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Piccardi Leopoldo - 10 gennaio 1956
"La sedia vuota"
di Leopoldo Piccardi

SOMMARIO: La nascita del partito radicale fa riaccendere le speranze di tutti coloro che non si rassegnano al fatto che la scena politica italiana sia occupata prevalentemente da un partito a base confessionale e da due partiti marxisti. Nessuno dei partiti minori - il repubblicano, il liberale, il socialdemocratico - possiede i requisiti necessari a contrastare i due blocchi. "Saprà il partito radicale occupare la sedia rimasta vuota?", si domanda Piccardi. Per saperlo, occorrerà attendere la prova essenziale cui il nuovo partito dovrà saper rispondere, cioè quella "dei rapporti con gli altri partiti". Se i radicali si lasceranno sedurre dalle piccole polemiche di frazione, falliranno: riusciranno, invece, se si proporranno di coprire, insieme a chi lo vorrà ma anche rimandendo del tutto "autonomi", "tutto lo spazio che sta tra la DC e il PSI".

(IL MONDO, 10 gennaio 1956)

In questo nostro paese ove le formazioni politiche, come le nuvole in un cielo di marzo, si addensano, si scompongono, si sfilacciano, si ricongiungono, la nascita di un nuovo partito non sarebbe per se stessa avvenimento di tale rilievo da segnare un accento su quella ricorrenza, sempre ricca di speranze e di illusioni, che è l'inizio di un nuovo anno. Ma l'annunciata costituzione del partito radicale acquista in questa ricorrenza un particolare significato, perché riaccende una speranza che è andata per molti anni delusa. La speranza di vedere finalmente occupata una posizione politica rimasta finora vacante, con grave danno - questa almeno è l'opinione di alcuni - della chiarezza della linea di svolgimento del processo politico italiano.

Dal tempo della caduta del fascismo e della liberazione chi osserva il nostro schieramento politico, pur così affollato e articolato, scorge questa sedia vuota: non così ampia come la poltrona che, su uno dei lati di essa, accoglie le ridondanti prosperità della democrazia cristiana né confortevole come quelle che, dall'altro lato, ospitano i due partiti di sinistra, ma pur sempre una sedia capace di offrire un asilo a chi voglia prendere posto intorno al tavolo e partecipare al lavoro comune. E la singolarità di questa sedia non occupata è sempre apparsa tanto più sorprendente in quanto alle spalle degli occupanti di quelle comode poltrone di cui abbiamo fatto cenno e negli intervalli fra l'una e l'altra si addensa una piccola folla di curiosi personaggi che tentano invano di allungare una mano per deporre sul tavolo le loro carte e di fare sentire la loro voce.

Non c'è chi non veda che la scena politica italiana è nella maggior parte occupata da quelle ingombranti formazioni che sono un grande partito a base confessionale e due partiti marxisti, che si muovono ancora prevalentemente sul terreno della lotta di classe. E chi ritiene che, di fronte alla realtà, sia meglio darsene una ragione piuttosto che indulgere al gusto della querimonia e della deplorazione, non può non sforzarsi di comprendere la funzione storica di queste grandi formazioni politiche italiane. Ho già detto altrove, e non voglio ripeter cose dette, che questa realtà politica di oggi, nella quale i nostri padri non saprebbero riconoscere il paese ove essi erano nati e vissuti, si spiega con il fallimento del vecchio Stato italiano al suo compito di accogliere nel proprio seno le masse, allargando le proprie strutture e spostando i confini del proprio mondo culturale. Fallimento che fu la causa del fascismo, inteso come tentativo di una classe dirigente di imporre con la forza quel predominio al qua

le essa non aveva saputo dare un titolo di legittimità con l'assolvimento della propria funzione. Per chi muove da queste premesse è facile comprendere che, alla caduta del fascismo, il processo di inserimento delle masse nello Stato doveva essere ripreso da altre forze: che, in una realtà ancora così profondamente classista come la nostra, gran parte delle masse lavoratrici non poteva non essere sensibile ai richiami ideologici e ai metodi di azione del marxismo, nelle sue varie configurazioni.

Ma, fuori di questi due mondi - e prescindendo dalle schiere sempre meno folte e sempre più isolate dalle correnti vive della politica, di quei cittadini che, per un triste retaggio retorico o per la difesa di posizioni di privilegio, proprie o altrui, coltivano ancora i logori miti delle destre - non esiste forse un ampio settore dell'opinione pubblica italiana che ha finora atteso invano una équipe politica capace di interpretarlo e di rappresentarlo? Da anni ci andiamo rivolgendo questa domanda, alla quale non sappiamo dare una risposta negativa.

Esistono indubbiamente ampi ceti di italiani che rimangono estranei alle esperienze politiche del mondo cattolico perché non ne accettano l'ispirazione confessionale e non sono disposi a sopportare le innaturali convivenze che questa impone; o che guardano con diffidenza e preoccupazione al pericolo clericale che in esse è sempre, in modo più o meno scoperto, presente. Atteggiamenti che non ripetono stancamente le posizioni di un superato anticlericalismo, come troppo facilmente si insinua in certi ambienti confessionali, ma che esprimono la sempre valida posizione di un laicismo, oggi arricchito di fermenti che maturano nello stesso mondo cattolico, come dimostrano le discussioni di cui ci giunge l'eco dalla Francia.

Esistono indubbiamente ampi ceti di italiani che, pur essendo sensibili alle esigenze di eguaglianza e di giustizia agitate dai partiti di sinistra e pur essendo spesso sacrificati essi stessi da un sistema socialmente arretrato come il nostro, non hanno una coscienza di classe e non sono quindi partecipi dell'azione politica che ad essa si ispira. Ceti che dilagano oltre i rigidi confini di una classe media, chiusa nei suoi miti e nelle sue consuetudini di vita, perché costituiscono invece una realtà sociale in continuo movimento e in continua trasformazione. Se è vero che in una società moderna il 30% della popolazione è addetto a quelle attività terziarie che nessuno sforzo saprebbe far rientrare nei quadri di una classe lavoratrice il cui nucleo essenziale sia costituito da operai e da contadini, è facile comprendere come stiano scricchiolando gli schemi tradizionali del classismo. E ad accelerare questo processo concorre una certa diffusione del benessere, che si verifica anche nei paesi socialmente più

arretrati, e la tendenza alla reciproca mimetizzazione di classi e di ceti, che le odierne forme di diffusione della cultura - stampa, cinematografo, radio, televisione - stanno favorendo. I partiti classisti fanno ogni sforzo per adeguarsi a questa nuova realtà sociale, tanto che il loro concetto di classe lavoratrice si sta sempre più identificando con quello di popolo, ma le loro ideologie e il loro costume, nati in un determinato ambiente sociale, trovano limiti insuperabili alla loro espansione.

Questo settore della cittadinanza, che comprende la classe media tradizionale, allargata dai contributi che porta con sé lo sviluppo economico del paese e l'imborghesimento di sempre più vasti strati della classe lavoratrice propriamente detta, forniva un terreno sufficientemente ampio a una valida posizione politica.

Perché questa posizione non è stata occupata? Perché, dopo la fine del partito d'azione - la sola formazione politica che, pur fra errori e incertezze, vi si sia avvicinata - non è stato fatto alcun serio tentativo di occuparla. I tre partiti minori, che pure si rivolgevano a quel settore dell'opinione pubblica che è rimasto privo di una rappresentanza, si sono mossi da posizioni che già implicavano una rinuncia. Ciascuno di essi offriva a quello che avrebbe potuto costituire il suo elettorato un abito troppo stretto perché esso lo potesse indossare. Primo fra tutti il partito repubblicano, il quale, nonostante la nobiltà della sua ispirazione, trovava nel suo tradizionalismo un ostacolo a una espansione oltre la cerchia fedele, ma ristretta dei suoi elettori.

Ma lo stesso errore commettevano i liberali, riproponendo motivi di tutela delle libertà giuridiche, mentre si disinteressavano di quei problemi economici e sociali che stanno al centro di una politica moderna. E i socialdemocratici, da parte loro, ostinandosi a vantare un titolo alla rappresentanza della classe lavoratrice, convenzionalmente intesa, e parlando di conseguenza un linguaggio che avrebbe voluto essere ortodossamente marxista, si precludevano fatalmente la possibilità di farsi intendere da quei ceti ai quali soltanto potevano in sostanza rivolgersi.

Da questo sbaglio iniziale di impostazione sono derivati gli errori commessi dai singoli partiti minori e quelli ad essi comuni: l'illusione dei liberali di poter trovare un appoggio, per la difesa delle libere istituzioni, in ceti privilegiati il cui anarchismo egoistico non ha nulla a che fare con il liberalismo; l'errore dei socialdemocratici di inchiodarsi in una vana guerra di concorrenza con i partiti di sinistra, facendosi così sospingere a poco a poco su posizioni reazionarie; il complesso di inferiorità dal quale i partiti minori si sono lasciati dominare e che li ha condotti a perdere la fede in una loro autonoma funzione e a rifugiarsi in una politica di sterile fiancheggiamento della democrazia cristiana.

Chiunque voglia occupare quella posizione vacante non potrà non tener conto di queste esperienze. E dovrà innanzi tutto avere l'ambizione - e le corrispondenti riserve di volontà e di energia - di accingersi a un tentativo di enorme impegno, quale quello di dare una coscienza di sé e una voce unitaria a strati finora rappresentati in modo parziale e frammentario nella vita politica italiana. Tentativo audace, ma il solo forse al quale possano degnamente consacrare i loro sforzi coloro che non hanno trovato, né sono destinati a trovare, pace e possibilità di lavoro nelle grandi organizzazioni di massa che oggi si contendono il campo. Tentativo difficile, ma estremamente meritorio per chi riuscisse a compierlo con successo, perché la presenza di ceti privi di una coscienza della parte che può essere loro riservata nella formazione della democrazia italiana, privi di una adeguata rappresentanza, rende instabile il nostro equilibrio politico e rinnova costantemente il pericolo di avventure di cui il nostro paes

e ha già fatto la triste esperienza.

E, se le difficoltà sono innegabili e gravi, un simile tentativo non può rendersi disperato. E' vero che l'incapacità dei ceti di cui andiamo parlando a esprimere una volontà politica chiara e unitaria non può essere dovuta a difetti di costume e di temperamento ad essi connaturati. Ma è compito dei gruppi politici dirigenti di sforzarsi di superare questi ostacoli, prevalentemente psicologici, quando non manchino le condizioni obiettive di una azione politica. Pesa ancora su una parte di quei ceti il complesso servile che la nostra classe media ha spesso sentito verso le classi privilegiate; essi sono ancora sensibili ai richiami della retorica che talvolta li hanno condotti a farsi strumenti di interessi non propri; non sempre è venuta meno in essi la tendenza a ricercare nelle vane distinzioni formali un compenso alla mediocrità del loro stato e la giustificazione di una pretesa superiorità sui ceti meno fortunati. Ma, di fronte a queste tare, che si stanno d'altronde, sia pure con fatica, superando, vi è

la realtà economica e sociale di ceti che non hanno interessi di conservazione sociale; che sono portati, dalla loro formazione culturale e dal loro temperamento, a rifuggire dalle forme di disciplina collettiva alle quali tendono i partiti di sinistra, ma che sono affamati, come le masse di tutti i paesi, di benessere e di sicurezza, e richiedono imperiosamente una organizzazione politica che sappia soddisfare queste loro esigenze.

Nessun terreno potrebbe essere più adatto per una formazione politica decisa a intraprendere - con le altre forze che possano convergere allo stesso fine - un'opera di riforma che faccia del nostro paese una moderna democrazia, che attui condizioni di maggiore eguaglianza sociale, che offra a tutti i cittadini condizioni decenti di vita e di sviluppo spirituale. Ma, per indirizzare quei ceti verso simili obiettivi occorre non parlare loro il linguaggio molteplice e vario delle cerchie ideologiche esclusive, delle cricche personalistiche, dei circoli intellettuali, dei gruppi di iniziati. Occorre parlare il linguaggio chiaro e semplice di una politica che mira all'essenziale, che tende a unire, non a dividere. E questo linguaggio deve essere espressione di una tremenda volontà: la volontà che si richiede ai riformatori, forse più tesa di quella che è necessaria per predicare le rivoluzioni di un non immediato avvenire. Ma non ci è finora accaduto di udire quel linguaggio, né di avvederci di una siffatta volon

tà.

Saprà il partito radicale occupare la sedia rimasta vuota? O saprà almeno - ed è questo ciò che soltanto si può chiedere - alzare una bandiera intorno alla quale possano raccogliersi coloro che sono disposti a partecipare a un tentativo di colmare questa lacuna dello schieramento politico italiano? L'interesse che può presentare il nuovo partito sta tutto in questa domanda. Se il significato della scissione liberale consistesse soltanto in un caso di coscienza di alcune degne persone, se la formazione del partito radicale significasse soltanto il tentativo di non disperdere la piccola dotazione di voti che ogni gruppo scissionista porta con sé, nessuno che non faccia parte di quella cerchia di persone avrebbe ragione di occuparsene.

Ma non mancano segni che giustificano una più ottimistica risposta. L'avere i liberali di sinistra rinunciato all'aggettivo più caro al loro cuore per designare la loro formazione esprime la saggia volontà di non arenarsi sulle secche della politica frazionistica. La denominazione assunta dal nuovo partito manifesta l'intendimento di rendere possibili le più ampie confluenze, intendimento che trova d'altronde conferma negli inviti con i quali tali confluenze sono state sollecitate. Il resto dipenderà dalle prove che sapranno dare gli uomini che hanno preso questa nuova iniziativa politica e gli altri che ad essi si uniranno.

Ma una prova attende il partito radicale alla prima svolta. E' la prova che qualifica ogni movimento politico, fin dalla sua nascita: quella dei rapporti con gli altri partiti. E, per i radicali, la prova ha due aspetti, egualmente importanti. Essi trovano, nello stesso settore nel quale si propongono di operare, altre formazioni: repubblicani, socialdemocratici, Unità Popolare. I rapporti fra vicini sono talvolta opportuni, talvolta necessari. ma non si lascino attirare i radicali sul terreno di una intesa ispirata al principio della divisione della torta.

Non dimentichino la loro generosa ambizione di coprire, insieme a tutte le altre forze che si vorranno unire ad essi, tutto lo spazio che sta fra la DC e il PSI. Se si faranno invece scivolare in una politica di piccolo partito fra altri piccoli partiti e gruppi, di ripartizione di zone di influenza, le speranze che avranno potuto destare saranno deluse. Il secondo aspetto della prova concerne i rapporti con la DC e con il PSI, con quelli che, se il partito radicale ha le ambizioni che gli abbiamo attribuite, sono i suoi veri confinanti. Il principio che deve ispirare questo secondo ordine di rapporti si riassume in una parola: autonomia. Se i radicali hanno coscienza di una loro autonoma funzione, essi devono trattare con i loro grandi vicini come una forza con altre forze, senza legami e senza pregiudiziali. L'altra via, quella di pesare i pericoli che vengono dalle due parti, di fare una scelta, di accettare deliberatamente il pericolo che appare meno grave per sfuggire a quello che si considera più grave

, è una via che i liberali di sinistra già conoscono. Ed essi - prescindendo dall'esattezza di queste valutazioni - sanno dove conduce.

 
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