Angiolo BandinelliSOMMARIO: All'indomani del Consiglio federale di Bohinj, Angiolo Bandinelli afferma che anche le sole difficoltà economiche consigliano di chiudere un Partito radicale che da Partito della Parola è divenuto Partito della Gestione. La sua rinascita può scaturire solo dal "coraggio di saper (voler) morire ogni volta, per reinventarsi di nuovo e rinascere alla propria stessa sfida". "La transnazionalità transpartitica è l'esplorazione del possibile richiesta, necessaria, dall'intelligenza che non vuole entrare in cattività, che cerca libertà, la libertà di un possibile di cui la città si arrischia".
(Notizie Radicali n· 21 del 1· febbraio 1989)
Il Partito radicale si avvia ad un Congresso di chiusura da troppo tempo annunciato. Vi arriva impacciato da rappresentazioni fantasiose e grottesche, che deformano le immagini e appesantiscono le aspettative. Sembra si dovrà scegliere tra mummificazione e metempsicosi. Sembra anche che protagonisti e antagonisti siano destinati ad essere un Mellini pronto a cavalcare ogni ricatto affettivo pur di respingere ciò che non comprende, e un Pannella candido Panurgo ostinato a replicare la sua immortale fiaba rivolta ai poveri di spirito cui da lontano ancora una volta addita la stretta porta dei cieli di una nuova e inconsutile civiltà liberale. Intorno, contorno, una classe dirigente così brava ed efficiente da aver disperso l'unica virtù che fa le grandi rivoluzioni (quelle che sono nell'ineluttabilità delle cose), la tollerante scioperataggine dell'intelligenza. Poco altro: ma ancora moltissimo, infinitamente più vitale e grandiosamente "teatrale" di qualsiasi altro figurante di una politica che riconta ognidì
le varianti dei suoi popperiani "modelli di partito".
Eppure, il Consiglio federale arrivava a Trieste e Bohinj con aperto un bagaglio di grossi temi, di grosse responsabilità, di non banali prospettive. Esso poteva marcare in bianco parecchi punti di crescita politica del partito e in nero i primi segnali di una possibile crisi, o quanto meno di una battuta di arresto, per la prima volta giunta a erodere le certezze di alcuni protagonisti della cronaca politica: Craxi in primo luogo. Le elezioni di Catania e del Trentino-Alto Adige mostravano praticabile, e interessante, quella indicazione di distacco e insieme di presenza anche elettorale che il Congresso di Bologna aveva sancito battendo di misura le esitazioni, le pavidità, e anche qualche giusta preoccupazione, presenti in zone del partito e fin dentro il gruppo dirigente. All'attivo dovevano essere segnati, poi, lo svolgimento del Consiglio federale di Gerusalemme e il recupero, dato per certo ormai, dello scacco subìto col rifiuto di tenere il Congresso a Zagabria. Questi quattro episodi si iscrivevano t
ra quelli di più limpida leggibilità politica, di più ricca disponibilità ad ulteriori sviluppi della storia non solo recente del partito; una storia nella quale successo e insuccesso non sono mai stati quantificati secondo la logica di un potere da acquisire o acquisito: neppure col divorzio, quando l'ipotesi di capitalizzare l'afflusso di adesioni e di consensi e la stessa forza "organizzata" della Lega del Divorzio si presentava con gran peso. A questo incitava, allora, Mauro Mellini; e invece accadde che la contemporanea apertura della campagna per l'aborto subito frantumasse e disperdesse quel capitale presunto, e spingesse il partito verso prospettive diverse e lontane. Questo scenario si è ripetuto parecchie volte da allora; dunque, scelta di fondo, il morire e il risorgere; non volubile trovata dell'oggi.
Invece, per una (inspiegabile?) rimozione, quel Consiglio federale di Trieste e Bohinj parve ignorare questi eventi. Poteva affrontare il tema della chiusura con l'orgoglio dell'ultima battaglia vinta, e non lo fece. Lo sottolineava, di fatto, Emma Bonino in uno dei suoi interventi, deplorando che una gestione strettamente "economicistica" trascurasse da tempo gli aspetti, le spinte, i valori più palpabilmente politici del recente cammino radicale. Ecco dunque che, un'ultima volta, si affacciavano prepotenti le contraddizioni di una forza politica che sulle sue contraddizioni è vissuta e sempre ha vinto quando di esse si è fatto globalmente carico. Perché è chiaro almeno questo, dai minuziosi calcoli della segreteria: il partito ha bisogno oggi di troppi miliardi, così com'è, per potersi affidare alla parola, alla nonviolenza, alla pura felicità dell'esservi; per pagare le cambiali della gestione questo capitale, sempre stato la cassaforte del partito, è ormai inadeguato, perché inesigibile.
Basterebbe questa contabilizzazione a consigliare l'immediata chiusura, a far tentare la via della metempsicosi. Sarebbe solo, del resto, un risarcimento dovuto; perché la prima metempsicosi, ma à rèbours, si era avuta nel 1979, quando si vide repentinamente scolorire il Partito della Parola (che era il partito dell'alternativa pura, della dialogicità come forma unica e modernissima del liberalismo) e prendere il suo posto il Partito della Gestione: perfettamente legittimo, perché no?, a una politica, però, dell'alternanza, della democrazia (altro dal liberalismo). I due modelli di partito si sono sovrapposti e anche contrapposti per un decennio, successivamente, con risultati anche non disprezzabili. Ma, oggi e per il domani, Pannella riscopre che la salvezza, o la rinascita, del partito è affidata alla speranza, o all'ipotesi, che vi siano "radicali senza tessera" da chiamare al compito di una rifondazione non truffaldina, affidata ad un esercizio davvero senza reti: lui che fino ad ieri denunciava quel ra
dicalismo cinico, alla moda, che aleggiava attorno al partito senza assumerne le responsabilità, senza prenderne la tessera, senza condividerne la gestione e i suoi pesi quotidiani.
Mellini ha ragione: la transnazionalità non serve a niente. E' vero, é proprio così: la transnazionalità è un sapore dell'intelligenza, di quella smoderatezza dell'intelligenza che tutti si affannano a denunciare, nel mondo corrivo della modernità, perché "non ci conviene". Ma la politica all'occidentale è nata, ad Atene, d'un parto solo con il dramma, il teatro. I greci ne furono consapevoli, la politica poteva saggiare il possibile delle dimensioni (le dimensioni possibili), e al dramma toccava esplorare invece le dimensioni del possibile: ma l'una senza l'altro, la politica senza il teatro che la rispecchia e la moltiplica sarebbe stato un pericolo grave per la città; come, per altri versi, un teatro senza politica, che è parola vuota senza oggetto, senza dramma. La transnazionalità transpartitica è l'esplorazione del possibile richiesta, necessaria, dall'intelligenza che non vuole entrare in cattività, che cerca libertà, la libertà di un possibile di cui la città si arrischia. Vi è qualcuno, nel nostro t
empo, che ha questo gusto, questa attenzione, questa risoluta coscienza del rischio da correre: suvvia, che altro gli si vuole e gli si può contrapporre di ugualmente bello e valido? Dieci deputati?
Uno che essendo stato di fatto espulso, senza processo, dal partito non potrà partecipare al Congresso manda a dire a coloro che vi parteciperanno di avere la tollerante intelligenza di lasciar deperire e morire il partito di ieri e di oggi, di non tentare operazioni di respirazione artificiale. Il partito del divorzio, dell'aborto, dei referendum non merita questo, perché quel partito ha avuto il coraggio di saper (voler) morire ogni volta, per reinventarsi di nuovo e rinascere alla propria stessa sfida. E così il confronto congressuale non sarà tra Mellini e Pannella, ma tra chi vorrà incamminarsi per questa strada e il nostro tempo politico e umano. E' il nostro tempo, politico e umano, a esigere, a chiedere, a avanzare le sue sfide, i suoi rebus, i suoi misteri. In queste sfide i contorni sono nitidi e certi, i mezzi e gli strumenti, i percorsi e gli obiettivi un po'' meno. Ma guai ad abbandonare la politica al solo gioco degli strumenti e dei percorsi, dunque alla filosofia del "cosa ci conviene?". Sare
bbe il peggior servizio che si possa rendere alla politica e alle sue vere necessità e nobiltà, oggi tanto mistificate da una falsa modernità che si presenta sotto le vesti dell'ovvio e per questo pensa di essere accattivante. Per questo tipo di politicare i protagonisti sono già tutti lì, belli e pronti. Ma altri chiedono altro, e saranno sempre e ancora "quei pazzi di libertà e di liberalismo" di cui ci parlava Mario Ferrara (che suggerirei di ricordare, oggi, tra i veri maestri del radicalismo), e che rappresentano le minoranze innumerabili di cui è impossibile che anche il nostro tempo non abbia in custodia qualche esemplare. Insomma, non si può affidare gli impulsi di libertà, la vertigine della libertà solo a quanti chiamano dall'abisso del totalitarismo, affidando le nostre società ai calcoli di un utilitarismo parvenu. Ci sono coloro che spendono un occhio per guadagnare la salute con i mezzi che tutti conosciamo. Io penso che occorra dare spazio e dignità, anche, a coloro che sanno invece che per ot
tenere la salute devi cercare la salvezza.