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Aborto, facciamolo da noi

13 maggio 2008

di Eugenia Roccella *

Di streghe ne hanno fatto morire a migliaia, a migliaia. Torturate, fatte a pezzi, costrette a subire ridicoli umilianti tragici processi. L’ultimo rogo era stato allestito nel gennaio 1975, a Firenze. Chi lo aveva preparato? Sempre i soliti: gli ispiratori erano Fanfani e il cardinale Florit, con la sua predica domenicale di incitamento alla “caccia”, il sicario il missino Pisanò, il braccio secolare il sostituto procuratore Casini. La strega: Adele Faccio.

 

Gli strumenti sono sempre quelli logori, brutali del potere: sembra che niente cambi e che sempre gli possa riuscire di uccidere silenziosamente, di affogare nelle calunnie e nelle menzogne di ogni libertà. Ma non è così: le donne, di Adele in galera, hanno fatto un momento di incredibile forza, una lunga pertica per spiccare un grosso salto. Non si è permesso ai giornali di parlare di “fabbrica degli angeli”; Fanfani ha fatto male i suoi calcoli, non c’è stata l’indignazione generale che prevedeva – cinque anni di lotta hanno lasciato il segno – e si è scoperto che non è più vergogna dire “aborto”, “ho abortito”, “ho aiutato ad abortire”. Non più una cosa da consumare in silenzio, l’aborto, peccato voluto da chi lo condanna, reato. In massa, in 2.700 abbiamo rotto il silenzio delle vicende personali, abbiamo dichiarato di avere abortito o aiutato ad abortire; e le donne in Adele non hanno visto la strega,ma la sorella, e la loro bandiera. Sulle cartoline stampate dal MLD e invitate dal giudice lo slogan era: “La libertà di una è la libertà di tutte”. 

 

Oggi Adele è la presidente del MLD oltreché del CISA, e certo non è casuale questo intreccio di presidenze (accettate nonostante siano quelle “istituzioni” antiche che noi tutte rifiutiamo, ma che “servono” ancora in un contesto sociale come il nostro).

 

Queste due sigle che si accavallano sono anche discorsi che si accavallano e si integrano a vicenda. Facciamo gli aborti. Noi del MLD da sempre abbiamo aiutato quelle che si rivolgevano a noi per abortire, facendo collette, accompagnandole dal medico “compagno” che, trattandoci come tutti gli altri, faceva però raschiamenti con anestesia per cento, centocinquantamila lire. Non conoscevamo il metodo Karman, d’altronde in Italia non lo conosceva nessuno o quasi.

 

Era però abbastanza confusa la coscienza politica con cui lo facevamo, non coinvolgendo la sigla del MLD pubblicamente ma a livello personale, e insieme avvertendolo come un gesto politico, di solidarietà “politica” con le donne. Doveva arrivare due anni fa il CISA per farci capire in pieno l’importanza di una sfida clamorosa a un regime che gli aborti li vuole, purché clandestini, di una disobbedienza scelta e dichiarata, non sotterranea e imposta, e della solidarietà fra donne che si veniva a creare. Questa legge, Rocco l’ha fatta perché fosse rispettata, perché serviva carne da cannone – otto milioni di baionetta –; la DC, col consenso della chiesa, l’ha mantenuta perché fosse violata, perché di braccia ve ne sono fin troppe di emigranti e disoccupati non ne servono otto milioni.

 

E’ un vecchio discorso che non ci stancheremo di ripetere, perché a difendere il diritto all’aborto dobbiamo essere proprio noi femministe, noi donne, che l’aborto in sé per sé siamo le ultime a volerlo; ma è un primo passo verso la libera disponibilità e l’autogestione del nostro corpo, senza la quale non c’è libertà né felicità possibile. Invece proprio su questo e in particolare sulle nostre funzioni riproduttive, sono state messe ipoteche: il patriarcato ci ha tolto ogni giurisdizione sul nostro corpo, sequestrandoci nella famiglia, applicandoci il bollo del cognome maritale e paterno, imponendo alle donne una sessualità solo riproduttiva, vietandoci l’aborto, impedendoci qualunque possibilità di controllare la nostra fecondabilità. E abbiamo creduto fino a poco tempo fa che la nostra sessualità fosse fatalmente riproduttiva, mentre se c’è una sessualità strettamente legata alla riproduzione è quella maschile, in cui orgasmo e momento riproduttivo coincidono. Per la donna no: ma ve li ricordate i medici che danne colonne dei settimanali femminili o nelle visite private raccomandavano paternalisticamente: “Signora, se non ha l’orgasmo vaginale non si preoccupi, dica a suo marito di avere pazienza, è un fatto di immaturità, passa col tempo…”.

 

Oggi ci propongono di regolamentare l’aborto offrendoci ipocrite casistiche – non è “lecito” né ammissibile che le donne scelgano da sé quando essere madri – dietro cui continuerà a nascondersi la realtà dell’aborto clandestino di massa e di classe, perché le donne proletarie che l’aborto lo fanno col ferro da calza non verranno a giustificarsi e a cercare scuse davanti a una commissione di “esperti”. E se l’aborto è anche una questione di coscienza non si capisce perché una commissione debba essere più responsabile e cosciente della donna che l’aborto lo vive, o debba sostituirsi alla sua morale per farsi garante di una “moralità pubblica” che invece è un preciso compromesso politico.

 

Al Parlamento, che si rifiuta di essere e di agire come Parlamento eletto anche e soprattutto dalle donne, e che si muove solo a spintoni, lo diciamo chiaramente: intanto noi cominciamo a farli gli aborti, onorevole Fanfani e on. La Malfa e on. De Martino e on. Berlinguer, li facciamo alle donne democristiane, fasciste, socialiste e comuniste, alle donne che vengono a chiedercelo. E se vogliono proprio regolamentare qualcosa proponiamo la regolamentazione della eiaculazione, con relativa casistica.

 

Si spaventeranno. Ci diranno che siamo delle mammane. Bene: è ora anche di ribaltare il senso di tutti questi insulti rivolti alle donne in quanto tali. Puttana, lesbica, ora anche mammana.

 

Puttana è la donna costretta a fare da contraltare a quell’altra povera venduta dell’“onesta”, della moglie che si vende a un solo uomo e a cui vengono offerte misere gratificazioni in cambio.

 

Lesbica è la donna che non accetta di essere mezzo riproduttivo (e in quanto tale “riprovevole”) che vuole scegliere con chi fare l’amore (e in quanto tale diversa-diabolica se chi sceglie ha il suo sesso).

 

Mammana è la donna che usa il suo sapere antico, tramandando, purtroppo inagibile perché privo di garanzie di sicurezza, in “aiuto” alle donne; è l’unica ad avere assicurato in questi secoli la libertà, rischiosa quanto si vuole, ma libertà, di abortire.

 

E non per questo si arricchisce, si specula o si eleva socialmente: può fare gli aborti come assistere ai parti, o magari curare slogature, infezioni, bruciature, ascessi.

 

Al mio paese, in Sicilia, una volta – avevo dodici anni – una connetta vestita di nero mi ferma per strada. Mi guarda bene in faccia, mi tocca il seno e comincia a ridacchiare con mia zia che mi accompagna. Le dice che di lì a poco avrò le mie prime mestruazioni: “crisì la carusa!”. Due giorni dopo puntuali le mestruazioni arrivarono. Non so se questa donna facesse anche gli aborti, può darsi. Ma quando si dice aborto clandestino quasi non si accusano i medici speculatori che nelle cliniche di lusso o negli ambulatori eseguono raschiamenti magari senza anestesia per cifre incredibili: è molto più comodo ancora una volta prendersela con le donne, con le mammane, testimoni di un’antica solidarietà fra donne e non di speculazione vergognosa.

 

Comunque il nostro discorso è diverso. Vogliamo ovviamente fornire alle donne il più alto grado di sicurezza possibile. Possiamo fare nostre le parole del “Comité pour la liberté de l’avortement et de la contraception” di Grenoble, legato all’Associazione “Choisir” che, in un librettino che fa il bilancio di trecento interventi Karman eseguiti da personale non medico, scrive: “En prémier lieu nous voulions prouver que l’avortement pouvait etre un act comportant peu de ranger. Nous voulions de démédicaliser, les femmes pouvant alors se rendre maitres du pouvoir d’avorter. Il est certain que la méthode Karman offer de garanties de securité très grandes. Nous manipulions avec des instruments non traumatisants, avec des precautions d’asepsie que nous cherchions toujours à améliorer. De ce fait les risques que nous faisons courir à la femme étaient minims par rapport aux vieilles methods de déclenchement d’une fausse couche par sonde ou autre object, et meme par rapport aux curettages qui se pratiquent dans certaines cliniques”.

 

La semplicità del metodo Karman è veramente rivoluzionaria e ne consente l’apprendimento da parte di chiunque, come è avvenuto non solo in Francia (MLAC, Choisir) ma in Cina, per esempio, in cui le statistiche danno una percentuale di complicazioni più bassa tra gli aborti praticati da personale paramedico che tra quelli praticati da medici veri e propri; o in America, dove Karman (che non è medico) ha messo su delle Free-Clinics in cui praticano soprattutto donne che hanno già abortito, e che non hanno alcuna esperienza medico-sanitaria.

 

Dopo un corso di qualche mese sono in grado di eseguire perfettamente un’aspirazione e di effettuare anche una visita pelvica prima per accertarsi che non vi siano complicazioni, lasciando ai medici solo i casi rischiosi. Barman stesso afferma che raggiunto un certo grado di competenza tecnica, la qualità personali servono più del bersaglio accademico. Il metodo Karman è decisamente migliore di tutti gli altri metodi di interruzione di gravidanza compreso il raschiamento: è semplice, rapido (tutto l’intervento non dura più di un quarto d’ora), il materiale è tutto di plastica, con la punta tonda, non si raschia la mucosa uterina, non si danneggia l’utero, si dilata il collo dell’utero di poco (mai più di otto millimetri), non c’è il rischio di perforazione, non c’è bisogno di anestesia; e questo oltre ad eliminare i rischi dell’anestesia rende anche inutile il ricovero in ospedale.

 

L’auto-assistenza (self-help) non è un fine ma un mezzo, uno strumento di lotta, e non è antagonista rispetto alle strutture sanitarie pubbliche, né in contraddizione con le richieste di aborto libero, gratuito, assistito, effettuato negli ospedali, che noi facciamo e continueremo a fare. Si tratta di costringere lo stato e la classe medica a farci quello che chiediamo e come lo chiediamo, cioè qualità e quantità di servizi insieme; ma lo faremo d’ora in poi da posizioni di forza. Non più affidate, gambe all’aria, al ginecologo-che-sa-tutto, o a bocca aperta di fronte alle ultime fesserie proclamate magari da qualche professore dell’università cattolica, e non soltanto cercando disperatamente di spingere un Parlamento recalcitrante a fare quello che è semplicemente suo dovere: è il momento di cominciare a prendere nelle nostre mani la medicina, almeno le nozioni più utili ed elementari, e a mettere in piedi controstrutture, e centri di medicina per la donna.

 

Il peso della medicina come fiancheggiatrice del potere è enorme. Per secoli la nostra emarginazione sociale è stata fatta passare per inferiorità biologica, e giustificata in base a ciò che la donna ha di diverso dall’uomo: il corpo, e in particolare gli organi genitali, la funzione riproduttiva, il ciclo mestruale, ecc.

 

Che ruolo ha avuto la medicina nella storia della nostra oppressione? Ha fornito al potere interpretazioni di comodo, alibi autorevoli, ha avallato ideologie repressive e razziste nei confronti della donna. Ha stabilito quale è la norma, cioè il sano dal malato, dal pazzo, dal deviante, dall’inabile, fornendo basi “scientifiche”, motivazioni biologiche a quella che era ed è solo una violenza sociale. E la norma è maschio, anche se può sembrare assurdo, proprio come è ariana, bianca, eterosessuale, ecc. In un certo senso la donna non è considerata normale (infatti è pazza, lunatica, fragile, impura, misteriosa…) e quindi – secondo la logica ferrea del potere – essendo diversa è automaticamente inferiore. Tutte le nostre caratteristiche specifiche, i momenti di diversità biologica dall’uomo sono stati interpretati dalla medicina come malattie , cioè zone di competenza del medico, solitamente maschio e comunque anche se non maschio, portatore e interprete di un ruolo e di un patrimonio scientifico storicamente “maschile”. La medicina fin dal suo nascere come scienza ufficiale ha escluso le donne, legandosi a doppio filo col potere, che non è solo classista ma anche sessista; di conseguenza la “scienza” medica ha dovuto piegarsi alle esigenze del potere diventando strumento di oppressione nei confronti delle donne, diversificando le tecniche e le ideologie dell’oppressione a seconda che si trattasse di donne del proletariato o della borghesia. I risultati sono che la medicina per le donne, l’informazione sessuale sulla/alla donna, le ricerche sugli anticoncezionali maschili e femminili, l’assistenza sanitaria negli ospedali per i parti e comunque tutto quello che riguarda le donne, sono qualitativamente e quantitativamente inadeguate e scadenti, quando non addirittura inesistenti; che la figura del medico è estremamente ruolizzata, ancora fonte di prestigio, e di potere, e che da ciò deriva l’inappellabilità e la sacralità delle sue asserzioni, ancorché manifestamente prive, agli occhi di una persona di buon senso, di qualunque seria base scientifica: il medico è diventato il saggio “consigliere” delle donne per quanto riguarda la loro vita sessuale, le loro scelte, i guai familiari, l’allevamento e l’educazione dei figli, tutti argomenti su cui i medici dissertano con benevolo paternalismo pur non capendone, nella maggioranza dei casi, un accidente, favorendo così nelle donne un atteggiamento di passività e di dipendenza. Noi donne col nostro corpo non abbiamo un minimo di confidenza e di armonia. Mentre l’uomo ha un rapporto di molta più accettazione e addirittura di orgoglio nei confronti dei suoi genitali, simbolo di potere, e se li controlla facilmente (li può osservare, toccare, può accorgersi subito dall’insorgere di manifestazioni patologiche) noi abbiamo chiamato le nostre mestruazioni “Giacomina”…il “pudore” ci impediva di guardarci, controllarci, in certi casi persino di lavarci (“fa male durante quei giorni!”). A mala pena sappiamo di avere una clitoride ma quasi nessuna conosce la sua vagina, il suo collo dell’utero, e ancora poche sanno realmente come funziona l’apparato riproduttivo femminile o come agiscono gli anticoncezionali, quali sono i disturbi femminili più frequenti, quando realmente possiamo dirci “malate”, ecc.

 

Molte ancora non riescono ad infilarsi da sole un tampone (donne con magari più di un figlio) e tantomeno uno speculum. Una con tre figli insisteva che non le entrava.

 

Possiamo andare avanti in queste condizioni, lasciando solo al “grande stregone” laureato ogni nozione riguardante l’arcano che ci portiamo dentro e che siamo? Possiamo permettere che una volta raggiunto l’obiettivo dell’aborto libero e legale – ipotesi già molto rosea – questo avvenga con inutili e dannosi raschiamenti, col personale sanitario che tratta le donne come pezze e le lascia nell’ignoranza totale di quello che viene praticato sul loro corpo, in un’atmosfera di riprovazione morale o d’indifferenza?

 

O magari, come è avvenuto in Francia dopo l’approvazione della legge, dover subire “l’obiezione” dei medici che boicottano in ogni modo l’applicazione della legge e si rifiutano di eseguire l’intervento? Le donne devono abituarsi non solo ad esigere l’aborto libero e gratuito, ma anche una qualità di aborto, di trattamento, di assistenza; esigere di essere informate, di decidere da sole su se stesse sempre.

 

L’autoassistenza, dicevamo, non è un’alternativa alle strutture sanitarie pubbliche, e uno dei nostri obiettivi prioritari resta il coinvolgimento, a vari livelli, di medici e di studenti di medicina. Se non vogliono impegnarsi direttamente nella pratica clandestina, possono collaborare indirettamente: per esempio facendo la visita ginecologica prima e dopo l’intervento (per evitare i casi rischiosi), e saranno le donne stesse ad esigere che il medico le informi di posizione, eventuali malformazioni, affezioni dell’utero e le fornisca di ricetta per le medicine che servono dopo l’aborto (per esempio, il Methergin).

 

Un’altra forma di collaborazione, per i medici che lavorano negli ospedali, è di garantirci, nell’eventualità di complicazioni o ritenzioni (anche se le percentuali di complicazioni con il Karman sono bassissime, circa il 2 per cento), il ricovero immediato della donna e il raschiamento sotto anestesia senza difficoltà o denunce.

 

In Francia le donne, coll’appoggio del MLAC sono arrivate – prima dell’approvazione della legge – a presidiare o occupare ospedali e studi privati di medici “favorevoli” all’aborto chiedendo loro di eseguire materialmente l’intervento. In Italia possiamo cominciare a utilizzare i miseri e ambigui spazi offerti dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, che crea in merito all’aborto per ragioni terapeutiche-eugenetiche un vuoto legislativo, e imporre, con l’aiuto di certificati medici e con l’assistenza legale di avvocati, che negli ospedali vengano almeno eseguiti questi tipi di aborto.

 

Ma l’obiettivo prioritario è ovviamente raggiungere le donne, e soprattutto non soltanto le più politicizzate, le più fornite di strumenti, le borghesi di sempre, ma le “irraggiungibili”, le donne chiuse in casa, nella loro prigione, senza possibilità di prendere coscienza; le non femministe, le donne madri e mogli…

 

La nostra proposta è di cominciare a creare gruppi di auto-assistenza nei quartieri, riuscendo a mobilitare e a coinvolgere le donne, facendole partecipare direttamente. Non si tratta di “convincere” le donne della necessità di liberalizzare l’aborto, non si tratta di fare propaganda: le donne, se è vera come è vera almeno la cifra più riduttiva di quelle che conosciamo sul numero degli aborti clandestini ogni anno, cioè un milione e mezzo, sanno benissimo cos’è l’aborto e hanno bisogno solo di strumenti per farsi sentire, di occasioni per partecipare e uscire dal silenzio e dall’isolamento. Lotteremo da posizioni di forza nel momento in cui saremo in grado di girare per le case e per i quartieri con la valigetta con gli attrezzi del Karman, quando faremo le riunioni direttamente nelle case delle donne, creando quel tipo di solidarietà che ogni volta stupisce e che è veramente “tra donne” al di fuori di divisioni generazionali e anche di classe, di ideologia, di mentalità. L’aborto può non essere soltanto un aborto, cioè qualcosa di cui liberarsi in fretta e nel migliore dei modi possibile, ma anche una occasione di resa di coscienza, per mettere in discussione se stesse, il proprio modo di vivere la sessualità, la maternità, i rapporti, il ruolo della famiglia, da parte delle donne soprattutto ma anche degli uomini, mariti-padri-fidanzati che, come diceva una compagna del MLAC “non hanno mai messo molto in discussione della propria vita, e non l’avrebbero forse messo se non ci fosse stato il contatto con il gruppo, l’occasione drammatica dell’aborto”.

 

Per le donne, per la nostra lotta, è essenziale impegnarsi a fondo sul referendum abrogativo del reato di aborto proposto dalla Lega 13 Maggio e dal settimanale “L’Espresso”. La raccolta di firme e l’organizzazione per fare e imparare a fare l’aborto debbono essere strumenti convergenti. Quanto la depenalizzazione, e in generale il referendum come mezzo di pressione sul Parlamento e sulle forze politiche, sia importante, mi sembra scontato ed evidente – anche se troppe femministe l’hanno capito in ritardo o non l’hanno capito ancora – e quanto i tavoli di raccolta di firme possano essere occasione di crescita di dialogo con le donne, di dibattito.

 

Offrire alle donne strumenti e possibilità concrete di liberazione e di lotta (portando i tavoli per la raccolta delle firme in giro per i quartieri, come cercheremo di portarci l’autoassistenza) ci sembra l’unico modo non “mistico” di essere sorelle. Non crediamo alla sorellanza ideologica né a quella biologica (unite perché donne e basta), ma a quella politica, alla sorellanza come convergenza di scopi e di interessi, ed è importante per noi sentirci così davvero sorelle e donne “qualunque”, non femministe; a Petruzza Lo Prete, immigrata di Genova morta perché si è infilata un ferro nell’utero nel tentativo di evitare una gravidanza non voluta, e che probabilmente era lontanissima come cultura, mentalità, ideologia, abitudini e magari tendente politiche da noi, ma avrebbe – se ne avesse avuta l’occasione – firmato per il referendum, sull’aborto, come sarebbe – se ne avesse conosciuto l’indirizzo – venuta al CISA o ai nuclei di autoassistenza ad abortire, e non sarebbe morta.


NOTE


* Introduzione al libro “Aborto, facciamolo da noi. Una proposta di lotta per l’aborto libero e gratuito in strutture sanitarie pubbliche e un trattamento alternativo per le donne”, a cura di Eugenia Roccella, Napoleone editore, 1975


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