di Adelaide AgliettaINDICE:
"Prefazione" di Leonardo Sciascia
Il coraggio della paura
Una città assediata
L'appuntamento con i violenti
Fiori in tribunale
Nel bunker
La prossima sarà Adelaide Aglietta
Giustizia per Giorgiana Masi, giustizia per il maresciallo Berardi
La strage di via Fani
La questione dell'auotodifesa
Il dibattimento è aperto
Tragedia nel paese, illegalità in Parlamento, noia in tribunale
Curcio: "Un atto di giustizia rivoluzionaria"
Frate Mitra
La campagna dei referendum: schizofrenia di una giurata
La parola è alle parti
La Corte si ritira, il mio compito è finito
Perché questo libro
SOMMARIO: Adelaide Aglietta, torinese, è entrata nel Partito radicale nel 1974. Dopo aver militato nel CISA per la depenalizzazione e la liberalizzazione dell'aborto e poi nel Partito radicale del Piemonte, è stata capolista radicale a Torino nelle elezioni del 20 giugno 1976. Nel novembre successivo è stata eletta segretaria del Partito radicale, carica che le è stata riconfermata per il 1978 al Congresso di Bologna. Estratta a sorte, nel marzo 1978, come giurata popolare nel processo di Torino alle Brigate Rosse, ha accettato l'incarico dopo che si erano verificati più di cento rifiuti da parte di altrettanti cittadini, consentendo così la celebrazione del processo.
Adelaide Aglietta è stata dunque il primo segretario di partito a partecipare ad una giuria popolare: il suo diario nasce da quest'esperienza al confine del lavoro politico e della vita privata, fra le tensioni e contraddizioni che il ruolo di giudice popolare, soprattutto in un processo politico, non può non creare.
Attualmente è deputata al Parlamento europeo.
("DIARIO DI UNA GIURATA POPOLARE AL PROCESSO DELLE BRIGATE ROSSE" - Adelaide Aglietta - Prefazione di Leonardo Sciascia - Milano Libri Edizioni - febbraio 1979)
LA STRAGE DI VIA FANI
Giovedì 16 marzo. Verso le nove e trenta mi sveglia una telefonata di Emma Bonino che, con voce agitata, mi comunica che è stato rapito Moro. Le chiedo se sta scherzando, mi risponde di no e io resto lì, con la cornetta del telefono in mano. E' la seconda volta, in poco più di dieci giorni, che una telefonata mi dà notizie gravi, che mi turbano. Accendo la radio e la cronaca dice che quattro uomini della scorta sono stati ammazzati, il quinto è grave, all'ospedale. Rivedo davanti agli occhi le facce dei giovani carabinieri, smarriti, di sevizio al processo di Torino. Penso a Moro, al nostro avversario, a colui che è destinato al Quirinale, a colui che permea con la sua logica tutta la politica italiana, al "grande logoratore". Lì per lì penso che non possa essere sopravvissuto al massacro. Mi sforzo di analizzare gli avvenimenti: questa volta hanno proprio colpito il cuore dello Stato... la risposta del regime sarà una chiusura spaventosa, l'opposizione sarà ulteriormente spazzata, non ci ascolterà nessuno..
. E poi: cosa comporterà, per il processo, il rapimento di Moro? E se invece è vivo, chiederanno lo scambio e dovremo affrontare il problema? Ma chi ha colpito l'uomo più potente d'Italia? Sono proprio le Brigate Rosse? Come reagiranno gli imputati di Torino? Mi vesto, vado a Montecitorio. Roma è tranquilla: all'ingresso della piazza dell'Obelisco mi sfreccia davanti una macchina blu (credo un'Alfetta): riconosco, nel sedile posteriore, Francesco Cossiga. E' stretto fra due agenti, davanti accanto al guidatore ce n'è un altro. Mi scatta istintivamente un pensiero: "Anche tu hai assassinato".
Al gruppo parlamentare si manifestano chiaramente i primi sintomi di ciò che il caso Moro rappresenta: La Malfa chiede leggi marziali e pena di morte, neanche Almirante riesce ad eguagliarlo. Su "la Repubblica" del mattino c'è un titolo: "L'Antilope è Aldo Moro?"; nell'edizione straordinaria la prima pagina, dove a caratteri cubitali si annuncia la strage e il rapimento, è identica, solo è scomparso il pezzo su Moro. Marco Pannella sbuca dall'ascensore, viene Dal Transatlantico; Antonello Trombadori gli ha urlato contro: "E voi che vorreste abolire il confino! A fil di spada! A fil di spada!".
Ecco cosa significa il caso Moro. Richiedo un biglietto per la tribuna di Montecitorio, per assistere al discorso di presentazione del governo Andreotti. I banchi dei deputati sono affollati: molti scorrono i quotidiani, alcuni - incredibilmente - sghignazzano. Mi torna in mente il vecchio motto "qualunquista": "Non fare politica, la politica è una cosa sporca". Andreotti è un po' meno curvo del solito; col rapimento Moro in ballo, oggi si può permettere tutto: "Il governo intende varare una nuova legge, che possa scongiurare il referendum sulla legge Reale, che oggi sarebbe un referendum pro o contro la criminalità".
Vedo Marco, all'estrema sinistra, scattare in piedi e protestare. Ingrao scampanella con veemenza, zittendo i deputati radicali, i quali abbandonano l'aula. Osservo con interesse Andreotti, che sta sornionamente sciorinando tutto ciò che da trent'anni si sente dire ad ogni presentazione di un governo alle Camere. Poi fisso i banchi comunisti: Berlinguer è impassibile, Pajetta ha il volto - tanto per cambiare - arrogante. Guardo Alessandro Natta, capogruppo del PCI a Montecitorio, e penso alla beffa di sei giorni prima: "l'Unita" del 12 marzo aveva pubblicato una sua intervista nella quale si affermava che avrebbe fatto parte del governo anche "personalità" ed "esperti" graditi alle sinistre. Il giorno stesso Andreotti rendeva noti i nomi dei ministri, tutti democristiani, da sempre intercambiabili alla guida dei vari dicasteri. Quando i comunisti l'hanno saputo migliaia di copie dell'"Unità" erano già in edicola.
Al gruppo parlamentare chiamo Torino: mi dicono che il servizio d'ordine del PCI chiude le saracinesche dei negozi, piaccia o non piaccia ai negozianti, e che c'è un grande concentramento indetto dai sindacati, come ovunque. Stiliamo alcune dichiarazioni. Sia io che Marco Pannella chiediamo che il ministro degli Interni si dimetta; come previsto, una certa gestione del potere e dell'ordine pubblico si è rivelata disastrosa per lo stesso regime. Torna alla mente la lucidità di Pasolini: la sinistra ha rifiutato di fare il "processo al regime", e oggi l'intero paese deve assistere al processo farsa di un manipolo di assassini, che tengono in pungo il "potente fra i potenti". Gianfranco Spadaccia analizza le reazioni del "mondo politico" di fronte al crimine:
Stato di guerra, pena di morte non sono soltanto le reazioni isteriche di esponenti della classe politica di fronte ad un avvenimento così grave: sono anche la manifestazione di impotenza di una classe politica e di uno Stato debole e incapace, che non solo non riescono a garantire l'ordine pubblico ma non riescono a salvaguardare e difendere neppure la libertà e l'incolumità dei suoi più alti esponenti. Dopo anni di leggi Reale, di supercarceri, di procedure eccezionali, di leggi speciali, di annullamento delle garanzie costituzionali abbiamo avuto non uno Stato più forte ma uno Stato più debole. E' questa la politica che ha portato allo sfascio attuale, sempre più grave e drammatico. In questo momento come non mai occorrerebbero invece nervi a posto e una classe politica consapevole che soltanto nella legalità e nella ricostruzione e nel ripristino del funzionamento degli organismi essenziali dello Stato è possibile uscire dal caos e dalla tragedia in cui si sta precipitando. Le prossime ore, che saranno c
omunque drammatiche, saranno affrontate, temiamo, nelle peggiori condizioni: con le urla di chi crede di darsi con esse la forza e con nuove dimostrazioni di impotenza e di debolezza.
Tornata a casa, accendo la televisione: il Ministero degli Interni diffonde le fotografie di presunti brigatisti: fra questi, il ben noto Pisetta, infiltrato della polizia nell'organizzazione! Mogli e madri dei caduti piangono disperate: come sempre sono quelle che più di tutti pagano. Per una attimo penso che sia giusto che chiedano vendetta.
A letto, un altro pensiero non mi lascia dormire, un pensiero che mi assale solo ora: è ipotizzabile uno sviluppo "tedesco" della situazione? Se fra i rapitori e il governo si instaura il braccio di ferro, o se Moro viene ritrovato assassinato, l'ombra di Stammheim e dei falsi suicidi di Andreas Baader e dei suoi compagni non si allungherà anche sull'Italia? Se si innescassero meccanismi perversi di questo tipo, la logica della morte e della violenza terroristica o di Stato trionferebbe, facendo terra bruciata di tutto ciò o di tutti coloro che rigettano e rifiutano anche solo di avallare una logica fondata sulla forza. La giustizia deve almeno essere tentata, è l'unica via attraverso la quale si possano impedire crimini di qualsiasi tipo, è l'unico punto di riferimento al quale possano essere affidate le residue speranze di non precipitare nel disastro. Sono dunque molte, e fra loro anche diverse, le ragioni per le quali mi ribadisco che la mia presenza nel processo è necessaria.
Venerdì 17 marzo. La Camera dei deputati discute la nuova normativa per la composizione delle giurie di Corte d'assise. Mauro Mellini presenta l'emendamento per l'abolizione della dispensa della funzione di giudice popolare, dispensa di cui godono i deputati e i segretari di partiti che sono tutti deputati.
"Conversione il legge del D.L. sulle Corti d'assise 14-2-78 n. 31"
(Emendamento a firma Mellini e altri)
E' aggiunto il seguente articolo:
Sono abolite le lettere b, c, d, dell'art. 29 della L. 10 aprile 1951 n. 287 (1).
E' abolito l'art. 12 lettera c della L. 10 aprile 1951 n. 287 (2)
Alla lettera b di tala articolo è aggiunto: per appartenenti alle Forze Armate (3) si intende, a tutti gli effetti, colui che abbia assunto e presti effettivamente servizio militare alle armi.
(1) Sono dispensati dall'ufficio di giudice popolare per la durata della carica: a) i ministri etc...; b) i membri del Parlamento; c) i commissari delle Regioni; d) i prefetti...
(2) Non possono assumere l'ufficio di giudice popolare: a) i magistrati; b) gli appartenenti alle Forze Armate dello Stato ed alle forze di polizia; c) i ministri di qualsiasi culto.
(3) Art. 8 C.P.M.P.: cessano di appartenere alle Forze Armate dello Stato: a) gli ufficiali, dal giorno successivo alla notificazione del provvedimento che stabilisce la cessazione definitiva degli obblighi del servizio militare; b) gli altri militari dal momento della consegna ad essi del foglio di congedo assoluto (45· anno di età).
I gruppi della maggioranza respingono l'emendamento. Il giorno seguente scorro i quotidiani, convinta che quanto meno la notizia sia riferita: non un solo giornale la riporta; l'informazione italiana è così pronta ad offrire copertura, omissioni, silenzi, censure e qualsivoglia altro servizio al "Palazzo"!
Sabato 18 e domenica 19 marzo si svolge, nella sede del Partito radicale di Torino, la riunione del consiglio federativo. Sono appena passati quattro giorni da quando l'abbiamo convocata ma il tempo trascorso sembra tanto di più. Di mezzo c'è il rapimento di Moro e la strage della sua scorta. Questi fatti danno maggiore concretezza alle nostre angosce di allora e rafforzano le nostre analisi, rendono ancora più drammatica la situazione.
Il dibattito, a cui partecipano molti compagni, rivela anche un più alto grado di consapevolezza. Ricordo in particolare un intervento di Rosa Filippini sulla politica dell'assassinio, dell'annientamento dell'avversario: non c'è nulla di più radicalmente opposto alla nonviolenza, che presuppone sempre il dialogo, cioè l'esistenza dell'altro. Erano gli stessi concetti che espressi quando appresi la notizia, che mi colpì dolorosamente, dell'uccisione di Carlo Casalegno.
Nell'intervallo per il pranzo mi fermo un quarto d'ora con Luca Boneschi: è venuto con alcune compagne di Milano. Fra esse c'è Bea, una delle compagne del Movimento di liberazione della donna con cui ho avuto nei mesi precedenti motivo di polemica. Il fatto che sia venuta mi fa piacere. Luca mi ha portato un libro sull'autodifesa, un problema che si porrà nel processo e sul quale sento il bisogno di documentarmi. Vado a mangiare con un gruppo di compagni di Roma, di Torino, di Milano e di Napoli: Marcello Crivellini, Giorgio Spadaccia, Rosa, Mario Signorino, Elena Negri, Paolo Chicco, Angiolo Bandinelli, Nicola Lucatelli, Laura Cherubini, Geppi Rippa, Loredana Lipperini.
Nel pomeriggio arriva Sergio Stanzani. E' quasi incredibile come, nonostante i suoi gravosi impegni di dirigente industriale, riesca a non mancare mai a nessun appuntamento di partito. Sergio appartiene al gruppo "storico", come chiamiamo con rispetto ma anche con affettuosa irriverenza i compagni più anziani. Negli anni '50 era con Marco Pannella e Franco Roccella uno dei leaders del movimento studentesco di allora (l'Unione goliardica italiana). Di lui mi meraviglia lo straordinario rapporto che riesce ad avere con i compagni più giovani: penso che sia la naturale conseguenza di una attenzione costante, non superficiale o strumentale, ma reale.
Il dibattito dalle questioni generali passa al "che fare", alle concrete difficoltà che dobbiamo affrontare. Un intervento di Gianfranco, al di là degli avvenimenti di questi giorni, riporta il discorso sulle prospettive, sulle scadenze meno vicine, sul nostro itinerario collettivo: una forza politica è tale se ha la capacità di non farsi travolgere dagli avvenimenti, per quanto drammatici essi siano. In questi momenti è necessario ancorarsi alla propria storia, far fronte umilmente ai propri doveri (quello mio nel processo, quello dei deputati in Parlamento, quello degli altri compagni nella attività quotidiane, saper attendere che nuove contraddizioni si presentino e resistere per saperle cogliere e fare esplodere. Penso ai lunghi periodi "sotterranei" della vita del partito che compagni come Marco, Gianfranco, Angiolo e più recentemente noi abbiamo conosciuto: senza questa capacità di distacco e di resistenza il Partito radicale di oggi non sarebbe esistito. Gianfranco conclude dicendo che la scadenza che
abbiamo davanti è il referendum dell'11 giugno: è quella l'occasione in cui la parola tornerà alla gente, in cui potremo tornare a far valere il funzionamento della democrazia contro l'opposta violenza del regime e delle Brigate Rosse.
Domenica arrivano molti altri compagni delle associazioni. Lunedì ci saranno venti tavoli del partito, e intorno ad ogni tavolo gruppi di compagni e di compagne con volantini e con i testi di una dichiarazione. La gente si ferma, chiede informazioni, firma, prende il materiale, lascia soldi. Quando si avvicina la primavera i tavoli sono quasi uno strumento fisiologico per l'organizzazione radicale: un modo di stare insieme e di stare insieme alla gente. Ma ora i tavoli hanno anche un significato simbolico: combattere la paura, riportare la politica nelle strade e nelle piazze, confermare la nostra volontà di esistere e di lottare in maniera nonviolenta, esporci collettivamente con le nostre idee per contrastare il terrore delle BR e l'autoritarismo del regime.
Lunedì 20 marzo. Arrivo in ritardo alla caserma Lamarmora. Gli altri giurati, abituati a vedermi puntuale, si sono preoccupati. Ca n'è uno in attesa, che appena mi vede tira un sospiro di sollievo e mi rimprovera, anche bruscamente, la poca puntualità: era serpeggiato infatti il timore che mi fosse successo qualcosa.
Fuori dell'aula c'è una grande agitazione: tutti commentano il rapimento di Aldo Moro. Alcuni ipotizzano la richiesta - da parte delle BR - di uno scambio con gli imputati di questo processo. Gli avvocati con cui parlo sono categorici nel dire che, anche volendolo, non esisterebbero appigli giuridici. Barbaro è meno loquace del solito e pensieroso.
Gli imputati, non appena hanno saputo del rapimento di Aldo Moro, hanno esultato e gioito, o almeno così affermano i giornali. Tento di verificare l'autenticità della notizia, ma non mi riesce. Non appena entro nell'aula mi rendo immediatamente conto che il clima è tesissimo, e mi soffermo a guardare attentamente gli imputati. Renato Curcio siede in mezzo al gruppo, lo vedo improvvisamente invecchiato rispetto alle fotografie di soli due anni prima, il suo atteggiamento è, come sempre, molto composto e spesso attento.
Normalmente, nel corso delle lunghe udienza, Curcio è pensieroso. Verso la fine del processo lo noterò con sempre maggior frequenza con la testa appoggiata fra le mani, il che mi farà pensare a una sorta di logoramento psicologico, di stanchezza. Ciò che è certo è che la figura di Curcio mi è apparsa quella più determinata, sorretta da convinzione e intransigenza. I suoi interventi sono precisi e approfonditi, il comportamento è lineare, calmo; lo sguardo è di chi non nutre né dubbi né esitazioni, pur non essendo disumano. La curiosità di parlare con gli imputati, di conoscere le ragioni che li hanno indotti alla via della clandestinità e della lotta armata, mi rimarrà per tutto il processo.
L'udienza inizia con un incidente. I giornalisti parlano a voce alta, alcuni di loro sono furibondi e non lesinano improperi. Anche fra gli avvocati serpeggia l'inquietudine. Barbaro mi spiega immediatamente che per ordine della questura è stato vietato l'accesso all'aula ai fotografi e ai giornalisti muniti di registratore. E' stato anche sequestrato un mangianastri all'avvocato Bianca Guidetti-Serra, che per abitudine registra tutto. Si vuole evitare la "pubblicità" di eventuali dichiarazioni dei brigatisti, inneggianti al rapimento Moro. Dopo alcuni minuti di consultazione ci troviamo tutti concordi nel considerare che non sono ammissibili interferenze: la garanzia della pubblicità, tanto più e a maggior ragione in questo frangente, deve essere assicurata. Mi convinco che si tenta di scaricare sul processo la lunga sequela di carenze ed errori che il Ministero degli Interni ha commesso; visto che la "forza dello Stato" non ha possibilità di esplicarsi in altro modo, la si esaurisce nel tentativo di chiude
re la bocca agli imputati. Si arriverà ben presto - da parte di alcuni quotidiani - a calare costantemente la mano su di essi, deformando il loro comportamento, enfatizzando in senso negativo i loro discorsi. L'atteggiamento degli imputati, l'ho detto, è drammaticamente composto.
Al pubblico ministero Moschella saltano invece i nervi quando intervengono sul caso Moro (Ferrari: "...c'è ben altro processo..."; Franceschini: "il vero processo si sta svolgendo altrove..."; Curcio: "Moro è nelle mani del proletariato e sarà processato..."). Mentre avviene tutto ciò, Barbaro indaga sulle ragioni che hanno indotto la questura a impedire l'accesso all'aula ai fotografi e ai giornalisti muniti di registratore.
I carabinieri dichiarano di non avere alcuna responsabilità nella decisione, e ben presto si viene a sapere che è Francesco Cossiga in persona ad aver diramato l'ordine. Barbaro tiene duro, e ordina innanzitutto la restituzione del registratore alla Guidetti-Serra. Poi inizia una lunga attesa. Non avendo nulla da fare, decido di andare a prendere un caffè. E' in quest'occasione che, casualmente, mi trovo di fronte un funzionario dell'antiterrorismo che sta parlando al telefono, con Roma: "Certo, certo, non si preoccupi... Non appena leggeranno il comunicato le diremo tutto subito, vedremo se conterrà elementi utili per l'indagine...". Mi auguro che le speranze per la salvezza di Moro non siano affidate unicamente alle "rivelazioni" dei comunicati degli imputati di questo processo. Dopo un paio d'ore si viene a sapere che Cossiga ha ceduto, di fronte al netto rifiuto della corte di proseguire l'udienza.
Il processo riprende con il tentativo di Ferrari (respinto da Barbaro) di dare lettura del comunicato n. 11, che col solito "escamotage" viene comunque allegato agli atti. Gli imputati abbandonano allora l'aula, o meglio l'abbandonano tutti meno tre (quelli che vengono definiti gli "osservatori che sorvegliano la vostra attività contro-rivoluzionaria"). L'udienza si chiude con un ultimo battibecco fra il pubblico ministero Moschella e Ferrari.
In cancelleria mi faccio dare una fotocopia del comunicato di cui si è impedita la lettura e constato che, relativamente a Moro, non dice più di quanto riportano tutti i quotidiani, rifendo del comunicato che ha rivendicato il rapimento:
...Aldo MORO, catturato e rinchiuso come PRIGIONIERO DI GUERRA in un CARCERE DEL POPOLO dall'Organizzazione comunista combattente BRIGATE ROSSE, verrà processato.
MORO non ha maggiori responsabilità politiche dei suoi "amici" democristiani, anche se è venuto progressivamente configurandosi come baricentro politico, come "teorico" e "stratega" del regime democristiano e dello Stato imperialista.
Questo Processo proletario riguarda tutta la DC, la sua trentennale "occupazione dello Stato" ed il corollario di crimini-nefandezze-stragi-scandali, cui essa ha cercato di assuefarci; riguarda i progetti di controrivoluzione preventiva che le più potenti centrali imperialistiche intendono imporre, per suo tramite, al nostro Paese.
E' inutile che Zaccagnini si affanni a riproporre travestimenti populistici o interclassisti per il suo Partito: la DC non è mai stata un partito POPOLARE...
...E inutile è anche il "soccorso interessato" del PCI e dei sindacati. "L'azione psicologica di massa" a sostegno dell'Esecutivo, richiesta esplicitamente da Andreotti e costruita sul RICATTO, il TERRORE, l'INGANNO ed il QUALUNQUISMO, lo "sfruttamento crudele delle emozioni dell'opinione pubblica" ha la vita breve e si ritorcerà contro i suoi incauti suscitatori...
...Inutile, infine, è anche il soccorso politico e militare che le classi dominanti degli altri Stati imperialisti elargiscono a piene mani. Da Carter a Schmidt alla NATO, tutti hanno imposto il loro "aiuto"...
...L'unità di questo nuovo regime politico neo-corporativo, conformista, privo di identità positiva, rigido formalmente ma fragile ed inconsistente sul piano dei contenuti politici è simile a quella dei naufraghi: è un'unità per la sopravvivenza ad ogni costo!
Instabile e transitorio, questo regime non rappresenta comunque una soluzione per "portare il paese fuori dalla crisi". Per questo esso deve essere, con ogni mezzo e con tutte le energie, combattuto e liquidato. A chi obietta che l'attacco rivoluzionario è causa di controrivoluzione, di "involuzioni" e perfino di "colpi di Stato" diciamo che questa è pura DEMAGOGIA LIQUIDAZIONISTA! Insomma, chi mai dovrebbe farlo, questo "colpo di Stato", visto che il potere, lo Stato, è gestito "democraticamente" da tutto il fronte della borghesia imperialista, dalla "grande intesa" (DC, PCI e reggicoda vari)?
Il vero pericolo, il vero "colpo di Stato" non è di là da venire, ma è il divenire stesso di questo regime e della ristrutturazione imperialistica dello Stato, che già da alcuni anni sta marciando nel paese.
Certo, noi accettiamo la guerra! Ma non siamo noi a "CREARE" la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l'imperialismo nella crisi: non ne è un "aspetto" ma la sua "sostanza".
Far emergere, attraverso la pratica della LOTTA ARMATA PER IL COMUNISMO questa fondamentale verità, è il presupposto necessario della guerra di classe nella metropoli...
...Questo è il terreno strategico della ricostruzione di una effettiva opposizione di classe al regime della "grande intesa" ed allo Stato imperialista, della UNIFICAZIONE del Movimento Rivoluzionario, della costituzione del Partito Comunista Combattente.
Ecco perché il processo a Moro non "chiude la partita"...
Scappo velocemente al partito. Per strada mi fermo a due tavoli radicali con dei compagni di Napoli e Torino.
Nel pomeriggio vado anch'io al tavolo di piazza Castello. Incontro lì, intirizzita dal freddo, Camilla Cederna. La sua venuta a Torino era prevista per la sera, per una trasmissione a Radio Radicale di presentazione del suo libro: "Giovanni Leone. Carriera di un presidente". Avendo saputo della mobilitazione nonviolenta del partito, in segno di solidarietà nei miei confronti ha anticipato il suo arrivo. Mi fa piacere la sua presenza e la abbraccio. Questa del "tavolo" in mezzo alla gente è per lei una esperienza nuova, ma certamente ricca di spunti interessanti e divertenti, che la sua sensibilità ed il suo senso dell'umorismo sono pronti a cogliere. Mentre volantiniamo e conversiamo con i passanti, mi parla del suo libro. Nessuna delle due può prevedere oggi le clamorose conseguenze di quello che lei definisce "il frutto della mia curiosità".