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  lunedì 11 settembre 2006
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Il messaggio del presidente Napolitano, un saggio di Fassino, il Satyagraha…

di Gualtiero Vecellio

Cinque anni dopo, ci stringiamo ancora una volta attorno al popolo americano. Il lutto che la barbarie ha inferto quel giorno a cittadini inermi dell'amica nazione americana e di tante altre nazioni è oggi più che mai presente nei nostri cuori e nelle nostre menti. Ci spinge a non dimenticare e a rinnovare l'impegno comune a fronteggiare la logica del terrore e della distruzione...”, scrive il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel messaggio inviato al presidente del Senato Franco Marini, che assieme all’ambasciatore americano Ronald P. Spogli ha commemorato le vittime dell’11 settembre. Poi ha scandito: “Quando sono in gioco i valori fondamentali delle nostre democrazie, non possono esservi dubbi sulla volontà di combattere insieme il nemico comune. Così è avvenuto in occasione delle tragiche guerre combattute contro il nazifascismo sul suolo europeo. Così è ancora una volta, allorquando dobbiamo fronteggiare la sfida di coloro che si ispirano all'ideologia della morte e della negazione della sacralità della vita umana”.

 

E’ una diagnosi, nella sua “semplice” essenzialità, che si può dire perfetta, ineccepibile. Quasi contemporaneamente ci è capitato tra le mani un saggio di Piero Fassino, il testo di un suo intervento a un incontro organizzato dall’associazione Humanity e dalla rivista “Filosofia e Questioni Pubbliche”; all’incontro, con Fassino, hanno preso parte Amartya Sen e Sebastiano Maffettone. Gli atti sono pubblicati in un agile volumetto, Giustizia globale (Saggiatore editore). “Per una politica estera dei diritti”, il titolo del saggio di Fassino. “La nostra opzione per l’universalità dei diritti umani”, sostiene il segretario diessino, “deve significare prendere impegni concreti, su scala globale, a favore della riduzione delle disuguaglianze, degli scambi sperequati fra i paesi e della crescita delle libertà personali e delle opportunità per tutti i cittadini” (pag.37). Vago, generico se si vuole; ma certamente condivisibile.

 

Fassino poi affronta quella che è la madre delle questioni: se i diritti umani sono negati, è legittimo farli riconoscere con l’uso della forza? Fassino indica e suggerisce di percorrere un’altra strada: che non sia complice acquiescenza “kissingeriana”; e non sia quella che per comodità, e accodandoci a una vulgata superficiale, passa come “esportare la democrazia”.

Come alternativa alla guerra preventiva credo non si possa concepire altro che il suo opposto: una coerente politica preventiva”. Qui, si ammetterà, il discorso comincia a sembrare interessante. Per Fassino politica preventiva significa “attivare tutte le forme di mediazione laddove esistono conflitti e costruire le condizioni per risolverli attraverso gli strumenti di cui la comuinità internazionale dispone”. Ecco, siamo tornati nel convenzionale e nel bla-bla. Forse se ne rende conto anche Fassino, che tenta una virata: “Significa che le relazioni economiche e rapporti di scambio di una determinata ‘qualità’ devono costituire delle leve per l’affermazione dei diritti. Significa procedere nella strada qui indicata da Sen, in particolare quando afferma che nel mondo contemporaneo la speranza d’armonia si basa sulla più chiara comprensione della pluralità dell’identità umana”. D’accordo, ma in concreto e nel quotidiano fare? “Significa favorire e consolidare processi di Democratic Institution Building nei paesi che, usciti da conflitti o dittature, attraversano una fase di transizione” (pag.39).

 

Alla fine, ci siamo arrivati, anche se per “favorire” e “consolidare” occorre che i paesi in questioni escano da conflitti e dittature e attraversino una fase di transizione. Ma se non escono? E fino a quando non escono? Ancora una volta Fassino si rende conto che la risposta fornita non è soddisfacente. Infatti, a pagina 40, è lui stesso che si pone la domanda: “Lasciamo semplicemente maturare l’esplosione di questa crisi, o costruiamo condizioni diverse?”. La domanda è riferita alla questione iraniana, che è di stretta, urgente attualità, ma evidentemente vale anche per altre situazioni e contesti. Allora che si fa, si aspetta e si spera?

L’Iran”, risponde Fassino, “si pone come un test chiave per la costruzione di una strategia politica preventiva”. Dunque, se le parole hanno un senso, e almeno per quanto riguarda l’Iran, occorre costruire questa “strategia politica preventiva”, senza attendere l’esplosione di una crisi. E non è la sola affermazione importante che si incassa. Poche righe più sotto, Fassino aggiunge: “L’inclusione progressiva della Turchia nell’Unione europea è stato tra i fattori determinanti per la rimozione degli ostacoli all’affermazione dei diritti”.

 

In breve: Fassino mostra di sapere perfettamente che cosa occorre fare, e come va fatto. Ma allora, perché tante esitazioni, perché non si fa quello che si sa esser giusto, necessario e urgente? In una parola, cosa aspetta il segretario Fassino a fare sua la proposta del Satyagraha mondiale per la pace proposto da Marco Pannella? Se non gli obiettivi e i “percorsi” indicati in quel documento, cosa, e quando? E come? Perché Fassino e l’intero gruppo dirigente dei DS ancora una volta lasciano solo Furio Colombo, che ha colto perfettamente la portata e l’importanza di questa iniziativa?

 

E qui siamo al messaggio del presidente Napolitano. O il presidente ha detto (più propriamente: ha scritto) qualcosa che non si condivide, che si ritiene sbagliato, che non riflette il nostro pensiero. Ma se così non è (e le dichiarazioni che sono state diffuse accreditano questa ipotesi), bisogna pur trarne qualche conseguenza. Napolitano non indica solo la gravità di un fenomeno, paragonandola esplicitamente a quella che incendiò il mondo cinquant’anni fa, e chiama a un’unità operativa in difesa di quello che si vuole distruggere e annichilire. Il presidente indica e sottolinea che la questione è urgente: sono in gioco valori, ricorda; e aggiunge: dobbiamo fronteggiare. E’ evidente che il presidente non auspica né incita a un intervento armato. E’ evidente che il presidente ci ricorda che in Afghanistan, in Irak, in Libano siamo andati in soccorso, in aiuto, e non per opprimere o dominare. Non siamo, insomma, “forze occupanti”. E’ altrettanto evidente che il presidente Napolitano esorta e suggerisce a far uso e ricorso a tutta la nostra fantasia, intelligenza, coraggio e prudenza nell’individuare strade “altre” per risolvere la grave crisi mediorientale, che minaccia sempre più di trasformarsi da conflitto locale in un qualcosa che può diventare planetario. Quella fantasia, quell’intelligenza, quel coraggio e quella prudenza – ci permettiamo di dire – che sono nel documento che è la base del Satyagraha.

 

Possibile che quest’evidenza sia di visibilità così accecante che nessuno mostra di vederla, quasi una “lettera rubata” che non riesce a trovare il suo Auguste Dupin? Sembra impossibile, eppure è quello che finora accade ed è accaduto.Â