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La ferocia mistica e i demoni di Ahmadinejad

• da Il Foglio del 18 aprile 2006, pag. III

di Matthias Kuntzel

Durante la guerra fra Iran e Irak, l’ayatollah Khomeini importò 500 mila chiavette di plastica da Taiwan. Questi gingilli avrebbero dovuto fornire qualche ispirazione. Dopo l’invasione dell’Iraq nel settembre del 1980, era chiaro che le forze armate iraniane non erano in grado di reggere il confronto con i professionisti ben equipaggiati dell’esercito di Saddam Hussein. Per far fronte a questo svantaggio, Khomeini inviò al fronte alcuni bambini iraniani, che in alcuni

casi non avevano nemmeno dodici anni. Marciavano attraverso i campi minati in direzione del nemico, aprendo un varco con i loro corpi. Prima di ogni missione, a ciascun bambino era consegnata una chiavetta taiwanese da appendere al collo: sarebbe servita a spalancargli le porte del paradiso. A un certo punto, però, questa carneficina terrena iniziò a suscitare preoccupazione. “In passato – scriveva il quotidiano iraniano semiufficiale Ettelaat mentre la guerra imperversava – avevamo i bambini volontari di 14, 15 e 16 anni. Andavano nei campi

minati. I loro occhi non vedevano. Le loro orecchie non udivano. E poi, qualche minuto dopo, si scorgevano dense nuvole di polvere. Una volta che la polvere tornava a depositarsi, di loro non rimaneva quasi traccia.

 

In qualche punto, dispersi sul terreno, giacevano soltanto brandelli di carne carbonizzata e pezzi di ossa”. Da quel momento in poi, si decise di evitare simili scene: “Prima di addentrarsi in un campo minato, i bambini ora si avvolgono in coperte e rotolano sul terreno: in questo modo le loro membra non si disperdono dopo la deflagrazione delle mine e si può dare loro sepoltura”. Questi bambini che rotolavano verso la loro morte facevano parte dei Basiji, un movimento di massa creato da Khomeini nel 1979 e militarizzato dopo lo scoppio della guerra al fine di integrare le fila del suo esercito assediato. I Basiji Mostazafan, o “mobilitazione degli

oppressi”, erano una milizia volontaria, i cui membri erano ancora minorenni. Entusiasti e numerosi (a migliaia) marciavano verso la loro fine. “I giovani sminavano i campi con i loro stessi corpi – raccontava nel 2002 un veterano della guerra fra Iran e Iraq al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine – Talvolta, sembrava quasi una corsa. Anche senza aver ricevuto ordini dal comandante, tutti volevano arrivare primi”.

 

Il sacrificio dei giovani del Basiji era orrendo. Ma oggi non è motivo di onta per la nazione, bensì di orgoglio. Dalla cessazione delle ostilità contro l’Iraq nel 1988, i Basiji sono diventati sempre più numerosi e influenti. Sono stati utilizzati come squadra del buoncostume per far rispettare la legge religiosa, mentre le “unità speciali” del movimento sono state impiegate come truppe d’assalto contro le forze dell’opposizione. Nel 1999 e 2003 i membri del Basiji furono utilizzati per reprimere le proteste studentesche. Lo scorso anno rappresentarono lo

zoccolo duro della base politica che portò alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad, un uomo che, si dice, abbia fatto da istruttore ai giovani Basiji durante il conflitto.

 

Ahmadinejad gongola della sua alleanza con i Basiji. Appare in pubblico indossando il foulard bianco e nero tipico del Basiji e, nei suoi discorsi, esprime costanti apprezzamenti nei confronti della “cultura Basiji” e “del potere Basiji”, attraverso il quale “l’Iran odierno fa sentire la sua presenza sulla scena diplomatica internazionale”. L’ascesa di Ahmadinejad con l’appoggio del Basiji significa che la Rivoluzione iraniana, lanciata quasi trent’anni fa, è entrata in una fase nuova e inquietante. Una generazione di iraniani più giovani, la cui visione del mondo fu

plasmata durante le atrocità del conflitto fra Iran e Iraq, è giunta al potere, brandendo un’impostazione ideologica della politica più fervente rispetto a quella dei suoi predecessori.

I figli della Rivoluzione ne sono oggi diventati i capi. Nel 1980, l’ayatollah Khomeini definì l’invasione irachena dell’Iran una “benedizione divina”, perché la guerra gli offrì l’occasione perfetta per islamizzare sia la società iraniana sia le istituzioni dello stato. Mentre le truppe di Saddam avanzavano verso l’Iran, la Guardia rivoluzionaria, fanaticamente devota a Khomeini,

si muoveva rapidamente per mobilitare e preparare le forze aeree e navali.

 

Contemporaneamente, il regime si affrettava a trasformare i Basiji in una milizia popolare. Se la Guardia rivoluzionaria era composta da soldati adulti professionisti, i Basiji contavano

soprattutto su giovani fra i 12 e i 17 anni e uomini oltre i 45 anni (…). La principale tattica di combattimento adottata dalla milizia Basiji era l’attacco con l’onda umana: bambini e adolescenti poco armati avanzavano verso il nemico perfettamente allineati lungo righe continue. Poco importava se cadevano sotto il fuoco nemico o innescavano le mine con il loro corpo: la cosa essenziale era che i Basiji continuassero ad avanzare, calpestando i brandelli mutilati e lacerati dei compagni caduti, procedendo inesorabilmente verso la propria morte, come un’incessante onda umana. Una volta aperto un varco verso le forze irachene, i comandanti dell’esercito iraniano inviavano le loro truppe più addestrate e preziose, quelle

della Guardia rivoluzionaria. Questa strategia portò a innegabili successi (…).

 

Ma tre mesi al fronte erano lunghi. Nel 1982, durante la riconquista della città di Khorramshahr, perirono 10 mila iraniani. Nel febbraio del 1984, dopo “l’operazione Kheiber”, furono abbandonati 20 mila cadaveri sul campo di battaglia. La cosiddetta offensiva di “Karbala Four” costò la vita a oltre 10 mila iraniani. In totale, si calcola che 100 mila persone, fra uomini e ragazzi, persero la vita durante le operazioni Basiji. Ma perché si offrivano volontari? La maggior parte di essi era reclutata da esponenti della Guardia rivoluzionaria, a capo dei Basiji.

Questi “educatori speciali” visitavano le scuole e sceglievano personalmente i loro martiri durante le esercitazioni paramilitari obbligatorie per tutti i giovani iraniani. I film propagandistici, come il film per la tv del 1986 intitolato “Un contributo alla guerra”, celebravano questa alleanza fra gli studenti e il regime e ostracizzavano i genitori che cercavano di salvare la vita dei propri figli. Alcuni genitori, tuttavia, erano invogliati con incentivi. L’arruolamento nei Basiji rappresentava per i più poveri un’opportunità di progresso sociale (…).

 

I Basiji marciavano impavidi e senza proferire lamento verso la loro fine. Vale la pena

menzionare i curiosi slogan che cantavano quando entravano nel campo di battaglia: “Contro gli Yazid della nostra epoca”; “La carovana di Hussein avanza”; “Ci attende una nuova Karbala”. Yazid, Hussein, Garbala sono riferimenti al mito della fondazione dell’islam sciita. Verso la fine del VII secolo, l’islam era diviso fra i seguaci del califfo Yazid, i predecessori dell’islam sunnita, e i fondatori dell’islam sciita, secondo i quali l’imam Hussein, nipote del profeta Maometto, avrebbe dovuto governare il popolo musulmano. Nel 680, Hussein capeggiò un’insurrezione contro il califfo “illegittimo”, ma fu tradito. Nella piana di Karbala, il decimo

giorno del mese di Muharram, le forze di Yazid attaccarono Hussein e i suoi seguaci, uccidendoli. Il corpo di Hussein recava 33 ferite di lancia e 34 colpi di spada. Fu decapitato

e il suo corpo fu calpestato dai cavalli. Sin da allora, il martirio di Hussein costituisce il nucleo della teologia sciita e la festa di Ashura, che celebra la sua morte, è il giorno più santo del calendario sciita. In quell’occasione, gli uomini si flagellano con catene per avvicinarsi alle sofferenze di Hussein. Nel corso della storia, questo rituale raggiunse punte di violenza inaudita (…).

 

Oggi in Iran eccessi sanguinolenti sono proibiti, ma durante la guerra contro l’Iraq Khomeini si appropriò dell’essenza del rituale e ne fece un atto simbolico, conferendogli valenza politica. Rindirizzò il fervore, allora tutto diretto verso l’interno, verso il nemico esterno. Trasformò i piagnistei passivi in proteste attive. Fece della battaglia di Karbala il prototipo della lotta contro la tirannide. Infatti questa tecnica era stata usata durante le proteste politiche nel 1978, quando molti dimostranti iraniani sfilarono indossando lenzuoli funebri, con l’intento di creare un legame tra la battaglia del 680 e la lotta in corso contro lo Scià. Nella guerra all’Iraq, si è data ancora maggiore importanza alle allusioni a Karbala. Da una parte, Yazid, il delinquente rappresentato in quell’occasione da Saddam Hussein, dall’altra il nipote del Profeta, Hussein, le cui sofferenze potevano finalmente essere vendicate dagli sciiti. La forza di questa storia fu rafforzata da una svolta teologica. Secondo Khomeini, la vita non ha valore e la morte è l’inizio

della vera esistenza. “Il mondo naturale – spiegò nell’ottobre del 1980 – è l’elemento più basso, la feccia della creazione”. E’ l’aldilà ad essere decisivo, “il mondo divino, che è eterno”. Ed è a questo mondo che possono accedere i martiri. La loro morte non è morte, ma semplicemente una transizione da questo mondo al mondo dell’aldilà, dove vivranno nello splendore eterno. Questa impostazione ebbe effetti fatali sui Basiji: che sopravvivessero o meno era irrilevante. Nemmeno l’utilità tattica del loro sacrificio era importante. Le vittorie militari erano secondarie, come spiegò Khomeini nel settembre 1980. Ogni Basiji deve “comprendere che è un ‘guerriero di Dio’, per cui la gratificazione e il senso di realizzazione

non vengono tanto dal risultato dello scontro, quanto dal fatto di parteciparvi” (…).

 

La figura misteriosa in grado di scatenare tante emozioni è quella dell’“imam nascosto”, un personaggio mitico che ancora oggi influenza i pensieri e le azioni di Ahmadinejad. Gli sciiti chiamano imam tutti i discendenti maschi di Maometto e attribuiscono loro una natura semidivina. Hussein, ucciso a Karbala da Yazid, fu il terzo imam. Suo figlio e suo nipote il quarto e il quinto. Alla fine della discendenza, c’è il “dodicesimo imam”, di nome Maometto. Alcuni lo chiamano Mahdi (“colui che è guidato da Dio”) mentre per altri è l’imam Zaman (da sahib-e zaman, “il guardiano del tempo”). Nato nell’anno 869, fu l’unico figlio dell’undicesimo

imam. Nell’874 scomparve senza lasciare traccia, ponendo termine alla discendenza di

Maometto. Secondo la mitologia, il dodicesimo imam sopravvisse. Gli sciiti credono che si sia ritirato dal mondo all’età di cinque anni, e che presto o tardi emergerà dal suo “nascondiglio”

per liberare il mondo dal male (…). Secondo la tradizione sciita, un governo islamico legittimo potrà esistere solo dopo che il dodicesimo imam sarà riapparso: fino a quel momento gli sciiti devono limitarsi ad attendere, mantenere la pace con il governo illegittimo e ricordare il nipote del Profeta, Hussein. Khomeini però non aveva alcuna intenzione di aspettare. Diede al mito un

senso nuovo. Il dodicesimo imam apparirà soltanto quando i fedeli avranno sconfitto il male. Per accelerare il ritorno del Mahdi, i musulmani dovevano scuotersi di dosso il loro torpore e combattere. Questo attivismo aveva più elementi comuni con le idee rivoluzionarie dei Fratelli musulmani in Egitto che con le tradizioni sciite (…).

 

E’ stata questa la cultura che ha alimentato la visione del mondo di Mahmoud Ahmadinejad.

Nato vicino a Teheran nel 1956, figlio di un fabbro, Ahmadinejad ha studiato ingegneria civile; nella guerra contro l’Iraq si è arruolato nelle Guardie rivoluzionarie. La sua biografia rimane incompleta. Ha avuto un ruolo nell’assalto all’ambasciata statunitense nel 1979, come sostengono alcuni? Che cosa ha fatto durante la guerra? Sono domande senza risposte definitive (…). Dopo essere diventato sindaco di Teheran nell’aprile del 2003, Ahmadinejad ha sfruttato la sua posizione per costruire una rete di fondamentalisti islamici noti con il nome

di “Promotori di un Iran islamico” (…). A novembre, il nuovo presidente iraniano ha aperto l’annuale “Settimana dei Basiji” nella quale si commemorano i martiri della guerra Iran-Iraq. Secondo quanto riportato da Kayan, pubblicazione fedele a Khamenei, circa nove milioni di Basiji (il 12 per cento della popolazione) hanno manifestato in favore del programma antiliberale di Ahmadinejad.

 

L’articolo raccontava che i dimostranti avevano “formato una catena umana lunga 8,7 km. Nella sola Teheran, circa 1.250.000 persone sono scese in strada”. Quasi nemmeno notata dai media occidentali, questa mobilitazione dimostra la determinazione con cui Ahmadinejad cerca di imporre la sua “seconda rivoluzione” e di spegnere le ultime scintille di libertà in tutto l’Iran. Alla fine del luglio 2005, il movimento Basiji ha annunciato un piano per portare il numero dei suoi membri da dieci a quindici milioni entro il 2010 (…). Che cosa questo significa è apparso chiaro a febbraio, quando i Basiji hanno attaccato il leader del sindacato degli autisti di mezzi pubblici, Massoud Osanlou. L’hanno tenuto prigioniero nel suo appartamento, e per convincerlo

a tenere la bocca chiusa gli hanno mozzato la punta della lingua. Nessun Basiji rischia di essere processato da un tribunale della legge per simili attacchi terroristici. La fiducia del movimento nel valore del autosacrificio violento rimane quella di sempre. Non esiste in Iran alcuna “commissione di indagine” per indagare sul suicidio collettivo pianificato dallo stato e durato dal 1980 al 1988. Al contrario, a ogni iraniano viene insegnato fin dall’infanzia il valore e la virtù del martirio. Ovviamente, molti iraniani non accettano le dottrine dei Basiji.

 

Ciononostante, tutti conoscono il nome di Hossein Fahmideh, tredici anni, che, durante la guerra contro l’Iraq si è fatto esplodere in aria davanti a un carro armato iracheno. La sua immagine segue gli iraniani per tutto il giorno: sui francobolli come sulle banconote. Se guardi in controluce una banconota da 500 rial vedi il suo viso. La stampa descrive il suicidio di Fahmideh come un modello di profonda fede. La sua storia è diventata un film e anche un episodio televisivo nella serie “Bambini del Paradiso”. Come simbolo della loro disponibilità a morire per la rivoluzione, i Basiji, in occasione di cerimonie pubbliche, indossano sopra le loro

uniformi con veli funebri bianchi (…). Nel contesto del programma nucleare iraniano, l’ossessione per il martirio diventa una miccia accesa. Al momento, i Basiji non sono mandati nel deserto ma nei laboratori. Gli studenti sono incoraggiati a iscriversi in scuole dove si studiano materie tecniche e scientifiche. Secondo un portavoce delle Guardie rivoluzionarie, lo

scopo è quello di usare il “fattore tecnico” per aumentare la “sicurezza nazionale”. Nel dicembre 2001, l’ex presidente iraniano Hashemi Rafsanjani aveva spiegato che “l’uso anche di una sola bomba atomica contro Israele distruggerebbe completamente il paese”, mentre, se Israele usasse le proprie atomiche, “riuscirebbe soltanto a ferire il mondo islamico. Non è una cosa irragionevole concepire una simile eventualità” (…). Ahmadinejad, per contro, è

predisposto al pensiero apocalittico. In una delle prime interviste tv dopo essere stato eletto presidente, si è mostrato entusiasta: “Esiste un’arte più bella, divina, eterna dell’arte del martirio?”. Nel settembre 2005, concluse il suo primo discorso all’Onu implorando Dio per il ritorno del dodicesimo imam. Finanzia un istituto di ricerca a Teheran il cui unico scopo è

studiare e, se possibile, accelerare, la venuta dell’imam. A una conferenza di teologia nel novembre 2005, ha sottolineato: “Il compito più importante della nostra Rivoluzione è preparare la via del ritorno del dodicesimo imam”. Una politica perseguita in alleanza con una forza sovrannaturale è imprevedibile. Perché un presidente iraniano dovrebbe impegnarsi in una politica pragmatica quando la sua presupposizione  è che, tra tre o quattro anni, comparirà

il salvatore? Per questo Ahmadinejad ha perseguito una politica del confronto con evidente piacere. La storia dei Basiji prova che dobbiamo aspettarci mostruosità dall’attuale regime iraniano (…). I Basiji che una volta si aggiravano nel deserto armato soltanto di un bastone da passeggio oggi lavorano come chimici in stabilimenti per l’arricchimento dell’uranio.



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