Radicali.it - sito ufficiale di Radicali Italiani
Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani
cerca [dal 1999]


i testi dal 1955 al 1998

  RSS
gio 28 mar. 2024
  cerca in archivio   COMUNICATI
VIII Congresso di Radicali Italiani: relazione del tesoriere Michele De Lucia

Chianciano Terme, 12 novembre 2009

VIII CONGRESSO DI RADICALI ITALIANI

CHIANCIANO TERME, 12-15 NOVEMBRE 2009

RELAZIONE DEL TESORIERE

di Michele De Lucia

con la collaborazione di Daniele Bertolini e Alessandro Massari

“Noi siamo diventati radicali perché ritenevamo di avere delle insuperabili solitudini e diversità rispetto alla gente, e quindi una sete alternativa profonda, più dura, più "radicale" di altri... Noi non “facciamo i politici”, i deputati, i leader… lottiamo, per quel che dobbiamo e per quel che crediamo. E questa è la differenza che prima o poi, speriamo non troppo tardi, si dovrà comprendere”.

Penso che queste parole – antiche, non “vecchie” – sappiano ancora, a distanza di tanti anni, interpretare e trasmettere le urgenze che ciascuno di noi avverte dentro di sé, quando si alza la mattina e si rende conto che in questo Paese ogni giorno è un po’ più difficile di quello precedente, perché ogni giorno si è un po’ meno liberi e un po’ più poveri, il che contribuisce ulteriormente a renderci meno liberi. La partitocrazia produce povertà.

Se siamo radicali, è perché sappiamo che se non molliamo la speranza di riformare l’Italia, di liberarla, di cambiarla rendendola un posto migliore e più giusto (una democrazia, uno Stato di diritto!), allora noi stessi possiamo, ancora, essere speranza. Se siamo qui, è perché finora a chi sperava, augurava o addirittura cercava la nostra chiusura, abbiamo saputo rispondere rilanciando, giocando il possibile contro il probabile, consapevoli che l’identità la fanno gli obiettivi e le scelte, non le ideologie, non le “pappe pronte”. Per noi laici, l’identità consiste in quello che vuoi fare e in come vuoi farlo: “l’ideologia te la fai tu”.

La domanda “perché siamo qui” registrerebbe in questa sala probabilmente due tipi di risposte: uno è il “perché ci crediamo ancora”; l’altro è “perché siamo stanchi, sfiduciati, ma abbiamo bisogno di ritrovare le ragioni dello stare insieme”, consapevoli tanto della nostra inadeguatezza, quanto della necessità urgente di far saltare il tappo della bottiglia, di aprire porte e finestre, di aprirci all’esterno, all’”altro da noi”.

Ma questo non è affatto semplice, se è vero – come è vero, ce lo dicono i dati di quel Centro d’ascolto che la partitocrazia ha cercato in ogni modo di cancellare – che da mesi e mesi non vai più un secondo in televisione. Non lo è quando, ancora ai primi di maggio, i sondaggi dicono che solo il 3% dei cittadini sa che alle elezioni europee c’è anche la lista radicale, per cui puoi pensare di prendere al massimo centomila voti (poi c’è stato il Satyagraha, lo sciopero della sete di Marco, e i voti sono diventati settecentocinquantamila, ma già ci risiamo). Non dimentichiamolo: questo è stato l’anno del tentativo di liquidazione definitiva del Centro d’ascolto – ora è chiaro a tutti perché – e del tentativo di far fuori Radio radicale. I mandanti e gli esecutori sono quegli stessi barattieri che hanno distrutto il diritto a conoscere per deliberare, il diritto dei cittadini italiani ad essere correttamente informati. Dal “D’Alemoni” al “Veltrusconi”, e ora di nuovo al D’Alemoni. Quel che è certo è che l’anticomunista Berlusconi con i comunisti si trova benissimo. E i comunisti con lui: dalle televisioni alla Bicamerale e ritorno.

La cancellazione del soggetto politico radicale nel suo complesso e la nostra inadeguatezza vanno di pari passo, si alimentano a vicenda. Leggiamole attraverso i dati, nudi e crudi, dell’anno politico 2009 di Radicali italiani:

· al 9 novembre 2009 abbiamo 1.387 iscritti, 79 in meno rispetto alla stessa data dello scorso anno;

· l’autofinanziamento per il 2009 è ad oggi di 300mila euro, a fronte dei 316.700 raccolti al 9 novembre 2008;

· la sottoscrizione straordinaria lanciata da Marco ed Emma a seguito della decisione degli organi dirigenti del Movimento, di dimezzarsi, su proposta del tesoriere, gli stipendi per il periodo corrispondente agli ultimi cinque mesi del mandato ha raggiunto i 56mila euro, cui vanno aggiunti i 40mila che si risparmiano con il dimezzamento;

· le spese sono state così strutturate (le raggruppiamo in tre blocchi principali): 20mila euro per i servizi comuni, 177mila per gli organi dirigenti, 74mila per i collaboratori, 36mila per le iniziative.

Ci torneremo in modo più approfondito nell’ultima parte di questa relazione. Complessivamente è un dato di tenuta (bisogna considerare, ad esempio, che l’Associazione Luca Coscioni ad oggi ha 87 iscritti in meno e circa 37mila euro di autofinanziamento in meno rispetto al 2008), con luci e ombre che andremo più avanti ad analizzare. Ma per leggere l’anno di Radicali italiani dobbiamo leggere innanzitutto l’anno degli italiani, in un gioco di specchi da un lato con l’iniziativa radicale, dall’altro con l’azione della partitocrazia, di quel regime che dura ormai da un sessantennio e dal quale abbiamo l’obiettivo di, finalmente, liberarci e liberare: “dalla resistenza alla liberazione”. E la candidatura radicale al governo del Paese, mandarli a casa, l’urgenza che RIVOLTA! sia.

L’anno appena trascorso è stato quello della più grave crisi economica del Secondo dopoguerra, e in molti hanno sostenuto che la crisi in corso rappresenterebbe, se non il fallimento, almeno la crisi del capitalismo. Non sono d’accordo: questa crisi rappresenta il fallimento della politica e il fallimento della regolazione. Dire “crisi nel mercato, non del mercato”, vuol dire proprio questo. Il livello su cui si consuma in modo devastante la crisi è quello del rapporto tra la politica e il mercato: è fallito il rapporto tra la politica e l’economia.

È la crisi più grave, dunque, e proprio per questo è incredibile come nessuno (tranne noi radicali) abbia evidenziato un fatto tanto evidente quanto occultato: l’Italia era in crisi già prima della crisi; l’Italia sarebbe in crisi anche senza la crisi. Tra i Paesi UE, la nostra crescita era più bassa, il prodotto interno lordo era più basso, l’occupazione era più bassa, gli ammortizzatori sociali erano e restano solo per pochi a fronte di un sistema previdenziale costoso, squilibrato e con l’età pensionabile tra le più basse dell’Unione europea. Tutti noi già eravamo, e ancora siamo, ostaggio del fascio delle corporazioni confindustriali, sindacatocratiche e partitocratiche, le stesse che hanno che ci hanno ridotto nello stato in cui ci troviamo. Le parole chiave di questo Stato corporativo sono due: consociazione e concertazione. Innovazione e ricerca? Non pervenute (anche a causa di quel vero e proprio tumore rappresentato dallo Stato Città del Vaticano e dai suoi diktat, come la fuga dei ricercatori a seguito dell’approvazione della legge 40 ha ampiamente dimostrato). Riforme? Non pervenute. L’Italia – se non ci saranno quelle riforme che altrove sarebbero quasi banali, tanto è evidente la loro urgenza, ma che da noi assumono un connotato “rivoluzionario” – resterà in crisi anche dopo la crisi. L’Italia gli oltre 1.750 miliardi di euro di debito pubblico (28.500 euro di debito a testa, contando anche i neonati) li aveva già fatti, ed il sistema bancario italiano è stato meno colpito di altri non perché più previdente, meglio regolato o più “scaltro”, ma perché più arretrato.

La lama della crisi qui da noi è affondata come nel burro, presentando tutto intero il conto delle riforme non fatte. Solo a mettere in fila pochi dati c’è farsi girare la testa: in Italia dal marzo del 2008 la produzione industriale si è contratta di un quarto, il PIL si è ridotto del 6,5 per cento; siamo tornati indietro sui livelli di vent’anni fa nel caso della prima, di quasi dieci per il secondo. I consumi delle famiglie si sono ridotti del 2 per cento, per la contrazione del reddito disponibile reale e per il peggioramento del mercato del lavoro. Nello stesso periodo l’occupazione è scesa del 3,3 per cento (650.000 unità), l’incidenza della Cassa integrazione sul monte ore lavorate è passata dall’1,5 al 10 per cento. Registreremo presumibilmente ulteriori perdite di occupazione in questi mesi finali dell’anno. Gli investimenti sono caduti del 15 per cento nel periodo. I giudizi delle imprese sulle condizioni per investire, rilevati nel sondaggio di Bankitalia del mese di settembre, non danno indicazioni di una robusta inversione di tendenza. Nelle varie recessioni vissute dalla nostra economia dal dopoguerra l’intensità delle perdite di produzione fu minore di quella osservata questa volta, e tuttavia il tempo occorrente a risalire sui livelli di attività precedenti la caduta non fu mai inferiore a due anni. Ora il tempo di recupero potrebbe essere ancora più lungo. La storia economica insegna che le recessioni causate da crisi finanziarie sono più persistenti. Noi italiani abbiamo oggi il vantaggio di un livello di debito privato basso rispetto a quello di altre economie e di un sistema bancario che non è stato direttamente danneggiato dalla crisi. Abbiamo però la necessità di affrontare le debolezze strutturali della nostra economia per costruire una durevole ripresa che non poggi soltanto sulle esportazioni[1].

22mila imprese commerciali hanno chiuso nel 2008, mentre per il 2009 si prevede che il dato si attesti ad altre 25mila. 1,2 milioni di lavoratori dipendenti non hanno alcuna indennità in caso di disoccupazione involontaria. 450mila parasubordinati non hanno sussidi o non accedono ai benefici introdotti dal governo nell’ultimo anno. Tra i lavoratori “coperti”, quasi un milione ha diritto alla sola indennità con requisiti ridotti (che dura… 2 mesi). Secondo i dati dell’Eurostat, nel 2006 (prima della crisi!) la spesa per trasferimenti alle persone in cerca di occupazione si collocava intorno allo 0,5 per cento del PIL a fronte dell’1,7 nella media dei paesi dell’area dell’euro e dell’1,4 nell’intera Unione europea. Secondo le stime dell’OCSE, il rapporto percentuale tra il numero dei beneficiari di un sussidio di disoccupazione o di un sostegno economico per forme di occupazione a orario ridotto (come la Cassa integrazione) e il numero dei disoccupati era pari a 40 in Italia, 73 in Spagna, 97 in Francia e oltre 100 in Germania.

Particolare attenzione (specie per noi, che nel ’99-2000 in particolare abbiamo dedicato grande attenzione e intensità di iniziativa al Nord-est) meritano le piccole e medie imprese, perché esse rivestono uno ruolo fondamentale nel sistema italiano: basti pensare che il 95% delle aziende in Italia ha meno di 10 addetti e queste stesse aziende danno lavoro a quasi un italiano su due[2]. Cosa vuol dire questo rispetto alla crisi? Vuol dire che mentre nei settori che fanno capo a grandi oligopoli internazionali il riequilibrio delle capacità produttive può essere gestito con iniziative di consolidamento tramite aggregazioni, fusioni e acquisizioni (per cui quelle che dispongono di maggiori risorse ne approfittano per potenziarsi, nei settori frammentati (è il caso nostro) invece la principale forza riequilibratrice è il mercato, a causa di una congenita incapacità delle PMI di compiere operazioni di aggregazione strutturale con l’effetto generale di consolidare i settori di appartenenza. Quindi l’Italia rischia di subire un indebolimento strutturale del sistema manifatturiero delle PMI a causa dell’uscita dal mercato di un gran numero di imprese, con ulteriori gravi conseguenze sull’occupazione. Per contrastare questa minaccia, considerando che l’economia italiana è molto legata all’export, è prioritario aumentare l’efficienza nel sistema produttivo interessato all’esportazione in modo da ottenere guadagni di produttività e di competitività. La crisi finora è stata vissuta in chiave di emergenze e contingenze, ma la stessa non può essere affrontata solo cercando di limitare i danni. Essa può costituire l’occasione per investimenti di nuova capacità innovativa e produttiva in nuovi settori, diventati ancora più promettenti con la crisi. Allora è chiaro che università e ricerca siano componenti vitali. Il potenziale innovativo costituito da tecnologie, conoscenze e capitale umano di eccellenza è destinato a costituire un fondamentale vantaggio competitivo e la principale leva della crescita. Le nazioni dotate di una maggiore capacità di ricerca e di innovazione sono quelle che riusciranno a trarre maggiori benefici da questi mutamenti, riorganizzando la loro offerta di beni e servizi. C’è una sola strada per far sì che possiamo esserci pienamente partecipi della ripresa: attivare un ciclo di investimenti in campi innovativi. Una consapevolezza, un auspicio, un obiettivo che si scontrano con la realtà in cui viviamo: il governo ha appena deciso di congelare i fondi per la banda larga (che oggi serve solo il 20% della popolazione). Questa decisione ha come effetto immediato quello di bloccare gli investimenti in innovazione digitale da parte delle imprese, laddove i dati ci dicono che ogni euro investito nella banda larga ne produce almeno due di aumento di attività economica e di PIL. La banda larga serve a uscire dalla crisi, creare posti di lavoro, aumentare il PIL? Sì? Bene, allora non si fa. Invece si fa il Ponte di Messina. Non fa una piega: la partitocrazia produce povertà.

È chiaro, dunque, perché abbiamo ritenuto necessario fare questa carrellata di dati: questi dati riguardano, raccontano la vita delle persone, la vita dei cittadini di questo Paese, che vedono sempre più ridursi, fino a scomparire, la loro libertà, sia per quanto riguarda i diritti civili, sia per quanto riguarda la loro condizione economica: se è vero, come è vero, che la partitocrazia produce povertà, la povertà si traduce anch’essa una riduzione della libertà.

I provvedimenti “anticrisi” varati dal governo hanno riguardato non più del 12,5% dei lavoratori parasubordinati, del 20% degli apprendisti e del 60% delle persone con contratti a tempo determinato, per cui ne è rimasto escluso proprio chi avrebbe avuto più bisogno di un sostegno (secondo i dati Istat, nell’ultimo anno sono rimasti disoccupati 154mila lavoratori con contratto a tempo determinato, 107mila lavoratori con collaborazioni coordinate e continuative, 163mila lavoratori autonomi). Il “capolavoro” alla rovescia di Berlusconi, Sacconi e Tremonti ha riguardato i lavoratori a progetto: per loro hanno previsto prima il 10 e poi il 20 per cento del reddito dell’anno precedente. Un’elemosina. Una politica discriminatoria, contro i lavoratori flessibili, contro gli artigiani, contro le piccole partite iva, quindi proprio per chi non ha nessun paracadute.

Questi sono i dati che descrivono alcuni degli effetti della crisi, e non è possibile girarci intorno. Ma alla base di questi vi è un dato ulteriore, connotato tutto e solo del regime italiano. Abbiamo “affrontato” (davvero tra virgolette) la crisi presi tra due fuochi, i “buoni a nulla” e i “capaci di tutto”. I “capaci di tutto” berlusconiani hanno recitato due mantra. Il primo mantra diceva “non c’è nessuna crisi, tutto va bene, si fa del terrorismo psicologico, bisogna essere ottimisti! etc.” (e per aiutare la ripresa, intanto del buonumore, il Presidente del Consiglio ha “invitato” stampa e tv a darsi una regolata, dimenticandosi che quei media o sono suoi, o – quando non sono suoi – semplicemente non si nota la differenza); il secondo mantra diceva “non-si-fanno-riforme-in-tempo-di-crisi-non-si-fanno-riforme-in-tempo-di-crisi” e via cantilenando (Berlusconi – Sacconi, lo stesso di Eluana - Tremonti: un coro di voci bianche!). E in effetti non le hanno fatte. Ma ogni volta che hanno detto che non le avrebbero fatte, tutti quanti (tranne noi) si sono precipitati ad applaudire, da Guglielmo Epifani a Renata Polverini, passando per Emma Marcegaglia, in una sorta di “pancorporativismo” sempre più perfetto. Senza respiro, senza visione, senza speranza. Questo Paese continua ad essere devastato dalle corporazioni, dall’interesse particolare che prevale sempre sull’interesse generale, dalla “committenza normativa”, dal voto di scambio, dal privilegio, dall’emergenza permanente strumentale ai salvataggi permanenti.

Tutti hanno finto di dimenticare che le uniche riforme in campo economico-sociale si sono fatte in tempo di crisi: Amato (votammo la sua finanziaria, impopolari per non essere antipopolari, e ci prendemmo gli insulti di quello stesso Pds che pochi anni dopo lo votò Presidente del Consiglio, dopo il primo governo Prodi e i due governi D’Alema); Ciampi (non votammo la sua finanziaria, denunciando come fosse già elettorale); Dini (ne criticammo la riforma delle pensioni perché già allora la giudicammo, con Benedetto Della Vedova, insufficiente, anche se la direzione era finalmente quella giusta. Oggi sappiamo che avevamo ragione: le riforme che prevedono per iniziare a funzionare un momento differito nel tempo rispetto a quello della loro approvazione sono destinate a fallire: valga per tutti, e mai se ne perda la memoria, lo “scalone” di Maroni, la cui eliminazione – costo: 10 miliardi di euro – è stata fatta pagare ai parasubordinati con il protocollo di Prodi del 2007, in cui l’enorme aggravamento delle aliquote contributive (al 26% dal 2010) era rubricato come “Misure in favore dei giovani”. Misure per seppellire i giovani, semmai!

Tutti coloro che si trovano in questa sala sanno quanto la crisi abbia inciso sul loro portafogli, sulla loro libertà, sulle loro vite. Per ciascuno dei 365 giorni che abbiamo alle – e sulle – spalle, tutti noi sappiamo che qualcosa è cambiato: in peggio.

Ma dobbiamo chiederci: come avrebbe affrontato la crisi il nostro Paese, se le nostre proposte fossero state poste all’ordine del giorno, calendarizzate, discusse, approvate? E per “nostre proposte” non intendo solo quelle delle ultime due legislature, ma quelle degli ultimi trent’anni. Quelle che trovate nel corposo dossier in distribuzione, che è a tutti gli effetti parte integrante di questa relazione, prodotto dell’intellettuale collettivo che sappiamo essere. È o non è un fatto che:

o sin dal nostro ingresso in Parlamento, nel 1976, abbiamo indicato il debito pubblico come la bancarotta fraudolenta nel cuore dello Stato, tassa che grava persino sui neonati;

o la proposta di legge che abbiamo presentato sulle pensioni e sul welfare (andare in pensione un po’ più tardi per avere un welfare democratico, universalistico, equo, al posto di quello partitocratico, particolaristico, iniquo) avrebbe consentito di affrontare la crisi senza abbandonare nessuno al suo destino, prevedendo una copertura efficace anche per i più deboli. Nove miliardi di euro per il welfare, ogni anno: questo avrebbe consentito la nostra proposta di legge, se approvata (e deve essere subito chiaro, specie ora che il concetto sta diventando popolare nella politica, che i soldi risparmiati dalle pensioni, se si fa la riforma, devono andare solo e soltanto agli ammortizzatori sociali). Forse un po’ poco per chi, nei decenni precedenti, ha bruciato 120 miliardi di euro in cassa integrazione straordinaria, privatizzando i profitti e socializzando le perdite;

o la proposta di legge sui “contributi silenti” è una misura di giustizia e di equità, a favore proprio di chi oggi è più colpito dalla crisi (per cui avrà periodi anche lunghi di disoccupazione o di lavoro in nero). Secondo alcune stime diffuse dagli organi di stampa, i lavoratori parasubordinati versano ogni anno all’Inps contributi pari a 9 miliardi di euro, ma in cambio ottengono prestazioni per appena 300 milioni di euro. Il dato contribuisce a svelare il fenomeno dei contributi “silenti” (quei contributi che il cittadino versa, anche per molti anni, senza tuttavia riuscire a conseguire i requisiti minimi stabiliti dalla normativa vigente per poter accedere agli istituiti all’erogazione dei quali i contributi stessi sono finalizzati). Si tratta di un vero e proprio furto ai danni dei parasubordinati, degli immigrati, delle generazioni più giovani, che si trovano a versare i loro contributi, di fatto, a fondo perduto. Abbiamo presentato una proposta di legge per introdurre nel nostro ordinamento il principio per la restituzione dei contributi previdenziali quando questi non siano sufficienti a dar luogo alla maturazione di un corrispondente trattamento pensionistico;

o non si contano le proposte su: della lotta alle corporazioni, agli ordini professionali e ai loro privilegi; della lotta ai sindacati delle trattenute automatiche in busta paga e dello sciopero politico, perché siano riformati in accordo con l’art. 39 della Costituzione.

o finanche il caso di quella strana cosa dal nome “esoterico” di “sostituto d’imposta” sembra sul punto di esplodere, dopo i tentativi nostri di abolirlo per via referendaria respinti per ben due volte dalla Corte costituzionale,

Possiamo dire che complessivamente, con le “Proposte politico-parlamentari per l’autunno” e con il successivo documento “Radicali per il governo dell’economia”, che rappresentano la sintesi di trent’anni di proposte e di lotte, abbiamo anche previsto anche la crisi in corso e abbiamo saputo elaborare soluzioni, rivendicando la nobiltà della politica e la necessità per la politica di saper governare i problemi per non esserne governata (o per non essere governata da convenienze privatissime, a base di bustarelle e voti di scambio).

C’è poi l’ultima nata, la pdl “Pannella-Ichino-Cazzola”, quella proposta (sperimentale) che ha messo assieme su un progetto radicale due massimi esperti della materia, del PD e del PDL, che conoscono i problemi, che sanno come andrebbero risolti, e che proprio per questo si scontrano con il muro dei conservatori predominante in entrambi gli schieramenti. Il nuovo regime delineato dalla proposta di legge bilancia in modo adeguato gli interessi di tutte le parti coinvolte, configurando anche un risparmio per il bilancio pubblico. Il lavoratore che intende posticipare il pensionamento può, proseguendo nell’attività lavorativa, godere di un trattamento economico superiore a quello che percepirebbe se andasse subito in pensione. Il datore di lavoro può continuare ad avvalersi dell’opera di lavoratori con un elevato livello di esperienza a costi più contenuti, in virtù della riduzione del carico contributivo. Per quanto concerne l'Erario, infine, il rinvio del trattamento pensionistico si risolve in un risparmio netto sul piano economico.

La novità è che la simulazione preparata dall’Inps sugli effetti che questa proposta determinerebbe, se approvata, dice che si potrebbero risparmiare fino a due miliardi di euro l’anno. Il fatto è che davvero più le “azzecchiamo”, più dobbiamo sparire. Allora, quando succede, ricordiamoci tre cose: 1) le proposte di legge di cui sopra; 2) la copertina dell’Economist del 12 giugno sul debito pubblico, che ritraeva un neonato con al piede una gigantesca palla di… debito; 3) alla copertina dell’Economist sul calo demografico, di pochi giorni fa. Le cose su cui ci battiamo in modo ossessivo da una vita, in Italia (assieme alla persona di Marco) sono bandite dai media; all’estero, sono sulla copertina del più prestigioso e diffuso periodico economico del mondo.

Abbiamo per anni denunciato come la partitocrazia stesse portando il Paese alla rovina, e come stesse mettendo le generazioni l’una contro l’altra. Oggi ormai tutto questo è realtà conclamata. Perché se la stragrande maggioranza dei trentenni hanno solo pochi anni di contributi versati, se pagano un’aliquota contributiva del 26% per pensioni che non avranno o che saranno molto basse, se ormai si resta a casa dei genitori fino a 35 o 40 anni, se la disoccupazione giovanile ha superato il 25%, questo cos’è se non aver messo i padri contro i figli, i nonni contro i nipoti, aver creato dei paria, delle caste, degli “intoccabili”, avere distrutto una società sin dalle fondamenta? Ed è in questa situazione che quando il ministro Tremonti si è messo a parlare di posto fisso nei termini in cui ne ha parlato, quegli altri (Epifani in testa) si sono precipitati a dire che “ha ragione” e che “l’avevamo detto prima noi”. Ma parlare di posto fisso nella versione tremontian-epifaniana, come evocazione puramente ideologica, vuol dire mettere una lapide sulla legge Biagi e su quanto di buono la stessa ha prodotto in termini di posti di lavoro che altrimenti non sarebbero stati creati. Il plauso corale che si è levato dal PD e dalla sinistra in generale, fa la misura di questi buoni a nulla, che agitano soluzioni magnifiche e progressive regolarmente piene di ideologia e prive di copertura finanziaria. E infatti, quando Brunetta, come è accaduto in un recente Porta a Porta, dice a Pietro Ichino “io e te ci metteremmo d’accordo in cinque minuti, ma il problema è che tu sei una estrema minoranza nel tuo partito, il tuo partito ti vota contro”, Brunetta dice una dolorosa verità.

Dunque ci risiamo, siamo di nuovo ai “capaci di tutto” e ai “buoni a nulla”. Con una avvertenza: tra il bianco e il nero ci sono anche diverse tonalità di grigio, e possiamo scoprire che anche i “buoni a nulla” sono un po’ “capaci di tutto” (ve li ricordate quelli di “abbiamo una banca”? Era mica Fassino che lo diceva a Consorte?), e i “capaci di tutto” sono anche un po’ “buoni a nulla”. Ma c’è una cosa che sono entrambi molto buoni a fare: le fondazioni. Come funghi. Non è possibile comprendere davvero quello che sta succedendo, se non si va a mettere il naso lì.

Una testimonianza preziosa l’ha offerta Mauro Agostini, primo tesoriere del PD (gli è subentrato, da pochi giorni, l’on. Misiani), che nel suo libro “Il tesoriere” ha contribuito a fare luce sul finanziamento pubblico dei partiti in Italia, in modo specifico su quello di PD, DS e Margherita, e su quanto questo abbia pesato sulla involuzione politica, ma non solo, del PD.


Negli ultimi cinque anni il finanziamento pubblico è stato enorme, pari a 941.446.091,14 euro. Poiché il PD ha avuto diritto ai primi finanziamenti pubblici “diretti” solo dopo la competizione elettorale dello scorso anno, allora questi fondi gli sono stati “girati” dagli “azionisti di riferimento”, Margherita e DS, con le conseguenze immaginabili e descritte dall’autore: però i veri sovrani avrebbero dovuto essere Ugo Sposetti e Luigi Lusi, in quanto titolari dei rimborsi elettorali”.
Si denuncia, finalmente, il “potere di veto” esercitato dagli “azionisti” della Margherita e dei DS, vera e propria ragione di tante difficoltà del PD, poiché ciò ha causato la necessità di garantire la «sopravvivenza dei vecchi apparati di partito con le rispettive munizioni finanziarie». Ma le migliori condizioni delle finanze della Margherita - che non voleva pagare l’intero conto - rispetto a quella dei DS «assolveva tutti dall’obbligo politico di sostenere il Pd… ed essere anche la causa profonda della crisi che sfocia nelle dimissioni di Walter Veltroni ». Traduzione: la crisi del Pd e del suo primo segretario è nata da risse per la “roba” tra vecchie oligarchie di cui, è bene non dimenticarlo, anche Veltroni faceva parte.


Ma sono le fondazioni di partito la parte più moderna di un gioco antico perché, grazie a questa schermatura, si sarebbero blindate «con un percorso opaco» migliaia di immobili. E ancora: «L’ispirazione sembra più quella di dare vita a una specie di consorzio o di holding i cui diritti principali restano in mano ai soci fondatori, piuttosto che fondare una nuova formazione politica».
Ciò che è sempre stato chiaro e segnalato dai radicali, trova oggi un’autorevole conferma: il PD è nato sulle rovine delle magre casse dei Ds, sui veti delle ricche casse della Margherita, sulla necessità di garantire la sopravvivenza dei vecchi apparati di partito e sull’uso spregiudicato delle fondazioni, che hanno trasformato i partiti, in questo caso il PD, in vere e proprie holding, con al centro dei propri interessi “la roba”.

Questa non è la situazione del solo PD, ma di tutti i partiti della partitocrazia[3]. Il Presidente Fini ha Fare Futuro, il compagno Massimo (D’Alema) ha Italianieuropei (costituita nel ’99 assieme a Giuliano Amato, un milione di euro di fatturato annuo, sede con affitto da 7mila euro al mese; la sede di Napoli è in condominio con Mezzogiorno Europa, fondazione voluta da Giorgio Napolitano), Marco Follini ha Formiche, Gaetano Quagliariello ha Magna Carta (da cui ha fatto fuori Marcello Pera), Gianni Alemanno ha Nuova Italia, Ferdinando Adornato ha Liberal, Giuseppe Pisanu ha Medidea, Franco Bassanini ha Astrid, Renato Brunetta ha Free Foundation, Sergio D’Antoni ha Democrazia Europea, Ermete Realacci (con Alessandro Profumo ed Emma Marcegaglia tra i soci) ha Symbola.

Come mai tutto questo “fiorire” di fondazioni? Proviamo a dare una risposta. Mentre sui partiti politici grava l’onere della loro pubblicità e ad ogni singolo parlamentare è fatto obbligo di dichiarare alla Camera di appartenenza la provenienza dei finanziamenti ricevuti, niente di tutto questo è previsto per le fondazioni, esentate anche da qualsiasi controllo di organi terzi. Questi partiti-ombra (laddove è rimasta solo l’ombra dei partiti) non hanno alcun obbligo di rendere pubblici bilanci e fondi di finanziamento, mentre vanno a caccia di fondi ministeriali, surrogato delle sovvenzioni pubbliche ai partiti politici.

Torniamo ora a casa nostra, a Radicali italiani, all’illustrazione del bilancio, che per quanto riguarda l’anno politico 1/11/2008 – 31/10/2009, si sintetizza nei seguenti dati:

- lo stato patrimoniale registra attività per 79.973 euro, a fronte di passività per 2.052.673 euro. Il disavanzo cumulato è pari a 1.972.700 euro;

- il conto economico registra proventi per 338.107 euro a fronte di spese per 390.474 euro. Il periodo in oggetto vede dunque un disavanzo di 52.326 euro.

In dettaglio, quanto al conto economico:

- le spese per i servizi comuni sono scese da 42.072 euro a 20.155 euro;

- le spese per le collaborazioni sono aumentate da 142.568 a 273.791 euro. L’incremento suddetto è dovuto anche al fatto che fino al 31 luglio 2008 Radicali italiani non aveva avuto in carico gli organi dirigenti del Movimento, a differenza di quanto accade dal 1° agosto dello stesso anno. Radicali italiani ha avuto quest’anno sei collaboratori (Segretaria, Tesoriere, Presidente, con Antonio Grippo, Alessandro Rosasco e Alessandro Massari); vanno ringraziati in particolare questi ultimi tre, per avere continuato a lavorare – dall’inizio di luglio – senza percepire gli stipendi, situazione che verrà a breve sanata;

- per quanto riguarda le iniziative, la spesa è stata – a fronte dei 124.150 euro dell’anno politico precedente – di 36.077 euro (la differenza si spiega con il fatto che l’anno scorso la sottoscrizione straordinaria per le elezioni politiche e per le amministrative di Roma era stata imputata a Radicali italiani, così come una spesa di circa 85mila euro);

- le spese per campagne di informazione e autofinanziamento sono state di 3.116 euro a fronte dei 29.270 euro del 2008 (13.309 euro in realtà erano relativi ai gadget per gli iscritti);

Per quanto riguarda lo stato patrimoniale, viene qui in evidenza la struttura del debito di Radicali italiani, che ammonta complessivamente a 2.052.673 euro. Il debito del Movimento verso soggetti non radicali (debito esterno) ammonta (al netto dei collaboratori) a 65.759 euro. Il debito verso soggetti radicali (debito interno) ammonta a 1.898.791 euro, di cui 382.776 euro verso Lista Pannella, 1.469.215 verso Partito Radicale e 46.800 verso la Torre Argentina Società di Servizi. Per il VIII Congresso di Radicali italiani la spesa sarà di circa 25.000 euro.

Veniamo alle peculiarità dell’anno politico 2008-2009 di Radicali italiani.

1) Il Partito radicale si è sostituito a Radicali italiani, ripianando debiti esterni per 160mila euro;

2) Fino al mese di marzo 2009, in accordo con quanto stabilito dal Senato del Partito radicale, anche Radicali italiani ha concentrato la richiesta di autofinanziamento sulle iscrizioni a pacchetto (impegno, questo, non rispettato da tutti i soggetti dell’area radicale), che sono passate dalle 456 del 2008 alle 544 del 2009 (54mila euro in più). Subito dopo è iniziata la preparazione delle elezioni europee, che ha visto il momento centrale nel Satyagraha (con la redazione de La peste italiana e l’iniziativa nonviolenta di Marco Pannella). I contratti di collaborazione sono stati inizialmente stipulati con scadenza al 30 giugno, individuata come data nella quale sarebbe stato possibile fare una verifica sulla situazione di Radicali italiani e di tutta l’area, all’indomani delle elezioni europee. Dal 1° luglio, ovvero subito dopo la conclusione dell’Assemblea dei Mille, è stato infine possibile concentrare il lavoro sull’autofinanziamento di Radicali italiani.

La campagna straordinaria di autofinanziamento (se di “campagna” si può parlare, visto che lo abbiamo saputo solo noi e gli ascoltatori di Radio radicale, e considerato che i mesi di luglio e agosto sono i peggiori di tutto l’anno per quanto riguarda la possibilità di reperire fondi), ha dato i risultati seguenti:

luglio 2009: 78 iscritti e 35.875 euro di autofinanziamento (il 460% rispetto al dato di luglio 2008); agosto 2009: 34 iscritti e 20.505 euro di autofinanziamento (il 172,5% rispetto ad agosto 2008); settembre 2009: 39 iscritti e 16.270 euro di autofinanziamento (il 72,4% rispetto a settembre 2009).

Questi risultati sono stati possibile innanzitutto facendo ricorso alle risorse interne, dove in questo caso per “risorse interne” deve intendersi il lavoro dei ragazzi del call-center, che anche in questo momento rispondono al telefono a chi voglia iscriversi o contribuire: basta chiamare lo 06-6826. I risultati del call-center, dall’avvio di un ciclo intenso di riunioni e di scambio di informazioni, culminati in ben tre incontri con Marco Pannella, in cui Marco ha riempito i ragazzi di informazioni, di consigli, di politica a tutto tondo, hanno fatto registrare un’inversione di tendenza che dobbiamo assolutamente riuscire a consolidare: nel luglio 2008 il call-center aveva raccolto 8.200 euro, che sono diventati 16.559 nel 2009; nell’agosto 2008, 2.050 euro, che nel 2009 sono stati invece 12.995; nel settembre 2008, 820 euro, che nel settembre 2009 sono saliti a 10.230 euro.

I risultati prodotti nel trimestre luglio-settembre 2009 sono stati buoni, ma ancora drammaticamente insufficienti rispetto alle necessità del Movimento. Ho allora rivolto alla Segretaria e al Presidente, il 4 settembre, la proposta (aperta) di dimezzare i nostri compensi per il periodo corrispondente al periodo dal 1° luglio fino alla fine del nostro mandato, proposta accettata in ottobre ed alla quale ha fatto seguito l’apertura di una sottoscrizione straordinaria da parte di Emma Bonino e Marco Pannella, ai quali sono seguiti parlamentari, personalità e soprattutto cittadini comuni. Sarebbe stato imprudente, visto il momento dell’anno e il rischio di bruciare l’apertura del 2010 sui pacchetti, lanciare la campagna preparata da Nicolas Ballario, che ringrazio. Si tratta di un ottimo lavoro, che spero potrà essere apprezzato e lanciato dai nuovi organi dirigenti del Movimento. Ad oggi, con la sottoscrizione straordinaria, abbiamo raccolto 56.000 euro, ai quali vanno aggiunti i 40.000 euro di riduzione dei costi del Movimento derivanti dal dimezzamento degli stipendi. Questo ancora non è sufficiente, come è evidente nel fabbisogno di qui a fine anno indicato negli allegati: dobbiamo raccogliere ancora almeno 80mila euro entro la fine dell’anno. L’iniziativa ci ha consentito di arrivare a questo Congresso senza ipotecare il 2010.

Ma proprio nella prospettiva del 2010 va detto chiaramente che:

1) non è minimamente pensabile che il Partito radicale in quanto tale (che garantisce la struttura, e cercherà di continuare a garantirla) possa continuare a fungere da “banca”, come è stato per decenni, di diversi soggetti radicali, dei quali ha garantito la vita politica e organizzativa;

2) non è pensabile che l’articolazione della spesa di Radicali italiani sia tale che la struttura possa continuare ad assorbire buona parte dell’autofinanziamento, soprattutto considerato che la tendenza è quella riportata nella tabella qui sotto. In sintesi: Radicali italiani non potrà vivere nel 2010 come ha vissuto nel 2009, perché andrebbe (nemmeno troppo lentamente) a morire. È con questo che chi avrà la responsabilità di guidare Radicali italiani il prossimo anno dovrà, in ogni caso, fare i conti. Ma attenzione: l’anno in cui abbiamo conosciuto le maggiori limitazioni, dovute non semplicemente al Regime partitocratico, ma anche alla carenza conseguente di risorse economiche ed umane (giunte al minimo storico) dovute alla assoluta mancanza di informazione sulle nostre iniziative (APE, proposte di legge, giustizia, carceri, libertà individuale), è anche quello che ci ha visti produrre un mare di iniziative, con al centro il Libro Giallo, La Peste italiana. E la vicenda della PESC, dove il candidato è D’Alema, non Bonino, vuol dire che ne hanno il terrore: non la candideranno mai a ciò per cui è a tutti gli effetti la migliore candidata, la candidata naturale. Forse la vogliono candidare, invece, alla guida della Regione Lazio, per tanti versi al centro del fascio e dello sfascio, anche perché sanno, grazie all’Istituto Cattaneo, che noi radicali siamo i soli che possono attrarre parte dell’elettorato anche di centrodestra. È stato un anno di particolare difficoltà, ma ricco di politica: un anno in cui abbiamo forse sviluppato gli anticorpi per il rilancio politico, quindi anche organizzativo e finanziario, di Radicali italiani.

Sarà necessario fare scelte coraggiose, e a volte dolorose e costose, che – tuttavia – sono anche le sole che potranno consentirci non di “sopravvivere” – con il rischio, sempre in agguato, di divenire i parassiti delle nostre stesse idee, provando magari il “sottile piacere dell’autofagia” – ma di vivere. Solo da vivi potremo saper essere speranza. Il Paese ne ha dannatamente bisogno, come ne ha bisogno l’individuo che ciascuno di noi è.

“Noi siamo diventati radicali perché ritenevamo di avere delle insuperabili solitudini e diversità rispetto alla gente, e quindi una sete alternativa profonda, più dura, più "radicale" di altri... Noi non “facciamo i politici”, i deputati, i leader… lottiamo, per quel che dobbiamo e per quel che crediamo. E questa è la differenza che prima o poi, speriamo non troppo tardi, si dovrà comprendere”.

Anno

Radicale

Numero

Versamenti

Totale

Sostenitori

Iscritti

Contribuenti

Autofinanziamento

(€)

Vers.

medio x sostenitore

2001

3.193

2.317

1.415

902

416.671,66 €

179,83 €

2002

4.791

3.134

2.259

875

735.102,48 €

234,55 €

2003

5.893

3.444

2.177

1.267

652.839,41 €

189,55 €

2004

4.001

2.807

1.965

842

559.607,50 €

199,36 €

2005

4.500

3.090

2.233

857

646.973,67 €

209,38 €

2006

3.703

2.035

1.761

274

382.673,95 €

188,05 €

2007

3.719

2.163

1.781

382

316.627,43

167,49

2008

3.252

1.945

1.501

444

325.769,32

164,73

2009

3.206

1.760

1.391

369

299.990,42 €

170,45 €



[1] Mario Draghi, Intervento per la Giornata Mondiale del Risparmio, 29 ottobre 2009.

[2] Cfr. Tito Boeri, Piccole imprese non crescono, La Repubblica, 14 ottobre 2009, pag. 1.

[3] Cfr. Primo Di Nicola, L’oro delle fondazioni, L’Espresso, 15 ottobre 2009.



IN PRIMO PIANO







  stampa questa pagina invia questa pagina per mail