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  martedì 18 marzo 2014
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Dico sui DICO:” Non accettare il male minore”

di Fausto Cadelli

La cronaca talvolta incrocia gli eventi in modo singolare.

Nello stesso giorno in cui il Consiglio dei Ministri licenziava il ddl sui DICO, veniva data la notizia della morte di una famosa e sfortunata modella di soli 39 anni.  Questa donna era pluri-milionaria grazie all’eredità del suo defunto marito, un petroliere di sessant’anni più vecchio di lei, morto dopo un matrimonio durato pochi mesi. Occorrono nove anni di DICO per concorrere alla successione legittima, ed, in generale, almeno tre anni per accedere a diritti e doveri: col matrimonio, in quindici giorni (il tempo delle pubblicazioni), tutto è consentito e dovuto.

 

Finirà che la Chiesa, per somministrare il sacramento del matrimonio, richiederà la certificazione DICO, di sana e robusta convivenza civile.Si è già disquisito sulle tante ipocrisie dei DICO, come la dichiarazione contestuale e non congiunta.

 

Non voglio dire che tutte le stranezze siano da buttare: la registrazione singola del DICO con notifica a mezzo raccomandata A/R all’altro convivente potrebbe essere utile a far emergere possibili situazioni di debolezza di una delle parti di fronte all’indifferenza o alla prepotenza dell’altra (si pensi alla fragilità di una donna con figli e con risorse proprie modeste).

 

Ma il tema è: si deve accettare il DICO, all’insegna del meglio poco che niente?

Per me, no: non riduciamoci come la Chiesa che, non avendo forza e coraggio di attaccare l’aborto, si è “accontentata” del male minore, vendicandosi con la procreazione assistita.

Il DICO sancirebbe definitivamente l’umiliazione di chi è sprezzantemente considerato dalla Chiesa indegno di tutela.

 

Vorrei che i radicali dessero una lezione di moralità e, nel rifiutare il DICO, riscattassero la debolezza concettuale con cui era stato proposto lo stesso PACS.

Se non mi sbaglio, infatti, i PACS nascevano da tre esigenze: 1) dare riconoscimento pubblico alle coppie omosessuali; 2) ridurre l’onerosità del divorzio; 3) rendere più flessibile taluni aspetti dei rapporti tra coniugi.

 

La debolezza è tutta nel primo punto: il giusto riconoscimento pubblico alle coppie omosessuali doveva essere il matrimonio tout court, quand’anche ciò avesse comportato la revisione costituzionale con eventuale referendum confermativo.

E’ ben possibile (anzi, logico) che, nell’intenzione del Costituente, l’art. 29, disegnato sul matrimonio così come definito nel codice civile, non costituisse violazione dell’art. 3 pensato a baluardo delle discriminazioni legate solo all’essere maschio o femmina e non alle scelte di coppia. Sessant’anni fa, forse, il matrimonio omosessuale era, per l’appunto, un non-pensato.

Ma è altrettanto vero che il principio di uguaglianza (art. 3) è principio fondamentale, e come tale ha, per l’appunto, la funzione di essere un principio aperto nel tempo che orienta la legislazione presente e quella a venire, adattando l’ordinamento giuridico al progredire del sentire sociale. Oggi, si percepisce con enorme chiarezza la gigantesca violazione dell’uguaglianza a danno degli omosessuali (presente oggi come sessant’anni fa, ovviamente) e si potrebbe persino dire che l’art. 29, in quanto ripresa del codice civile, è già “illegittimo” (tra virgolette) rispetto all’art. 3. 

 

Peraltro, dal punto di vista politico, se fosse chiesto con forza il matrimonio omosessuale la Chiesa sarebbe messa all’angolo. Perché essere esplicitamente omofobici, specie per la Chiesa, è molto difficile. Un conto è l’omissione, che pure brucia, come accaduto a Benedetto XVI ad Auschwitz, che si “dimenticò” di ricordare gli omosessuali e gli zingari; un conto è parlare esplicitamente. Solo qualche truce elemento se ne esce con battutacce che non hanno durata e tenuta politica.

 

Invece, si è scelta la strada irta di differenziare i PACS dal matrimonio, cosa estremamente difficile anche già a livello di declaratoria, figurariamoci quando la giurisprudenza sarà chiamata in causa in occasione dei primi scioglimenti di DICO: è facile prevedere un’assimilazione dei DICO al matrimonio.

 

Ma soprattutto, è già evidentissimo dai punti 2) e 3) sopra indicati (divorzio breve e diversa pattuizione di diritti e doveri) che il PACS, in realtà, costituisce una modifica di taluni aspetti del matrimonio. E’ manifesto che rendere più facile lo scioglimento del matrimonio o modificare alcuni aspetti dei rapporti di coppia (pensiamo ai patti pre-matrimoniali) è una modifica del matrimonio, non è altra cosa dal matrimonio. Peraltro, si tratterebbe di modifiche che non susciterebbero forti resistenze.

 

Se sono corrette le premesse da 1) a 3) sopra esposte, è chiarissimo (almeno per come la vedo io) che tutta la tematica dei PACS si “riduce” al matrimonio omosessuale, ed alla contestuale modifica, per tutti – eterosessuali ed omosessuali - di taluni aspetti del matrimonio (divorzio e rapporti patrimoniali, come ad esempio, la volontaria e reciproca rinuncia da parte dei coniugi alla destinazione della quota di eredità non riservata ai figli).

 

Tolto di mezzo il matrimonio omosessuale, da parte degli stessi proponenti il PACS (che proprio in quanto propongono il PACS non propongono il matrimonio omo), la Chiesa ha avuto troppo facile buon gioco nell’attaccare la struttura di un rapporto di convivenza in cui, ragionevolmente, sembravano prevalere le comodità rispetto ai doveri: una struttura pattizia “leggera” che, lo ribadisco, è una mera declaratoria ibrida, a metà tra pubblico e privato, confusa e contraddittoria, una surrettizia ed irragionevole duplicazione del matrimonio. 

 

Mi auguro e propongo, pertanto, che i radicali siano i primi ad abbandonare i DICO per dire, forte e chiaro, che i DICO sono l’ennesimo scempio della legalità e del principio di uguaglianza.

 

Cerchiamo, con forza, l’iniziativa politica (referendum) per rilanciare la battaglia sul matrimonio omosessuale e sulla riforma, per tutti, del matrimonio, in termini moralmente, politicamente, legalmente pieni, lasciando al PACS la funzione di disciplinare convivenze che non comportano la creazione di una famiglia vera e propria, quali i sodalizi che si possono creare tra persone anziane per situazioni di necessità o, tutto al contrario, la disciplina – che si fonda sulla conoscenza – di famiglie appartenenti a culture diverse dalla nostra.   

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