltiplicando lo stipendio lordo medio di un insegnante per i 20mila insegnati di religione in servizio: una cifra superiore ai 500 milioni di euro. E questo solo per gli insegnanti, senza contare il valore e le spese per le strutture scolastiche, nonché l’effetto di marketing pedagogico permanente. Lo stesso Cardinal Ruini, nel messaggio di saluto per i nuovi insegnanti di religione entrati in ruolo, disse esplicitamente che quello era il primo passo per far uscire l’insegnamento della religione cattolica da un ruolo marginale nella scuola pubblica, ed assumere finalmente un ruolo determinante nella crescita globale dei bambini e dei ragazzi.
Sotto altro fronte, lo Stato paga anche i cappellani militari (preti cattolici in cura animae alle truppe), indicati dal Vescovo, nonché i preti che prestano assistenza presso gli ospedali e nelle carceri.
 5) Altri finanziamenti
Insieme a quanto in precedenza esposto, l’organizzazione cattolica gode in Italia di tutta una serie di finanziamenti pubblici il cui stesso censimento risulta difficile.
Si tratta, ad esempio, dei finanziamenti, a carico del Dipartimento Protezione civile presso la Presidenza del Consiglio, che vengono elargiti in occasioni delle manifestazioni religiose più svariate e definite “grandi eventi”: dalla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, alla beatificazione di Padre Pio, sino ad arrivare alle cerimonie in occasione della morte di Papa Giovanni Paolo II. Proprio la gestione di quest’ultimo evento, è costato allo Stato italiano circa 18 milioni di euro tra spese per l’accoglienza dei pellegrini, milioni di bottigliette d’acqua etc; senza considerare che la scelta della Rai-radiotelevisione pubblica di occupare in quei giorni i propri palinsesti e di rinunciare, per ragioni etiche, alla trasmissione di spot pubblicitari, ha significato 9 milioni di euro di mancati introiti.
Anche sul fronte mediatico, lo Stato italiano riserva agli organismi ecclesiastici un trattamento di favore: rispetto all’editoria, numerosi sono i contributi pubblici erogati a favore di testate che fanno riferimento alla Chiesa cattolica. Il quotidiano della Conferenza episcopale italiana –Avvenire-, nel solo 2003 ha ricevuto 6 milioni di euro di contributi della legge per l’editoria, mentre decine sono i periodici cattolici che si assicurano ogni anno i finanziamenti pubblici ad essi riservati.
Nell’ambito della Rai, inoltre, esiste una struttura apposita, denominata RaiVaticana, alla quale è demandato il compito esclusivo di seguire le vicende vaticane (ovviamente con voce in capitolo dei rappresentanti della S.Sede per quanto riguarda le immagini, le scenografie etc), che poi faranno il giro delle televisioni di tutto il mondo.
A livello locale, poi, i finanziamenti a pioggia elargiti a strutture cattoliche sono innumerevoli. Negli ultimi anni, ad esempio, il Comune di Roma e la Regione Lazio hanno adottato una serie di delibere in favore di enti ecclesiastici, ad esempio, sappiamo che sono stati versati ad enti cattolici, tra gli altri: 500.000 euro per il centenario dell’enciclica “Rerum novarum”; 300.000 quale contributo per alloggio di studenti universitari; 100.000 euro per la realizzazione della campagna informativa a tutela della maternità sin dal concepimento; 150.000 euro per a realizzazione del progetto “Centro gioia del Divino amore”; 150.000 euro alla parrocchia S. Luca Evangelista per il recupero del teatro; 150.000 euro per il recupero del monastero delle Clarisse a Tuscanica; 774.000 euro per la valorizzazione del museo e della biblioteca dell’Arcidiocesi di Gaeta. Oltre ai milioni di euro stanziati nell’ambito delle leggi regionali sull’edilizia di culto e sugli oratori.
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È indiscutibile, dunque, che la Chiesa cattolica, le gerarchie vaticane in particolare, godano in Italia di una serie di privilegi economici che non hanno paragoni nel mondo. Privilegi grazie ai quali essa può operare nella società italiana in maniera capillare senza doversi preoccupare di ottenere dai fedeli le risorse necessarie al finanziamento delle proprie attività , e senza quindi che tali attività siano sottoposte al “gradimento” della comunità di fedeli.
L’esperienza storica insegna come ogni volta che il riconoscimento della dimensione pubblica di una chiesa si è tradotto in denaro e potere, il rischio maggiore sia la clericalizzazione dello Stato e la statalizzazione della Chiesa. Per questo, è urgente liberare lo Stato e la Chiesa da ori ed orpelli di ogni sorta. La Chiesa stessa può farlo, rinunciando –come scritto dal Concilio Vaticano II- ai privilegi ottenuti.
A meno che non abbia ragione il Cardinal Ratzinger, ora Papa Benedetto XV, il quale anni fa si trovò ad affermare: “Purtroppo, nella storia è sempre capitato che la Chiesa non sia stata capace di allontanarsi da sola dai beni materiali, ma che questi le siano stati tolti da altri: e ciò, alla fine, è stata per lei la salvezza”.