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Tra l'art. 7 e l'art. 8 della Costituzione

10 maggio 2005

di Luigi Castaldi

Il sentimento religioso è un bene giuridico. Finché il cattolicesimo fu ritenuto “religione dello Stato”, in virtù dei Patti Lateranensi, stretti tra Fascismo e Chiesa nel 1929 e in vigore per oltre mezzo secolo, la legislazione italiana si è fatta carico della tutela del sentimento religioso con un occhio di riguardo nel caso questa fattispecie fosse cattolica: nel caso di vilipendio ai danni di un ministro di culto, per esempio, la pena era maggiore per l’insolenza arrecata a un prete che non per la stessissima a un imam o a un bonzo.

Con l’art. 7 della Costituzione del 1947, la religione cattolica rimase di fatto “religione dello Stato”, ma l’art.8 (“tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”) aprì la strada a ciò che col Protocollo addizionale all’accordo del 18 dicembre 1984 tra Stato italiano e Santa Sede divenne principio di pari dignità tra tutti i culti: “Si considera non più in vigore il principio […] della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”. Sul principio di“equidistanza e imparzialità verso tutte le religioni” (sentenze n. 203 del 1989, n. 259 del 1990 e n.195 del 1993) la Corte Costituzionale dichiarò via via illegittimi gli articoli al titolo IV, capo I, del libro II del Codice penale (“Dei delitti contro la religione dello Stato e i culti annessi”), relativi al “Vilipendio della religione dello Stato” (art.402 – sent. n.508 del 2000), alle “Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose” (art.404 – sent. n.329 del 1997), al “Turbamento di funzioni religiose del culto cattolico” (art.405 – sent.n.327 del 2002).

Con una recente sentenza della Corte Costituzionale, la n.168 del 29 aprile 2005, viene dichiarato illegittimo anche l’art.403 (“Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone”), in quanto “norma […] connotata dalla «inammissibile discriminazione» sanzionatoria tra la religione cattolica e le altre confessioni religiose ripetutamente dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte”, così vigente l’art.406 (“Delitti contro i culti ammessi nello Stato”, cioè tutti gli altri culti oltre quello cattolico): recita la specifica comparativa di una “pena […] diminuita”. Oggi, di fatto, per l’insolenza a un prete, un imam o un bonzo, per la blasfemia contro Cristo, Maometto o Buddha, le pene sono simili. Può lamentarsene solo chi abbia un forte deficit di sensibilità democratica o chi, in qualche modo e per qualche ragione (certo non d’argomentazione teologica), giudicasse legittima, quando vigente, la prerogativa cattolica in forma di privilegio. Mille e mille, piccoli e grandi, i benefici di cui ancora la Chiesa gode in regime di privilegio e dunque in dispregio di una fattuale “equidistanza ed imparzialità verso tutte le religioni”: lo scontento dovrà essere scontentato ancora.

D’intanto si dà finalmente una qualche sostanza all’art.8 della Carta Costituzionale e le passate risoluzioni della Consulta trovano risonanza nel disegno di legge su Libertà religiosa e culti ammessi (XIV Legislatura, resoconto della I Commissione permanente di Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni del 25 febbraio 2003) che all’art.1 recita che “la Repubblica […] riconosce la libertà di coscienza e di religione, quale diritto fondamentale della persona, garantita a tutti in conformità alla Costituzione [per il detto principio di “equidistanza ed imparzialità verso tutte le religioni”], alle convenzioni internazionali sui diritti inviolabili dell’uomo ed ai principi del diritto internazionale generalmente riconosciuto in materia” (art.1). Si potrebbe credere acquisita la coscienza laica dello Stato, se la furia degli emendamenti già non tempestassero l’art.2: questo potrebbe allora reciterare che “la libertà di coscienza e di religione comprende il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa o credenza, in qualsiasi forma individuale o associata, di diffonderla e farne propaganda, di osservare i riti e di esercitare il culto in privato o in pubblico”; e soprattutto che ”comprende inoltre il diritto di mutare religione o credenza o di non averne alcuna”.



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