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Le esequie ecclesiastiche a Gabriele Cagliari

2 gennaio 2007

di Luigi Castaldi

“Per quello che riguarda il funerale religioso, Piero mi ha detto: «Tu sai che sono un laico, ma dopo la mia morte potete fare quello che vi pare. Però, voglio essere cremato e le mie ceneri vanno lì dove ho pescato». Quindi, anche per la famiglia… anche per rispettare la mamma, mamma Luciana, che sicuramente gli dà un valore, alla forma religiosa, lo vogliamo… vogliamo fare un funerale religioso”

Mina Welby, Conferenza stampa del 22.12.2006

 

“In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica…”

Vicariato di Roma, Comunicato ufficiale del 23.12.2006

 

 

1.

 

Gabriele Cagliari – pace all’anima sua – morì suicida. Per fuggire da una prigione che sentiva infame, decise di darsi la morte per soffocamento, in un sacchetto di cellophane. Chissà in base a quale criterio, le gerarchie ecclesiastiche si sentirono nel diritto di presumere in lui una qualche mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso” – condizioni che, all’inappellabile giudizio del Vicariato di Roma, non mancavano al “defunto Dott. Piergiorgio Welby”. Al defunto Dott. Gabriele Cagliari, infatti, non gli furono negate le esequie ecclesiastiche”, che vennero officiate con solennità nella Basilica di San Babila, a Milano, il 23 luglio del 1993.

Eppure, nella lettera d’addio ai familiari, Gabriele Cagliari aveva scritto – e i mezzi d’informazione ne avevano ampliamente reso pubblici i contenuti – che “questo è un addio al quale ho pensato e ripensato con lucidità, chiarezza e determinazione […] ho riflettuto a lungo […] ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più”. A rigor di logica, questo avrebbe dovuto far quel tanto di contrasto con la dottrina cattolica, che nel comunicato ufficiale del Vicariato di Roma col quale si negano le “esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby” è richiamata ai numeri 2276-2283 e 2324-2325 del Catechismo.

Il defunto Dott. Gabriele Cagliari scriveva: “Non posso sopportare più”. Né più né meno di quanto scriveva il defunto Dott. Piergiorgio Welby. Chi meglio di chi ci sta dentro può giudicare quanto la propria “prigione infame” consenta o no – a dirla come la dice il Catechismo – “un’esistenza per quanto possibile normale” (2276)?

 

La prigione del Dott. Welby era più “normale” di quella del Dott. Cagliari? Chissà. Fatto sta che il Catechismo dice che “l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima […] Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità” (2278); nulla di simile è concesso all’uomo in carcere che si senta ingiustamente detenuto. Epperò, le “esequie ecclesiastiche” furono concesse al defunto Dott. Cagliari e non sono state concesse al defunto Dott.  Welby. Questo paradosso spinge ad un’attenta analisi del Catechismo, cui rimanda il comunicato ufficiale del Vicariato di Roma.

Qui si legge che “un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L’errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest’atto omicida, sempre da condannare e da escludere” (2277): non c’è ombra di dubbio, il defunto Dott. Cagliari ha commesso un atto che gravemente “contrasta con la dottrina cattolica”.

Leggo, inoltre, che “il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi” (2281): anche qui il defunto Dott. Cagliari non se la cava bene.

E’ vero, leggo pure che “gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (2283): ma, se questo ha potuto valere per il defunto Dott. Cagliari, perché non ha potuto valere per il defunto Dott. Welby?

 

2.

 

L’incrinatura che solca la superficie di uno specchio, anche se minima, sdoppia l’immagine che riflette. Se Cristo è – insieme – veritas e caritas, la chiesa che vorrebbe rifletterne l’immagine è irreparabilmente incrinata, da sempre, fin dalle sue origini, nel mentre – da essa, per essa e in essa – il mito di Cristo era in fieri: nella storia della chiesa solo uno strabico – o un apologeta – può vedere veritas e caritas collimare in un sol punto. Il cantiere del mito è sempre aperto, ma ormai da secoli i lavori si limitano al consolidamento e al restauro. Un tentativo di ristrutturazione – il Concilio Vaticano II – provocò un peggioramento dell’incrinatura, sicché oggi lo strabismo dev’essere assai marcato per vedere veritas e caritas coincidenti nelle parole e negli atti di chi vanta l’unico legittimo apostolato di Cristo, quello che addirittura fa del mandato un momento di incarnazione.

Il “caso Welby” ne è la prova evidente: col trionfo della veritas, mandando a fare in culo la caritas. Giusto il contrario di quanto accadde nel “caso Cagliari”, dove trionfò la caritas, mandando a fare in culo la veritas.

 

Cos’è che fa riflettere talvolta caritas e talvolta veritas a questa superficie da sempre (e sempre più) incrinata? E’ la natura del “caso”, il suo potenziale di scandalosità. Il defunto Dott. Cagliari non faceva scandalo, per quanto non citasse Dio neppure mezza volta nella sua lettera d’addio. Il defunto Dott. Welby sì. Ma quel suo “dopo la mia morte potete fare quello che vi pare” manda a fare in culo ogni strabico, con la sua strana caritas e la sua assurda veritas. Spiace dirlo, ma con quelle debbono fare i conti i cattolici, compresa mamma Luciana.

 

 

 

 



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