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Assuntina Morresi davanti a Piergiorgio Welby

20 dicembre 2006

di Luigi Castaldi

“trovo molto interessante / la mia parte intollerante”

Caparezza

Assuntina Morresi scrive che «bisogna cominciare a rendersi conto che forse Welby non sarebbe arrivato a chiedere di morire se avesse accettato di farsi sostenere non solo nella respirazione». Questo mi incuriosisce oltremodo, perché a Welby io voglio bene.
E’ affermazione impegnativa, convengo: “voler bene”, che significa? Che genere di “bene” è? Direi che sia di quel genere che non consente di fare violenza a chi si dice di voler bene. Inoltre, direi che la violenza più grave che si possa fare ad un individuo – figuriamoci se è uno cui vogliamo bene – sia quella di imporre la nostra volontà alla sua, semmai sentendocene in diritto.
Perché, poi? Perché gli vorremmo bene. Gli vogliamo bene, e perciò potremmo fargli violenza, quel “bene” che gli vogliamo ce lo consentirebbe: anzi, il nostro volergli bene potrebbe dare il massimo di sé, se solo (e solo se) questa nostra violenza potesse annullare ogni sua volontà. Mica per niente, per sostituirla con la nostra.
Perché, poi? Perché la nostra volontà è più retta della sua. La sua lo porterebbe a sbagliare, e noi non possiamo permettere, perché gli vogliamo bene. Gli vogliamo tanto bene che deve fare quello che gli diciamo noi, è per il suo bene, che poi sarebbe il bene che abbiamo deciso noi per lui.
Con quale diritto? Che domanda stupida. Col diritto che ci viene dal sapere che il nostro “bene” è un assoluto.
Cosa lo prova? Un’altra domanda stupida. Lo prova il fatto stesso che è assoluto, no? L’assoluto sta in se stesso, per definizione. Le istruzioni per l’uso – dipende dall’assoluto – secondo la Rivelazione, nel Libro, dalla bocca dell’Autorità…

Assuntina Morresi scrive che «bisogna cominciare a rendersi conto che forse Welby non sarebbe arrivato a chiedere di morire se avesse accettato di farsi sostenere non solo nella respirazione». Questo mi incuriosisce oltremodo, perché a Welby io voglio bene – ma questo l’ho già detto.

In cos’altro Welby avrebbe dovuto accettare di farsi sostenere? Non sembra voler dare una risposta esplicita, l’Assuntina, ma – bontà sua – lascia voler intendere qualcosa: «Sembra proprio che la sofferenza di Welby non sia tanto fisica […] quanto “psichica”».
Guarda tu com’è bizzarra, ‘sta cosa. A me era sembrato proprio il contrario: era sembrato che la sofferenza di Welby fosse proprio fisica, non psichica. Peraltro, chissà perché l’Assuntina mette l’aggettivo psichica tra virgolette. “Psichica”, in che senso? Boh, diciamo: “psichica-per-modo-di-dire”.
Comunque, dicevo: avevo pensato che Welby stesse male soprattutto fisicamente, psichicamente tutt’altro. Ma l’Assuntina scrive che non è la carne ad esser debole in Welby – «gli hanno messo una cannula più larga e respira meglio», meno male, va’ – ma che è soprattutto lo spirito.
Ecco, ci sono adesso: “sofferenza psichica-per-modo-di-dire” vuol dire “sofferenza spirituale”. Quella di Welby è una malattia soprattutto spirituale, è questo che vuol insinuare l’Assuntina. Pensavo si trattasse di degenerazione neuronale e mielinica, ma adesso colgo che la degenerazione di Welby è spirituale. Nella stessa giornata nella quale il Codacons gli ha dato dell’“incapace”.

Forse esagero? Posso aver capito male? Deve avermi portato fuori strada quel punto in cui l’Assuntina scrive: «Welby è una persona con una grande sofferenza nella psiche e nello spirito, che non riesce più a dare un senso alla propria vita».

[Per inciso: sarei tanto curioso di sapere il senso della vita dell’Assuntina.]
«Vede la sua vita vuota e senza senso, e d’altra parte ha rifiutato qualsiasi altro tipo di sostegno», prosegue l’Assuntina. E qui ho un trasalimento. «Welby non sarebbe arrivato a chiedere di morire se avesse accettato di farsi sostenere, ecc.», aveva detto; e ora dice che «ha rifiutato qualsiasi altro tipo di sostegno»; dunque, gli è stato offerto e l’ha rifiutato. Se l’Assuntina sa di cosa si tratta, perché non me lo dice?

A questo punto, sono assai confuso. Sulla faccenda “psichica-per-modo-di-dire”, non faccio fatica ad ammetterlo, può avermi ingannato quel certificato di uno psichiatra che, dopo aver attentamente visitato Welby, aveva scritto di suo pugno e sotto sua responsabilità che «l’umore non sembra primariamente depresso: il paziente dice di sentirsi “in trappola” da quando l’ulteriore peggioramento della distrofia non gli consente più quella minima, ma per lui essenziale, autonomia residua nello scrivere al pc e gli ha impedito di fatto di dare voce al proprio impegno civile attraverso la pubblicazione dei suoi scritti».
Mi ero affidato al parere di uno psichiatra, potendosi trattare – con quella fisica, circa la quale non avevo ancora avuto rassicurazioni dall’Assuntina – di un’eventuale sofferenza psichica. Sbagliavo: si trattava di una “sofferenza psichica-per-modo-di-dire”.

Faccio ammenda: solo adesso comprendo che il sostegno offerto a Welby – e che Welby ha rifiutato – è il sostegno spirituale. Come fa a saperlo, l’Assuntina? Ma è chiaro: «lui chiede di essere ucciso, e questo non si può», dice; se continua a chiederlo, vuol dire che rifiuta di «dare un senso» – dice l’Assuntina – a quella che egli chiama «prigione infame». E non ci siamo, no, perché la vita è sempre bella, anche quando un cancro grosso come una palla da tennis ti mangia un polmone o il cervello, anche quando respiri, mangi, urini e defechi attraverso altrettanti tubi, ché è la Provvidenza ad alimentare il generatore di corrente elettrica che ti governa tutto. La vita è sempre bella, perché è un dono, perché è una prova, ecc. Certe volte pare che debba esser tutto, tranne che vita, ma è l’effetto che gli procura l’assoluto.

«Quello di Welby è un caso straziante strumentalizzato per fini politici», dice l’Assuntina. Se è per questo, lo dice pure il Codacons, e pure il dottor Giuseppe Casale. Palliativista, lui. Uno che al cronista del Corriere della Sera dice:
«Sono contrario all’eutanasia: se così non fosse, non avrei scelto di dedicarmi alle cure palliative»; e vorrei vedere con quale faccia tosta uno potrebbe dire: «Sono contrario all’evasione dalle prigioni infami: se così non fosse, non avrei scelto di dedicarmi alla missione di secondino caritatevole».


«Quello di Welby è un caso straziante strumentalizzato per fini politici», dice l’Assuntina, e non è la sola a dirlo. E Welby? Che dice, Welby, è strumentalizzato?
Welby dice: «Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma – qual è il corpo – necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio “essere”. Sono accusato, insomma, di “strumentalizzare” io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; “dal corpo del malato al cuore della politica”. O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai “miei”, così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati (o indemoniati – vero, signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici».
Che vuol dire? Ma è ovvio: che «quello di Welby è un caso straziante strumentalizzato per fini politici». Lei, invece, siede nel Comitato Nazionale di Bioetica per opera e virtù dello Spirito Santo. Con questa fiammella dello Spirito Santo accesa sulla chioma, l’Assuntina dice che l’eutanasia mai, semmai, dovendo far qualcosa, «Welby può staccare il respiratore».
Assuntina cara, da solo non può: non riesce a muovere un dito; non riesce ad alzare un braccio. Se potesse muovere un dito, se riuscisse ad alzare un braccio – sarebbe molto esplicito nei suoi confronti, ne sono certo, un poco lo conosco.



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