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Climatologia: una questione di libertà di ricerca scientifica

23 marzo 2007

di Antonio Bacchi

Fare ricerca ad alto livello, a prescindere dal settore d’indagine, richiede sempre più una grande disponibilità di fondi. Spesso a fornirli, soprattutto in Europa, sono soggetti pubblici. Uno dei rischi ai quali può andare incontro la scienza in questa situazione è la politicizzazione della ricerca, ovvero che si crei un meccanismo distorto per il quale gli erogatori dei finanziamenti intervengono ad orientare il lavoro degli scienziati.

 

Questo rischio, che in parte può aver sempre accompagnato la storia della scienza, oggi emerge con particolare forza quando si assiste alla promozione di grosse campagne politiche  che vanno ad interferire con il dibattito scientifico in atto. Mi riferisco in particolare ad un tema di grande attualità: quello della ricerca sui mutamenti climatici e della campagna guidata dall’IPCC (Intergovernmental Panel on the Climate Changes), il ‘panel’ delle Nazioni Unite dedicato allo studio dei cambiamenti climatici, che raccoglie un gran numero di scienziati impegnati su diversi progetti. Tale campagna, che gode negli ultimi anni di un sempre maggiore sostegno dei mezzi d’informazione e di un numero crescente di esponenti politici e governi, soprattutto europei, punta a dimostrare che sono in atto cambiamenti climatici dovuti all’attività umana che porteranno, nel prossimo futuro, il nostro pianeta alla catastrofe. Le tesi dell’IPCC si basano soprattutto su modelli matematici di previsione, giudicati da gran parte del mondo scientifico ancora troppo parziali e imprecisi, soprattutto per le scarse conoscenze che abbiamo in materia climatica. Si tratta quindi di tesi che sono ancora al centro di un dibattito tra gli scienziati di tutto il mondo. Il problema è che sempre più, quella dell’IPCC, si va delineando come una campagna politica, più che scientifica.

 

Proprio per questo motivo, in questi anni, sono state diverse le voci fuori dal coro costrette a lasciare il ‘panel’ dell’Onu. Il caso più clamoroso è stato senz’altro quello di Chris Landsea, lo scienziato che ha redatto due ‘Rapporti di Valutazione’ dell’IPCC (il secondo del 1995 e il terzo del 2001), principalmente occupandosi dell'argomento dei cicloni tropicali. Nel 2005 si è dimesso dall’IPCC con una lettera aperta alla comunità scientifica in cui denunciava la politicizzazione del ‘panel’ e l’uso distorto dei risultati di alcune ricerche (si veda il testo completo della lettera aperta a questo indirizzo: http://www.lavoisier.com.au/papers/articles/landsea.html).

 

Marcel Leroux, direttore di un laboratorio francese di ricerca sul clima e autore di un libro dedicato al cambiamento climatico (“Global warming, myth or reality – the erring ways of climatology”, pubblicato da Springer Praxis), spiega, sulla base della propria attività professionale, come il governo del suo paese abbia ormai assunto quale vera e propria “religione di stato”, fondata su dogmi che non possono essere messi in discussione, l’insieme delle tesi sul “cambiamento climatico”. La logica conseguenza è che i finanziamenti governativi si ritrovano a premiare quei gruppi di ricerca che si tengono lontano da prese di posizione “eretiche”. E il fenomeno non riguarda certo solo la Francia.

 

Leroux racconta anche un fatto emblematico, ovvero la vicenda di un congresso dell'IPCC tenutosi a Mosca nel 2004, al termine del quale, su esplicita richiesta di scienziati britannici, furono esclusi dalla pubblicazione finale degli atti quegli interventi giudicati ‘fuori linea’, quali quelli del fisico dell’atmosfera del MIT, Richard Lindzen, o dell’entomologo Reiter, dell’Istituto Pasteur di Parigi, reo di sostenere che il cambiamento climatico c’entra poco con l’espansione di malattie tropicali che hanno come vettori gli insetti.

 

Una conferma dell’anomalo comportamento del mondo accademico inglese in occasione di quel congresso, viene dal tentativo operato da parte di uno dei massimi consiglieri scientifici di Tony Blair, Sir David King, di eliminare anche dall’elenco dei relatori gli scienziati non allineati sulle tesi dell’IPCC. La vicenda è raccontata dettagliatamente da Roger Bate, dell’American Enterprise Institute, in un articolo pubblicato su ‘Economic affairs’ nel novembre 2004 (l’articolo è intitolato "The british Lysenko", e il testo integrale è consultabile a questo indirizzo: http://aei.org/publications/filter.foreign,pubID.21671/pub_detail.asp).

 

Di recente (in una intervista pubblicata il 1 febbraio dal “Giornale di Sicilia”), il professor Antonino Zichichi affermava che il catastrofismo in materia climatica “ha talmente effetto sui governi che l’attività non è più libera nel campo puramente e rigorosamente scientifico”. E’ l’allarme lanciato anche da altri scienziati italiani, tra i quali due professori con i quali ho potuto avere recentemente uno scambio diretto di opinioni proprio su questo argomento: il professor Luigi Mariani, agro metereologo dell’Università degli studi di Milano, e il professor Teodoro Georgiadis, dell’IBIMET del CNR. Dal professor Mariani, in particolare, viene un appello al mondo dei media e alla politica a ristabilire una correttezza e completezza d’informazione, che in materia di clima oggi si sta sempre più perdendo.

 

Intanto assistiamo al montare di un gran brutto “clima” (mi si passi il gioco di parole) che di scientifico ha ben poco. Si va da Al Gore che paragona ai negazionisti dell'Olocausto gli scienziati che mettono in dubbio la teoria del ‘riscaldamento globale’, fino alla recente sortita di una climatologa americana, Heidi Cullen, che durante una trasmissione tv ha sostenuto che la Società americana di meteorologia dovrebbe impedire di intervenire pubblicamente a chi nega l’importanza dell’effetto umano sui cambiamenti climatici. E gli esempi, su questa falsariga,  potrebbero continuare, evidenziando l’emergere di una preoccupante voglia di epurazione.

 

Se si pensa che sottoporre a vaglio critico i risultati di ogni studio sta alla base stessa del metodo scientifico, questa chiusura assume contorni davvero preoccupanti e fa dubitare fortemente della bontà dei risultati che potranno essere raggiunti da gruppi di lavoro come quelli gestiti dall’IPCC. Quella sul clima è una campagna che confonde i piani della politica, della scienza e dell’informazione, il ché giustifica eccome l’allarme che viene da un numero crescente di scienziati.

 

E’ evidente che siamo in presenza di una questione di libertà di ricerca da difendere e garantire, ed è qui che entra in gioco, a mio avviso, il ruolo che possono svolgere i Radicali, finora sicuramente l’organizzazione politica più attrezzata (almeno in Italia) per affrontare in modo adeguato questo problema. Se non altro per le lotte condotte fino ad oggi proprio sul fronte della libertà di ricerca. Si tratta a ben vedere, ancora una volta, della necessità di andare controcorrente per conquistare spazi di laicità e libertà. Credo che la questione meriti di essere ulteriormente approfondita.

 

 



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