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Cicciomessere Roberto - 9 febbraio 1990
Istruzioni di lettura
Prefazione a "1955/1990 - Le lotte, le proposte e le conquiste radicali attraverso i documenti congressuali e lo statuto"

di Roberto Cicciomessere

SOMMARIO: L'autore propone una diversa lettura della raccolta delle mozioni del Partito radicale: verificare quali analisi hanno trovato conferma nella realtà e quali obiettivi sono stati poi concretamente realizzati.

(Prefazione a "1955/1990 - Le lotte, le proposte e le conquiste radicali attraverso i documenti congressuali e lo statuto" - Ed. Partito Radicale)

E' questo uno di quei libri che normalmente si acquista, si sfoglia e si infila velocemente nella libreria ripromettendosi di consultarlo quando se ne presenterà l'occasione. Una raccolta di documenti "ufficiali" di partito non è, fra le letture possibili, quella più stimolante ed entusiasmante.

Ecco perché vi propongo una forma di lettura interattiva che, forse, può convincervi a non archiviare subito questo libro.

Questa raccolta di mozioni congressuali del partito radicale, dal 1955 ad oggi, consente infatti un esercizio ed un esame a cui poche altre organizzazioni politiche, credo, si sottoporrebbero: il confronto fra analisi, programmi, propositi, promesse e gli eventi reali, i risultati concreti, le promesse mantenute. E tutto questo per un periodo certamente significativo per un partito politico, 35 anni.

Basta prendere a caso una mozione, magari un po' vecchia, e verificare se esiste qualche corrispondenza fra quello che è stato scritto e la realtà di quel tempo, come ce la ricordiamo; basta leggere il "dispositivo" finale di quella stessa mozione e vedere quante proposte e progetti hanno poi trovato una qualche applicazione.

Se la percentuale fra impegni e realizzazioni supera il 50%, non resta che correre ad iscriversi al Partito radicale.

Incomincio io a farlo, questo confronto.

Anche se sappiamo che vi è stata una rottura, nel 1962, fra il "vecchio" Partito radicale di Carandini, Piccardi, Calogero, Valiani, Scalfari e il "nuovo" Pr di Pannella, Spadaccia, Rendi, Bandinelli, Teodori, voglio rispettare la volontà di continuità ideale con il "vecchio" partito proclamata dai nuovi radicali prendendo in esame il primo testo pubblicato cioè il "documento programmatico del Partito radicale dei liberali e dei democratici italiani" sulla base del quale si costituisce, nel dicembre 1955, questa nuova formazione politica.

Dal quel documento del '55 estrapolo l'analisi della situazione italiana e gli obiettivi che il Pr propone a sé stesso e all'opinione pubblica.

L'analisi: "La vita del pensiero e del lavoro è profondamente turbata dalla constatazione che al crollo della dittatura è succeduta una democrazia timida ed impacciata dall'eredità di un corrotto costume, debole nel difendere dalle penetrazioni confessionali e dall'impeto degli estremismi l'autorità dello Stato, incapace, infine, di esprimere nelle sue istituzioni lo spirito della nuova Costituzione repubblicana".

Gli obiettivi: "L'attuazione della Costituzione e la effettiva instaurazione dello Stato laico e liberale, di quello Stato di diritto che fa tutti i cittadini uguali innanzi alla legge, senza discriminazioni politiche e religiose, e che ne garantisce la libertà attiva dall'arbitrio governativo e poliziesco".

La malattia dell'Italia era ed é, usando il nuovo vocabolario radicale, la distanza vertiginosa fra la democrazia prefigurata nella Carta costituzionale e la "democrazia reale", quella che gli uomini hanno voluto realizzare nelle istituzioni, negli ordinamenti, nella vita quotidiana.

All'indomani della caduta del fascismo resistevano infatti, nonostante l'alto contenuto democratico e garantista della Costituzione, tutti gli impianti legislativi, i codici e le cattive abitudini del regime fascista. Il primo impegno a cui si sono adoperati i radicali è stato quindi quello di tentare di realizzare una Repubblica "autenticamente costituzionale", di modernizzare l'italia attraverso leggi che eliminassero le ipoteche clericali e corporative, di attivare nuove forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica del Paese, come i referendum.

Ma, passata la stagione dei diritti civili, le nuove leggi democristiane e quelle d'emergenza votate per anni, nei consigli comunali, provinciali, regionali, nel Parlamento alla quasi unanimità, senza distinzione alcuna di responsabilità fra maggioranza ed opposizione, hanno aumentato ancor più il divario fra "democrazia reale" e il disegno costituzionale. Ciò è stato possibile perché i partiti italiani, diversamente dalle altre famiglie politiche europee, hanno rifiutato la corretta dialettica democratica dell'alternanza e si sono invece costituiti in partitocrazia e cioè in entità sostanzialmente solidale, al di là dell'apparenza conflittuale, nella spartizione del potere, nella volontà di usurpare la sovranità che la Costituzione attribuisce al popolo e alle istituzioni.

Contro questo nuovo regime divenivano armi spuntate le battaglie per la conquista dei diritti civili, le forme di partecipazione diretta del popolo come i referendum, le campagne di moralizzazione. Ogni espressione di volontà sovrana del popolo, anche se manifestata, come nei referendum, con maggioranze straripanti, veniva regolarmente smentita e vanificata dal volere della partitocrazia. Bisognava e bisogna allora riformare la politica, il sistema dei partiti, il sistema elettorale per tentare di riprodurre quei meccanismi che nelle società anglosassoni hanno garantito la migliore, fino ad oggi, rappresentazione della democrazia.

Ma se queste erano le analisi e i propositi contenuti nella dichiarazione programmatica, sviluppati poi nelle mozioni dei congressi radicali - ritornando alla domanda iniziale - i radicali sono poi riusciti ad affermarli concretamente nella politica e nella vita di ogni giorno?

Anticlericalismo, divorzio, antimilitarismo, obiezione di coscienza, aborto, liberazione della donna, federalismo, liberazione sessuale, antitotalitarismo, "giustizia giusta", diritto all'informazione, referendum contro le leggi speciali, contro il finanziamento pubblico dei partiti, per la smilitarizzazione della guardia di finanza, per l'abrogazione dell'ergastolo, contro la caccia, ecologismo e battaglia antinucleare, antiproibizionismo, riforma elettorale...

Dopo aver sgranato il rosario radicale, pratica a cui dovrebbero applicarsi, almeno ogni mattina, anche alcuni compagni radicali divenuti cinici e sfiduciati, mi accorgo che trentacinque anni di storia sono stati segnati profondamente e positivamente dalla vicenda radicale. E credo che nessun altro partito possa presentare un simile bilancio. Per non parlare di nonviolenza alla quale ci applicavamo quando non era di moda, quando costava il carcere, quando il furore rivoluzionario riempiva le pagine dotte dei libri e dei giornali. Oggi la nonviolenza politica è divenuta cultura del nostro tempo. Oggi la nonviolenza viene riconosciuta come valore universale anche da quei popoli che hanno impiegato 70 anni per liberarsi dal totalitarismo sovietico. Oggi è perfino garanzia rispetto ai rischi di degenerazione dei movimenti studenteschi.

Basterebbe tutto questo per dire che i nostri "padri fondatori" erano nella ragione quando scrivevano nel documento del 1955 di non "promettere troppo o invano".

Allora dobbiamo crogiolarci soddisfatti nei nostri successi. No. Volutamente non ho parlato di lotta contro lo sterminio per fame nel mondo anche se ci ha impegnati per cinque lunghi anni.

E' stata la nostra unica sconfitta. Abbiamo ragionato sul perché. Ci siamo interrogati lungamente. Abbiamo capito che per proseguire la nostra battaglia di sempre, l'affermazione di "quello Stato di diritto che fa tutti i cittadini uguali innanzi alla legge", non ci si poteva chiudere in un solo paese. Semplicemente perché la fonte del diritto non è più nazionale. Lo Stato di diritto oggi non può più incarnarsi in uno Stato nazionale. Affermarlo sarebbe una truffa. Ce lo ricordava Altiero Spinelli in un Congresso radicale quando ripeteva, per la prima volta forse ad un uditorio a lui congeniale, che non c'è grande problema che possa essere affrontato seriamente con criteri e strumenti nazionali.

Ci siamo resi conto che le stesse battaglie di sempre, quella antiproibizionista piuttosto che quella ecologista, per avere successo dovevano produrre diritto internazionale prima ancora che diritto interno. Poco ci è importato se qualcuno ha pensato di appropriarsene, a livello nazionale, per modesti calcoli elettorali e di potere.

Dovevamo raccogliere l'invito di Spinelli ad abbandonare le accoglienti e comode spiagge nazionale, a rimettere in discussione persino la natura del nostro partito per avventurarci nel mare aperto della politica trasnazionale e transpartitica.

Così abbiamo fatto.

Non crediamo "di promettere troppo o invano" se dichiariamo oggi, a trentacinque anni di distanza da quel primo impegno solenne, di essere decisi a combattere per l'affermazione nel mondo dello Stato di diritto, del diritto innanzitutto alla vita, del diritto alla piena attuazione della democrazia.

Chi vuole partecipare a questa nuova avventura e scrivere, da protagonista e quindi da radicale, altri trentacinque anni di storia politica?

 
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