La legge che oggi l'Assemblea della Camera dei deputati è chiamata a discutere - conclude la relazione Dosi, che accompagna il disegno di legge sugli idrocarburi - può, a ragione, essere presentata come lo sforzo più sincero e ponderato di dare al Paese un regime adeguato ed efficace sotto tutti i punti di vista, tecnico economico e sociale. Noi condividiamo questo giudizio.di Ernesto Rossi
SOMMARIO: Viene analizzato e discusso il testo della legge sulla ricerca petrolifera in Italia, finalmente giunta alla Camera per l'approvazione. Rossi, in definitiva, mostra di accettarla come una buona legge, nonostante i rilievi e le osservazioni che formula su alcuni suoi aspetti. In particolare, Rossi esamina due punti, e cioè quello relativo alle royalties e quello che contempla alcune facilitazioni fatte all'ENI sulle ricerche e sull'estrazione nella Val Padana. Dopo una serie di osservazioni generali alla relazione dell'on. Dosi, Rossi avanza proposte di miglioramenti che ancora potrebbero essere introdotti nel disegno di legge, durante il dibattito parlamentare.
(IL MONDO, 12 giugno 1956)
Il disegno di legge per regolare la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi nell'Italia continentale è finalmente arrivato alle discussioni in aula alla Camera.
Il testo in discussione non ha più niente a che fare con il disegno di legge (n. 2092) presentato dall'On. Togni l'11 luglio 1951 e ripresentato dall'on. Malvestiti (col n. 346), quasi senza alcuna modificazione, il 17 novembre 1953. Questo disegno è stato, infatti, radicalmente trasformato, nel novembre scorso dagli emendamenti del ministro Cortese (che portò da 24 a 49 gli articoli), e poi rivisto e raggiustato in molti articoli importanti dalla Commissione industria e commercio della Camera.
Il confronto fra l'aborto originario Togni-Malvestiti (fratello siamese della legge siciliana del 20 marzo 1950, approvata in sedici minuti dall'Assemblea regionale) ed il nuovo testo, e specialmente il confronto fra la miserevole relazioncina ministeriale, che accompagnava il primo documento, e la meditata e informatissima relazione Dosi, che accompagna il secondo documento, può farci intendere quanto cammino è stato percorso per arrivare a una soddisfacente soluzione del problema.
E' scandaloso che - nonostante tutti i tecnici abbiano messo in luce quale remora, alla ripresa economica, costituisca la deficienza di energia nel nostro paese - si siano perduti quasi nove anni dal novembre 1947, quando il ministro dell'industria, on.Lombardo, pose per la prima volta il problema allo studio del Consiglio superiore delle miniere. E' vergognoso che, nonostante tutte le chiacchiere sul Piano Vanoni, ad un anno di distanza dalla scoperta del giacimento di Alanno, per mancanza di una legge adeguata sugli idrocarburi, la Petrosud non abbia finora potuto ottenere altro che l'autorizzazione ad estrarre 10.000 tonnellate di greggio, a scopo sperimentale (secondo quanto si legge nella pubblicazione edita dalla Gulf in questi giorni: L'attività della Gulf-Italia e delle sue consociate). Ma chi ha seguito la campagna dei grandi giornali americani, sostenitori del cartello internazionale e conosce le interviste e gli articoli del conte Faina, consigliere delegato della Montecatini, e presidente de
ll'Associazione mineraria italiana, sa quali ostacoli incontrava la regolamentazione giuridica diretta a difendere, in questo delicato settore, gli interessi collettivi contro l'ingordigia dei più potenti gruppi capitalistici italiani e stranieri. Se il disegno di legge sarà approvato dal Parlamento, anche così com'è oggi, senza alcun cambiamento, potremo dire che questi anni non sono passati invano e segnare un punto in favore della democrazia.
Contro tutte le consuetudini parlamentari, l'intervento della X Commissione ha portato notevoli miglioramenti al testo proposto dal ministro. I principali miglioramenti sono
1) una più precisa e razionale formulazione della norma diretta a impedire l'accaparramento dei permessi e delle concessioni attraverso società affiliate o società a catena, solo formalmente indipendenti fra loro (art. 3, comma 2);
2) il raddoppiamento del canone superficiario che il titolare del permesso deve pagare, accrescendo così il ricavato per il Tesoro e sollecitando maggiormente la restituzione delle aree che i permissionari ritengano meno interessanti per loro (artt. 9 e 10);
3) una migliore definizione del "corridoio", o "fascia", adiacente al perimetro di ogni concessione, della larghezza di un Km. da riservare allo Stato (art. 14);
4) il ritorno al semplice metodo della royalty, cioè della partecipazione dello Stato al prodotto lordo delle società concessionarie, rigettando la proposta di una speciale "addizionale mineraria" alla imposta di ricchezza mobile (articolo 22);
5) la abrogazione, per le imprese che svolgono attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi, della esenzione dalla imposta di ricchezza mobile stabilita dal D.L. 14 dicembre 1947, n. 1598, per l'industrie nel Mezzogiorno (art. 23);
6) la destinazione alla Cassa del Mezzogiorno (e non ai comuni nei cui territori vengono estratti agli idrocarburi, come era stato da più parti proposto) di una percentuale delle royalties (art. 24);
7) la esclusione dell'E.N.I. e delle società controllate dall'E.N.I. dalle aste per la aggiudicazione delle concessioni sulle aree restituite allo Stato come "corridoi", e di quelle disponibili in seguito a riduzioni, revoche, decadenze, e scadenze del termine (art.29, comma 2·);
8) la precisa disposizione che l'E.N.I.., fuori della Valle Padana potrà esercitare attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi solo direttamente, o a mezzo di società il cui capitale sia interamente dello Stato o di altri enti pubblici (art. 34);
Riguardo al 5· punto, richiamiamo l'attenzione dei parlamentari nostri amici su un errore che potrebbe avere delle impensate conseguenze. Invece di abrogare semplicemente le agevolazioni fiscali consentite ai fini dell'imposta di ricchezza mobile dal D.L. 14 dicembre 1947, n. 1599, in favore delle industrie nell'Italia meridionale, l' art.23 del disegno di legge cita l'art.10 di tale decreto. L'art. 10 che non parla affatto di agevolazioni fiscali, ma solo dei contributi e delle garanzie dello Stato, andrebbe corretto in articolo 3, in cui si trovano le agevolazioni fiscali: altrimenti esse continuerebbero ad essere concesse anche alle società petrolifere, contro la volontà del legislatore.
"Se la va la va, lire 100" aggiungeva ai conti della trattoria, come niente fosse, il cameriere disinvolto...
Ci soffermeremo un poco soltanto sui punti 4 e 8, che riteniamo di maggiore importanza.
In un articolo sul Mondo del 20 dicembre abbiamo già spiegato perché eravamo contrari ad attribuire allo Stato il 60% dell'utile netto delle società petrolifere ed al sistema proposto dall'on. Cortese per realizzare tale prelievo.
Ora dobbiamo dire che non riusciamo a capire per quali ragioni la scala della royalty debba essere commisurata alla produzione per pozzo, invece che alla produzione per concessione. Questo sistema è adottato anche nel Canada; ma ci sembra che costituisca uno stimolo a perforare più pozzi ed a fare fori di minore diametro di quello che sarebbe suggerito dalla migliore tecnica, per pagare le aliquote più basse. Se ciò avviene, ne deriva uno spreco di capitali ed un minor ricavo per il Tesoro. Prima di legiferare su questo punto sarebbe, perciò, conveniente sentire il parere dei tecnici.
Le aliquote della royalty stabilite dalla X Commissione vanno dal 3,50% per la produzione inferiore alle quattro tonnellate giorno a qualcosa più del 22% per la produzione superiore alle 256 tonnellate giorno.
Ma una produzione superiore alle 256 tonnellate giorno è una produzione per noi completamente fantastica. La produzione media nella concessione della Gulf a Ragusa è di circa 900 barili (cioè 115 tonnellate) al giorno e si tratta di una produzione eccezionale, del primo periodo di coltivazione. Secondo i dati riportati nella stessa relazione Dosi, la produzione annua media per pozzo in attività è di sole 600 tonnellate negli Stati Uniti, di 2000 tonnellate nel Canada, e di 7000 nell'America Latina. Nel Canada la scala si ferma a 521,5 tonnellate-mese, cioè 17,38 tonnellate-giorno). Al di sopra di questa quantità l'aliquota resta costante del 16 e 2/3 per cento. Allo stesso gradino potremmo fermarci anche noi.
Se facciamo il confronto tra le royalties canadesi e le royalties approvate dalla X Commissione (confronto reso molto difficile nella relazione perché l'on. Dosi ha portato nella tabella M dei dati non omogenei con quelli della tabella O) troviamo che le aliquote italiane, nella parte della scala che ha un vero significato pratico, sono di gran lunga inferiori a quelle canadesi. Così, ad esempio, ad una produzione giornaliera di 4 tonnellate per pozzo corrisponderebbe in Italia una aliquota del 2,5 per cento, contro l'8,2 per cento nel Canada; ad una produzione di 8 tonnellate corrisponderebbe in Italia un'aliquota del 3,75 per centro contro il 12,76 per cento nel Canada; ad una produzione di 16 tonnellate (che è già la produzione di un buon pozzo) corrisponderebbe in Italia una aliquota dell'8,87 per cento contro il 16,38 per cento nel Canada; ad una produzione di 32 tonnellate corrisponderebbe in Italia un'aliquota del 12,44 per cento contro il 16,67 per cento nel Canada. L'aliquota della scala italia
na raggiungerebbe l'aliquota della scala canadese soltanto a 91,7 tonnellate-giorno, che possiamo considerare una quantità superiore alla prevedibile produzione normale nel nostro Paese.
Per le ragioni esposte sul Mondo del 20 dicembre scorso noi non saremmo contrari a royalties anche più basse di quelle esistenti negli altri Paesi, ma non riusciamo a capire perché dovremmo discostarci di tanto dalla scala canadese, e specialmente non vorremmo che, dopo avere accettate delle aliquote che risulterebbero anche inferiori alla metà delle royalties canadesi, ancora si dicesse - come dice l'on. Dosi - che "si tratta pur sempre, in confronto dei ricordati esempi di altri paesi, di incidenza rilevante, com'è stato fatto rilevare da alcuni commissari nel corso dei lavori, che hanno espresso la loro disapprovazione sulla eccessiva onerosità della soluzione proposta".
La scala proposta dalla X Commissione può sembrare troppo onerosa per i concessionari solo a chi riterrebbe troppo severo un sistema di pene contro gli eccessi di velocità sulle strade italiane che facesse pagare una contravvenzione di 10 lire a chi va dai 90 ai 120 Km. l'ora, 50 lire a chi va dai 120 ai 150 Km., e comminasse l'ergastolo a chi corre a velocità superiore a 150 e inferiore a 1000 Km., e la pena di morte a chi supera i mille.
La dimostrazione data dall'on. Dosi, secondo la quale, aggiungendo alle royalties proposte dalla X Commissione tutte le imposte sul profitto e sul capitale, "si può giungere normalmente a una percentuale di prelievo a favore dello Stato di molto maggiore della teorica divisione paritetica stabilita dagli usi internazionali, e in molti casi superiori anche alla divisione 60-40", serve solo a portarci fuori strada, perché prende per base del ragionamento le più alte aliquote della royalties (che non verrebbero mai applicate), parte da ipotesi completamente arbitrarie sui costi di produzione, e non tiene conto di come viene di fatto calcolato in Italia il reddito imponibile ai fini tributari.
Quando si fa il controllo fra la legislazione fiscale americana e quella italiana, dobbiamo star bene attenti a non scambiare le apparenze con la realtà. E per questo raccomandiamo ai nostri legislatori di correggere le affermazioni dell'on. Dosi sull'argomento con quello che scrive Paolo Sylos Labini nell'ottimo studio "Sul finanziamento dell'industria petrolifera" nella rivista Bancaria di aprile.
E' vero che la legislazione fiscale americana ammette la detrazione dal reddito delle spese cosiddette "intangibles", cioè delle spese sostenute per l'esplorazione geologica e geofisica e per l'impianto dei pozzi (che generalmente rappresentano il 70-75% del costo complessivo dei pozzi); ma - scrive Sylos Labini - "l'autorità tributaria italiana, avvalendosi dei poteri discrezionali che la legge sull'imposta di ricchezza mobile le concede, già permette alle imprese minerarie di detrarre in conto reddito (e non semplicemente in conto capitale) tutte le spese di ricerca".
Ed è anche vero che la legislazione fiscale americana, considerando che i giacimenti durano un periodo limitato di tempo, tratta la produzione del petrolio come un consumo di capitale, piuttosto che come un reddito industriale, e perciò ammette la detrazione di una Depletion Allowance (abbuono per l'esaurimento) del 27,5% del reddito lordo (fino ad un massimo del 5% del reddito netto). Ma - come scrive ancora Sylos Labini - la nostra amministrazione consente ammortamenti degli impianti fissi delle miniere in un periodo (quattro-cinque anni) molto più breve di quello consentito dalle leggi americane.
D'altra parte, anche se negli Stati Uniti viene fatto un trattamento di speciale favore ai redditi provenienti dalle coltivazioni petrolifere, facendo il confronto, dobbiamo tener presente che in Italia tutte le imposte dirette (erariali e locali) assorbono non più del 35-37% del reddito netto delle società, mentre negli Stati Uniti la sola Income-Tax supera il 50%. In conseguenza della agevolazione relativa alle spese "intangibles" e della "Depletion Allowance", questa imposta federale per le società petrolifere si riduce al 25-27%, ma ad essa si aggiungono i tributi statali e locali, che possono rappresentare un altro 15-20%.
Per queste considerazioni e ricordando le agevolazioni relative all'imposta sul capitale dell'Italia meridionale (agevolazioni che rimarrebbero anche quando fosse soppressa, come ho detto sopra, la esenzione dalla imposta R.M.) dovremmo riconoscere che la pressione fiscale sulle società minerarie è in Italia una delle più blande del mondo.
Anche nel campo fiscale applichiamo, cioè, il metodo del "pugno di velluto in guanto di ferro". E così diamo alla stampa americana, sostenitrice degli interessi del cartello internazionale, il pretesto per continuare ad inveire contro il governo italiano perché perseguita le iniziative private...
Sarebbe molto meglio abbandonare la progressività spaventapasseri della royalty per i più elevati scaglioni e riconoscere chiaramente nella legge le agevolazioni e le esenzioni che la nostra amministrazione già per suo conto consente alle società minerarie: non spaventeremmo le società straniere relativamente piccole (ché le grosse conoscono certo meglio di noi come stanno le cose) e susciteremmo una più viva concorrenza tra gli interessati ad ottenere i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione, con vantaggio del Tesoro e dell'economia nazionale.
Sul punto 8 siamo invece perfettamente d'accordo con la X Commissione.
Una volta rifiutato l'assurdo principio (continuamente riaffermato dall'Associazione Mineraria Italiana e dalle società del cartello internazionale) che l'E.N.I., ente statale, dovrebbe esser messo in una posizione di perfetta eguaglianza con le società private per lo sfruttamento delle risorse petrolifere, di proprietà dello Stato; dopo aver giustamente posto l'ENI in una posizione di particolare vantaggio rispetto alle società private (escludendolo dai limiti territoriali per i permessi e le concessioni, consentendo di affidargli delle concessioni senza gare nelle aree delle "fascie", attribuendogli il diritto ad ottenere le concessioni nei territori non aggiudicati nelle gare, ecc. ecc.) non era possibile far godere questi benefici anche ai gruppi capitalistici che si fossero associati all'ENI con partecipazioni azionarie. Altrimenti l'ENI avrebbe fatto da copertura agli interessi particolare e sarebbe stato fatalmente condotto ad adattare la politica monopolistica, che consente ai privati di rendere
massimi i profitti a danno della collettività. L'ENI sarebbe allora riuscito ad ottenere molto più facilmente i finanziamenti sul libero mercato, ma avrebbe rinnegate le sue specifiche funzioni generali, così come l'hanno rinnegate le società elettriche dell'IRI e molte altre società a partecipazione mista (Stato-privati).
Il testo proposto negli emendamenti del ministro Cortese su questo punto non soddisfaceva, in quanto consentiva di dare permessi o concessioni all'ENI, "ed alle società controllate dall'Ente stesso a termine dell'art. 3, 1· capoverso della legge 10 febbraio 1953, numero 136"; e questo capoverso non permette esplicitamente all'ENI le partecipazioni miste nella Valle Padana, ma dice che il capitale delle società controllate dall'ENI "può essere anche sottoscritto dallo Stato, dagli enti parastatali, e da società con capitale interamente posseduto dagli enti sopraelencati". Quella parolina "anche" (che fa logicamente a pugni con l'avverbio "interamente"), venne fatta abilmente sdrucciolare nell'articolo 3, senza che nessuno se ne accorgesse, per aprire uno spiraglio in cui la Montecatini potesse introdurre il pie' di porco per entrare anche nella Valle Padana, nonostante la esclusiva assicurata all'ENI. Infatti, essa permette di interpretare quel capoverso nel senso che il capitale delle società, attravers
o le quali l'ENI agisce nella Valle Padana, può essere sottoscritto, oltre che da società completamente di enti pubblici, anche da società private.
La formulazione attuale, proposta dalla X Commissione, esclude qualsiasi incertezza di interpretazione, tracciando una netta linea di distinzione tra l'attività dell'ente pubblico e l'attività delle società private.
"La maggioranza della Commissione - scrive l'on. Dosi - ha convenuto che, permettendo all'ENI di operare con società miste, si sarebbe fatto partecipe il capitale privato dei particolari vantaggi accordati all'ENI in relazione alla natura pubblica della sua struttura e delle funzioni ad esso affidate. Tale soluzione sarebbe risultata in contrasto con lo spirito della legge, che non deve certamente risolvere il problema di creare al capitale privato proficue occasioni di investimento attraverso il controllo di pacchetti azionari di società miste, gravitanti di fatto nell'ambito di organizzazioni statali efficienti ed attrezzate. Importante è invece indurre e stimolare l'iniziativa del capitale privato ad impegnarsi direttamente con proprie organizzazioni tecniche, modernamente concepite, che concorrono a creare quell'ambiente di "molteplicità" di iniziative e di metodi di ricerca, che è caratteristica fondamentale del sistema di concorrenza che si vuole realizzare, e garanzia della eliminazione di posizi
oni ingiustificate di preferenza e di parassitismo".
Questi principi hanno - secondo noi - un significato che trascende il caso particolare, pure importantissimo, della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi, perché apre la strada ad una revisione di tutto il sistema, malauguratamente tanto diffuso in Italia, delle società miste per la gestione delle industrie controllate dallo Stato. Se questi principi valgono per le società dell'ENI, devono pure valere per le società dell'IRI, del Demanio, del Tesoro e degli altri ministeri.
Come abbiamo detto, la relazione dell'on. Dosi merita lode per la ricchezza delle informazioni e per l'esame intelligente e ordinato dei diversi problemi. Ma avremmo desiderato una maggiore obiettività.
L'on. Dosi non ha scritto neppure un rigo per far capire cosa è il cartello internazionale del petrolio, e quali sarebbero le conseguenze del predominio di questo cartello nel nostro Paese.
Egli non ci ha detto nulla sui colossali e clamorosi processi celebrati dai tribunali americani contro le maggiori società petrolifere per violazioni delle leggi anti-trust.
"Nel mercato interno degli Stati Uniti - ha scritto - i cinque gruppi, facenti capo alle società Standard Oil Company of New Jersey, Gulf Oil Corporation. The Texas Company, Standard Oil of California, Socony Vacuum Company, mantengono al momento attuale una posizione di importanza, ma non di preminenza, in concorrenza con decine di migliaia di piccoli e medi ricercatori e produttori indipendenti".
Ma non ha spiegato che la molteplicità dei produttori di grezzo non assicura un regime di concorrenza neppure sul mercato americano perché quei cinque "grossi" dominano i produttori indipendenti attraverso il controllo delle raffinerie e perché tutta la produzione e l'importazione è severamente controllata dalle pubbliche autorità.
L'on. Dosi non ha citato il rapporto sul cartello internazionale del petrolio presentato il 22 agosto 1952 al senato americano ed ha soltanto "segnalato" in poche righe il rapporto dell'ECE presentato a Ginevra, nel marzo del 1955, sui prezzi dei prodotti petroliferi nell'Europa Occidentale: non ha riferito quello che tale rapporto dice sullo sfruttamento del mercato europeo da parte delle "sette sorelle"; sul collegamento ai prezzi americani dei prezzi del grezzo importato in Europa dal Medio Oriente, dove è prodotto a costi enormemente inferiori; sulla distorsione causata alle economie dei paesi europei dalla pratica dei noli uniformi indipendentemente dalla effettiva spesa dei trasporti; sulle leve di comando che il cartello si è assicurato sul nostro continente attraverso il controllo delle raffinerie, ecc.ecc.
L'on. Dosi non ha neppure tratto alcuna conseguenza dalle cifre riportate nella tabella A, dalla quale risulta che nel 1955 l'America anglosassone, con riserve accertate di 4.311 milioni di tonnellate, ha prodotto 350 milioni di tonnellate di grezzo (l'8,12 per cento) e l'America Latina, con riserve accertate di 2.243 milioni di tonnellate, ha prodotto 141 milioni di tonnellate ( il 6,26 per cento), mentre il Medio Oriente, con riserve accertate di 17.001 milioni di tonnellate, ha prodotto solo 162 milioni di tonnellate (lo 0,95 per cento). Bastano questi rapporti per dimostrare le conseguenze dell'assoggettamento dei paesi del Medio Oriente al cartello internazionale.
E' questa - secondo noi - la più grave lacuna della relazione Dosi, perché la maggior parte delle disposizioni del disegno di legge in essa illustrate sono dirette a fronteggiare i pericoli di una politica monopolistica; se non esistesse un tale pericolo, si potrebbe rimproverare alla X Commissione di avere progettato degli argini simili a quelli dell'Adige per contenere le acque di un innocuo rigagnolo.
Facendo la storia della nostra legislazione sugli idrocarburi l'on. Dosi non ha ricordato che la Standard chiese nel 1946 l'esclusiva sull'intera Valle Padana; non ha criticato la ripartizione della Valle Padana fra le società private, proposta dal Consiglio superiore delle miniere, nel 1948, dopo le prime promettenti scoperte dell'E.N.I.; ha nascosto le maggiori bestialità suggerite contro l'interesse dello Stato dal Consiglio superiore delle miniere nel disegno di legge presentato al Consiglio dei ministri nell'aprile del 1949; ha lodato la legge siciliana del 20 marzo 1950, senza dire niente sull'accaparramento dei permessi e delle concessioni che tale legge ha consentito e sui risultati della sua disposizione che assicura al ricercatore fortunato la concessione dell'intero giacimento scoperto.
Inoltre l'on. Dosi "sollecita dolcemente" i dati, in favore delle sue tesi, quando (a pagg.11) confronta la produzione nazionale all'importazione complessiva del greggio, invece che al consumo interno, per farla apparire più trascurabile di quanto non sia (ed accentua tale trascurabilità con un errore di virgola, che riduce l'1,2% nello 0,12%); quando riporta (a pag. 18) un costo medio per pozzo di esplorazione di 100-150 mila lire per metro lineare (mentre è oggi, in Italia, di circa 40.000 lire, come riconosce anche il prof. Loftus nello studio sottocitato) per fare apparire più difficile di quanto realmente non sia il problema del finanziamento; quando riporta in una tabella (a pag. 20) il numero dei pozzi esplorativi dell'E.N.I. (nel 1954: 17 sterili contro 13 produttivi) senza riportare i corrispondenti dati dei pozzi di coltivazione dell'E.N.I. (nel 1954: 21 sterili contro 48 produttivi) per far apparire più grave il rischio della ricerca; e, infine, quando trascura parlando delle leggi canadesi (
a pag. 52) una disposizione molto importante: nel Canada il permissionario, una volta trovato il petrolio, deve presentare domanda per la concessione entro tre mesi dalla scoperta, e finché non l'abbia presentata non può iniziare altre perforazioni in un raggio di 4,5 miglia dal pozzo della scoperta.
Il progetto Cortese stabiliva che il permissionario dovesse, pena la decadenza, presentare la domanda di concessione entro un mese dal ritrovamento degli idrocarburi. La X Commissione ha aumentato tale termine a 120 giorni; ma l'on. Dosi non lo ritiene ancora sufficiente "per permettere al permissionario di ragionevolmente precisare l'entità della scoperta effettuata e quindi di valutare la configurazione più opportuna dell'area di richiesta in concessione". Egli afferma che "la maggior parte delle legislazioni estere prevede al riguardo termini molto più ampi"; ma non ci dice che la legislazione canadese, sulla quale è stato ricalcato il nostro disegno di legge, fa al ricercatore delle condizioni ancora più sfavorevoli delle condizioni proposte dall'on. Cortese, in quanto gli vieta, dopo la scoperta, qualsiasi perforazione, fino a che non abbia presentato domanda di concessione.
Per ultimo, vogliamo accennare ad alcuni punti in cui il disegno di legge potrebbe, secondo noi, essere ancora migliorato durante la discussione in aula:
1) la X Commissione ha soppresso il 2· comma dell'art.2 del progetto Cortese, in cui veniva stabilito che il progetto tecnico e finanziario per ottenere il permesso di ricerca avrebbe dovuto indicare anche la spesa minima che sarebbe stata sostenuta per l'esecuzione dei lavori. Tale disposizione, che si ritrova in molte legislazioni straniere, dovrebbe essere rimessa al suo posto, perché rende più efficace il controllo sull'attività dei ricercatori.
2) Invece di dare al Ministro dell'Industria la facoltà di imporre ai concessionari l'adozione di un bilancio-tipo (art. 25), tale bilancio dovrebbe essere tassativamente prescritto per ogni concessione.
3) Non si dovrebbe lasciare alla pubblica amministrazione il potere di concedere o non concedere all'E.N.I. le aree nelle "fasce" tutt'intorno alle concessioni. Nel caso di Ministri troppo favorevoli all'E.N.I., un tale potere arbitrario potrebbe frustrare completamente la norma che obbliga anche l'E.N.I. a restituire la fascia attorno alle sue concessioni, perché queste fascie potrebbero essergli tutte ridate senza alcun limite territoriale. Nel caso di ministri troppo contrari all'E.N.I., questo Ente non sarebbe in alcun modo compensato del divieto che gli viene fatto di partecipare alle aste, e verrebbe a mancare la possibilità del confronto fra la gestione pubblica e la gestione privata negli stessi giacimenti. D'altra parte, sembra conveniente stabilire fin dall'inizio qual'è il campo di azione riservato ai privati, e quale il campo riservato all'ente pubblico, in modo da evitare l'arraffa-arraffa dall'una e dall'altra parte. La cosa migliore sarebbe, perciò, di disporre che, prima di mettere in g
ara le concessioni sulle aree delle fascie, una quota (ad esempio un quarto) dovesse sempre andare all'E.N.I., a sua scelta.
4) Nell'attuale progetto manca ogni norma relativa alla costruzione degli oleodotti e dei gasdotti. In attesa che tale materia venga opportunamente disciplinata ad una apposita legge, occorrerebbe dare al concessionario il diritto di costruire una conduttura fino al prossimo porto di imbarco e alla prossima stazione ferroviaria, dichiarando di pubblica attività le opere necessarie a tale costruzione.
5) Qualunque legge vale quanto valgono gli organi che sono incaricati di farla eseguire: è quindi di enorme importanza che venga subito costituito un commissariato o una intendenza, indipendente dai ministeri e dotata dei necessari poteri di decisione, che possa divenire un organo veramente efficiente di consulenza e di controllo nel campo degli idrocarburi. Il comitato tecnico previsto dall'art. 41 non sarebbe che una nuova edizione peggiorata del consiglio superiore delle miniere (al quale si sostituirebbe), perché sarebbe un ufficio del ministero dell'industria, composto in maggioranza di burocrati di carriera.
In un articolo sulla Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali, il prof. Loftus, a questo proposito, ha giustamente osservato:
"Un attento esame della costituzione del comitato proposto mostra che 9 dei suoi 13 membri sono funzionari del governo e membri di diritto del comitato: perciò essi possono dedicare solo una parte, presumibilmente piccola, del loro tempo ai difficili problemi che il comitato dovrebbe esaminare e su cui dovrebbe esprimere il proprio consiglio. Degli altri 4 uno deve essere professore di geologia (e perciò è presumibile che abbia altre responsabilità e interessi propri): uno è presidente (che non sembra avere necessariamente alcun'altra funzione, e perciò potrebbe essere il solo membro che gli dedicasse tutto il suo tempo), e 2 sono descritti come "esperti" senza specificare se devono dedicare tutto il loro tempo e le loro energie ai problemi del comitato o se devono invece essere assimilati ai due "esperti" aggiunti, che partecipano al comitato solo per l'esame di casi specialissimi e particolari.
E' un buon principio di pubblica amministrazione non domandare l'assolvimento di funzioni delle quali l'esperienza non abbia dimostrato che si possono effettivamente assolvere".
Siamo, su questo punto, completamente d'accordo col prof. Loftus.