Neo-agoraiano, ho letto con ritardo gli interventi sulla nonviolenza, ma credo di essere in tempo per fare qualche osservazione sull'argomento. Succede molto spesso che al nonviolento venga posta la classica domanda, che può avere molte varianti, ma essenzialmente è del tipo: che cosa può fare un nonviolento in una situazione di violenza conclamata?
Con questa domanda il non-nonviolento crede di aver 'incastrato' il nonviolento, dato che sia la risposta "usare la violenza", sia l'altra "continuare ad usare la nonviolenza", risulterebbero l'una l'ammissione della inagibilità pratica della nonviolenza, l'altra una dimostrazione di velleitarismo martireggiante.
Secondo me, chi pone la questione in questo modo - ed anche il nonviolento che bovinamente risponde in una delle due maniere suddette - commette due errori, su cui vorrei tentare di spendere qualche parola.
Il primo consiste nel considerare la nonviolenza come un qualcosa di dogmatico, di statico, di assoluto. Questa è nonviolenza, quest'altra no; come se da qualche parte esistesse una specie di catalogo in cui siano elencati, una volta per tutte, da una parte gli atti violenti, dall'altra quelli nonviolenti.
Ma anche la nonviolenza, come tutti i fenomeni umani, è un concetto relativo.
Un comportamento (politico o personale) nonviolento è semplicemente un comportamento che in una data situazione tende a diminuire, per quanto possibile, il tasso di violenza esistente (e futura).
Il nonviolento - cioè la persona che persegue (o cerca di perseguire) quest'obiettivo - risponde alla violenza, caso per caso, a seconda delle situazioni che si presentano, con comportamenti e con scelte che spera efficaci usando il minimo di violenza possibile.
Sottolineo: 'minimo di violenza possibile', non 'nessuna violenza'.
Faccio un esempio volutamente paradossale.
Oggi tutti considerano la guerra, gli eserciti, come l'esempio più evidente e inaccettabile di violenza. Uomini organizzati e istruiti al fine di uccidere altri esseri umani. Da antimilitaristi, lottiamo per far deperire e sconfiggere il militarismo.
Vediamo però la cosa da un punto di vista storico.
Anticamente (ma non tanto...) le questioni tribali, le lotte tra i popoli e fra le nazioni erano risolte con la legge del più forte, ovvero con nessuna legge. Si trucidavano uomini, vecchi, donne, bambini; si saccheggiava senza alcun limite, si incendiavano villaggi, si impalavano superstiti, e così via. Piano piano, nei secoli, si è giunti alla formulazione di un diritto - scarno, esile, largamente non rispettato - ma comunque diritto: regole sul trattamento dei prigionieri, sulle dichiarazioni di guerra, sugli armistizi, ecc. Le tragiche regole della guerra come la conosciano oggi. Regole che a noi oggi paiono assolutamente inaccettabili, come tutto ciò che concerne il militarismo, ma che quando furono istituite rappresentarono indubbiamente una diminuzione - anche se, ripeto, assolutamente insufficiente - del tasso di violenza dei rapporti tra le nazioni.
In questo senso si può dire che - nel contesto storico in cui avvenne - la creazione dell'istituzione militare, quella stessa che oggi i nonviolenti giustissimamente combattono, può essere considerata, con le sue regole e i suoi riti, come un atto di nonviolenza.
L'altro errore, secondo me, sta nel non aver chiaro quanto l'intelligenza sia condizione necessaria per la nonviolenza (per questo è così difficile essere nonviolenti... ). Chi agisce da sprovveduto, anche se animato dalle migliori intenzioni, riuscirà magari ad essere eroe o martire, ma non sarà mai un nonviolento. Per essere nonviolenti bisogna saper capire a fondo la situazione, saper prevedere le mosse dell'avversario, saperlo sorprendere, spiazzare, saperlo costringere a non usare la violenza perché ci rimetterebbe. Ne deriva che nonviolenza significa soprattutto saper creare condizioni tali affinché in futuro non si verifichino atti di violenza.
Ecco perché non ha senso chiedere, ad esempio, come si sarebbe comportato un nonviolento sotto il nazismo. La risposta è che se in Germania negli anni Venti ci fosse stato un movimento nonviolento molto probabilmente non si sarebbe arrivati al nazismo. E se anche ci si fosse arrivati il nonviolento avrebbe cercato di trovare strumenti adatti alla situazione, e questi non sarebberro stati sicuramente né digiuni, né manifestazioni, né raccolta di firme, strumenti nonviolenti utilizzabili (a fatica...) nelle società a struttura più o meno democratica, figuriamoci sotto una dittatura.
In Romania, in una situazione di guerra civile, digiunare come se si fosse in Italia, sarebbe stato un atto di imbecillità, non di nonviolenza; ma il nonviolento in una situazione del genere deve essere capace di trovare altri meccanismi di lotta politica nonviolenta.
Quali meccanismi?
Questo è il vero problema del nonviolento. A priori non si conoscono, servono intelligenza e fantasia per trovarli, per inventarli. Ma, cercando cercando, alla fine vengono fuori.
Dice bene Cicciomessere, gli eventuali radicali di Bucarest avrebbero fatto tutto il possibile - prima - per non far succedere quel che è poi successo. Se non ci fossero riusciti, all'esplodere della violenza avrebbero dovuto prendere atto della loro sconfitta e decidere al momento, in condizioni difficilissime, che cosa fare. Ricordando comunque - altro dato su cui spesso si fa confusione - che nonviolenza non significa affatto rassegnazione alla violenza, tutt'altro, e che alle volte risulta necessario farsi tragicamente carico degli errori, propri o altrui.
Giuseppe Lorenzi
P.S. Per passare dalla teoria alla pratica, cerchiamo di fare in modo che in Romania - e anche altrove - ci siano un po' più di radicali, eh!