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L'orecchio di Dionigi

28 settembre 2005

di Luigi Castaldi

“In forza della sua libertà, la Chiesa sente la responsabilità di dire una parola su tutti i problemi che interessano l’uomo, appellandosi alla ragione che illumina tutti. Laicità vuol dire che ciascuno è legittimato a esprimere la propria visione delle cose”. Con questo virgolettato si apre l’intervista all’arcivescovo di Milano, cardinal Dionigi Tettamanzi, raccolta da Francesco Ognibene per l’Avvenire, in edicola domenica 25 settembre, a pagina 3, con fotocolor del porporato in una posa certamente ispirata ad un celeberrimo ritratto di San Carlo Borromeo - Sua Eminenza sa porgersi. Libertà, responsabilità, laicità, ragione, visione delle cose… Che minestrone. Ciascuno ha il diritto di esprimere la propria opinione – questo vuol dire Sua Eminenza. Questo enunciato, si badi bene, ha avuto per lunghi secoli come acerrimo nemico proprio la Chiesa della quale il Tettamanzi è tanto prestigioso principe che per poco non veniva fatto re. Eresia viene da airesis e aireomai vuol dire “scelgo”, ma questo sarà noto a Sua Eminenza: “eretico” è colui che fa una libera scelta e liberamente la esprime, per lunghi secoli la Chiesa ha definito “eretico” il libero pensatore, rendendogli alquanto arduo esprimere la propria visione delle cose, perché la mordacchia storpia tutte le sillabe. Fa piacere ovviamente che da tempo nelle parole di un cardinale non si senta più puzza di carne bruciata, tanta è la contentezza del non sentirne qui alcuna traccia che sottoscriviamo con un presto slancio: sì, ciascuno ha il diritto di esprimere la propria opinione, bravo Tettamanzi. Vorremmo eventualmente ricordare a Sua Eminenza che questo concetto è illuministico, liberale – ha dentro il germe del relativismo.



Se questa è la sostanza, la forma in cui si esprime Sua Eminenza sottintende altro: di questo diritto,
la Chiesa ne ha un po’ di più di chiunque altro – se non gli concedete il trattamento di favore, cercherà di procurarselo. A questo mira l’assai riuscito climax di termini qui svuotati d’ogni accezione storica e culturale, ridotti a suggestive figurine allegoriche. La libertà? “In forza della sua libertà”. La responsabilità? Implica che la Chiesa si esprima “su tutti i problemi che interessano l’uomo”, dall’impiego delle intercettazioni telefoniche nel corso di indagini disposte dalla magistratura al valore letterario di romanzi come Il Codice Da Vinci e a quelli della saga di Harry Potter, dal riassetto della dirigenza della Banca d’Italia ai regolamenti interni del parlamento spagnolo, da problemi sui quali s’è fatto voto di non avere alcuna esperienza diretta, come il sesso e la famiglia, a quelli sui quali il buon senso consiglierebbe di tacere, eventualmente arrossendo, come la pedagogia. La laicità? “Laicità vuol dire che ciascuno è legittimato a esprimere la propria visione delle cose”. Non proprio, piuttosto (scusate, quando cercano di passarti una definizione impropria, cos’altro si può fare se non andare a controllare sul dizionario?) “l’essere laico, l’essere ispirato al laicismo”. “Laicismo”? Quante volte dovremmo ripeterlo? Questa pagina del dizionario è ormai logora dal troppo ritornarci: “atteggiamento di chi intende essere consapevolmente indipendente da scelte aprioristiche e da dogmi religiosi, etici, ecc.”. Il che include, certo, anche la legittimità “a esprimere la propria visione delle cose” – che nessuno intende mettere in discussione quando si tratta della Chiesa, ma con la fermo rigetto di tutto ciò che nella sua “visione delle cose” è aprioristico e dogmatico.



In questo senso, forse, potremmo delineare il confine necessario tra le sfere di competenza di Stato e Chiesa, indispensabile per uno Stato che voglia dirsi democratico e liberale e per una Chiesa che non voglia guadagnarsi, con l’obbedienza del gregge, l’ostilità di quanti non sono dell’ovile. Il confine necessario, indispensabile, è l’autodeterminazione, che consente a ciascuno l’esercizio della libera coscienza nella libera scelta. Scelta che, se l’individuo ritiene, può essere affidata all’autorità di un Magistero, al quale però non possono essere ricondotte prerogative universali. Alla qual cosa il cardinal Dionigi Tettamanzi non parrebbe esser disposto; infatti, nella stessa intervista all’Avvenire, egli afferma: “La situazione è segnata da un esasperato pluralismo antropologico, e in termini più massicci da una ‘censura’ dell’autentica dimensione personalistica dell’uomo”. Bisogna intendersi, altrimenti trascineremo la questione nel frainteso per saecula saeculorum. Il pluralismo antropologico può “esasperare” solo chi ha per fine la reductio ad unum della varietà di opinioni, gusti, stili, abitudini, scelte, credenze, ecc.

Questa reductio ad unum non può che essere l’esatto contrario del pluralismo: l’omologazione, l’adeguamento del diverso al simile, l’assolutismo, il totalitarismo – sul piano politico, lo Stato etico – se ispirato ad uno, ed uno solo, specifico dottrinario e confessionale, è fattispecie del “teocratico”. Dalla “libertà” di parola alla “responsabilità di dire una parola” su tutto, dalla “legittimità ad esprimere la propria visione delle cose” al tentativo di imporla a tutti. Oh, certo, senza spandere puzza di carne bruciata – siamo infinitamente grati – ma certe volte il fine ha una violenza in sé stesso, quale che sia il mezzo. Qualsiasi mezzo di cui si serve allora diventa violento, anche se in apparenza mite, o addirittura vittimistico, come di chi venisse a lamentarsi presso di noi che gli stiamo togliendo la libertà di sottrarci la libertà. Non c’è Dionigi Tettamanzi che allora non correrà il suo bravo rischio – calcolato non sappiamo quanto – di far pieno l'orecchio della sua dose di fischi. Almeno fischi.



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