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Rossi Ernesto - 17 settembre 1957
Salvemini, il non conformista
di Ernesto Rossi

SOMMARIO: Ernesto Rossi e con lui Carlo e Nello Rosselli, ebbero dall'insegnamento di Salvemini la rivelazione dei valori ai quali dedicarono tutta la loro vita. Si trattò del singolare incontro di intelligenze e di caratteri particolarmente inclini a completarsi. I loro rapporti, le loro corrispondenze, i loro propositi e le loro realizzazioni appartengono alla storia recente della nostra civiltà e rappresentano in modo esemplare la parte migliore dell'Italia che ancora oggi non è uscita dall'ombra in cui l'ha posta una prassi politica che spesso è l'opposto di quel che essi speravano di veder realizzato.

Tanto negli scritti di Salvemini che in quelli di Rossi è molto frequente il ricordo del loro sodalizio che si protrasse inalterato e fruttuoso dal 1919 alla morte di Salvemini.

Fu un incontro avvenuto sotto il segno di comuni origini risalenti all'illuminismo e all'empirismo, alla tradizione democratica risorgimentale e particolarmente a Cattaneo (che non a caso fu ricordato da Salvemini morente e che Rossi gli accostò in uno degli ultimi colloqui). Sotto l'influsso di tali fattori e sempre stimolato dal dialogo con Salvemini, Rossi si andò volgendo dall'iniziale liberismo verso posizioni più vicine ad un socialismo aperto.

Alla morte di Salvemini apparve chiaro che Rossi e soltanto Rossi aveva la forza la preparazione, la vena polemica, l'arguzia la ripugnanza ad ogni forma di fanatismo che erano necessarie per assumere la pesante eredità spirituale di quel grande uomo e della splendida tradizione che egli aveva impersonato. Rossi lo dimostrò compiutamente denunciando senza mezze misure il malcostume, i privilegi, le ingerenze indebite nel governo della cosa pubblica, il cattivo funzionamento di uno stato le cui strutture erano passate indenni attraverso il fascismo.

Il problemismo salveminiano, erede diretto del metodo di Cattaneo, ugualmente distante da atteggiamenti di segno idealistico come da altri di ascendenza irrazionalistica, trovò in Rossi un naturale continuatore e una storia d'Italia diversa da quella corrente, più rispettosa del vero ed emancipata da quelle che Salvemini chiamò »fabbriche del buio , dovrebbe riconsiderare con maggiore attenzione ciò che sono stati e hanno fatto questi due uomini.

Questo scritto conferma il vigore eccezionale, la limpidità e l'efficacia della prosa di Rossi e ci rammenta il debito che molti hanno nei suoi confronti.

(IL MONDO, 17 settembre 1957, ripubblicato da QUADERNI RADICALI, n. 11/12, gennaio-giugno 1981)

Quando dopo vent'anni di esilio Salvemini tornò fra noi nel luglio del 1947, premisi all'articolo (1), in cui gli davo il benvenuto, le parole di Alcibiade su Socrate, nel Convito:

»Egli è somigliantissimo a quei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, che gli artisti atteggiano con zampogne o flauti, e se tu l'apri, dentro vedi i simulacri degli dei .

Questo passo mi viene di nuovo in mente, ora che Salvemini ci ha lasciati (2).

Salvemini come Socrate somigliava a un vecchio sileno:

cranio grande, modellato con vigore, fronte ampia, resa più vasta dalle calvizie; occhi piccoli, in cui si leggeva la bontà e l'intelligenza; naso camuso; zigomi pronunciati; bocca ampia, che nel sorriso scopriva una gran chiostra di denti sopra la barba a punta; spalle larghe; figura tozza; passo pesante.

Un uomo che veniva dai campi non dai salotti letterari.

E come Socrate, chi l'apriva trovava dentro i più preziosi degli dei (3).

Con l'aiuto di una memoria prodigiosa e sul fondamento di una vastissima cultura umanistica - di cui aveva fatto midollo delle sue ossa e sangue del suo sangue - Salvemini afferrava con straordinaria prontezza i rapporti fra le idee più lontane e ne deduceva le conseguenze implicite con un rigore logico che non lasciava alcuna incrinatura all'equivoco.

Chiarezza equivaleva veramente per lui a onestà. Si dava sempre cura di mettere bene in luce i primi principi, i presupposti non logici, dei suoi ragionamenti. L'interlocutore li poteva anche rifiutare, dichiarando una diversa scala di valori. Salvemini era l'uomo più tollerante del mondo: ammetteva che altri guardassero gli avvenimenti da punti di vista anche opposti ai suoi. Ma non discuteva per il gusto di chiacchierare; discuteva per convincere, o per essere convinto, e sapeva che non è possibile intenderci se non si parla lo stesso linguaggio. A chi rifiutava le premesse del suo ragionamento chiedeva solo di prender coscienza di quel che significava tale rifiuto, e di trarne le conseguenze fin in fondo, conformando l'azione al suo pensiero. (L'ateismo di Salvemini, ad esempio, non gli impediva di avere il più grande rispetto per le persone religiose, ma, per essere religioso, bisognava dimostrarlo con tutta la vita; non solo biascicare giaculatorie in chiesa).

Se il suo interlocutore accettava - anche solo come ipotesi provvisoria, come strumento di lavoro - di agganciare il primo anello dei sillogismi al suo medesimo arpione, era condotto alle sue conclusioni, dalla medesima necessità che porta chi accetta i postulati della geometria euclidea a consentire a tutti i teoremi che vengono da essi dedotti.

L'insegnamento di Salvemini non era mai dogmatico: sua preoccupazione era quella di formare lo spirito critico più che di accrescere le cognizioni nei cervelli dei discepoli. Voleva, come Socrate, essere solo l'ostetrico, che aiuta a mettere alla luce la verità: la verità che ognuno porta dentro di sé.

Parlando con un giovane, non profittava mai della sua superiorità per chiudergli la bocca; cercava, invece, di trovare nei suoi discorsi quel che c'era di buono, da prendere sul serio.

- Tu hai voluto dir questo, non è vero? - domandava. Ed anche nella melma delle idee più confuse riusciva sempre a setacciare qualche pagliuzza d'oro. Il giovane riconosceva che quella pagliuzza era d'oro. Il giovane riconosceva che quella pagliuzza era sua, ed acquistava fiducia in se stesso. A poco a poco imparava a non accogliere nessuna affermazione, venisse dal Padreterno, senza sottoporla al vaglio della propria ragione; imparava a domandarsi a cosa servono le consuetudini e le istituzioni esistenti, anche le più venerande; imparava a battere con le nocche sull'intonaco delle parole per sentire quel che c'è dietro: il gesso, la pietra viva o il vuoto; imparava ad impostare i problemi nei loro giusti termini, senza lasciarsi deviare dalla passione; imparava a definire il significato dei vocaboli e a tenerlo fermo fino in fondo al discorso; imparava a non vergognarsi di ripetere mille volte che non capiva, anche quando tutti assicuravano di aver capito. Imparava ad essere non conformista.

Anche Salvemini sapeva che non è possibile fare completamente a meno delle parole astratte e delle teorie generali; ma cercava di ridurre il più possibile il loro campo di applicazione. Non poteva sopportare i fabbricatori di sistemi, che volteggiano sul trapezio degli »universali , convinti di dire cose tanto più profonde quanto più riescono incomprensibili al volgo profano (4). Il prototipo di questi »filosofi era, per lui, Giovanni Gentile.

»Il suo cervello è come un filtro alla rovescia - ho trovato i suoi vecchi appunti-. Se ci versate dentro delle idee chiare ne escono torbide. Se ponete a Gentile una domanda e lui vi risponde, non riuscite più neppure a capire la vostra domanda .

Invece di presentare il Popolo, il Progresso, la Democrazia, la Rivoluzione come protagonisti della Storia, Salvemini cercava di capire che cosa avevano pensato, che cosa avevano voluto, i singoli personaggi: Tizio, Caio, Sempronio, figli di quei dati genitori, allevati in quel dato ambiente, che esercitavano quel dato mestiere. Piuttosto che parlare della Libertà con la »L maiuscola, valida in tutti i tempi e in tutto il mondo, preferiva parlare delle singole libertà: la libertà di stampa, la libertà di associazione, la libertà di sciopero, in tale anno, in tale paese. Non contrapponeva mai il proletariato in blocco alla borghesia in blocco. Distingueva la borghesia in gruppi, a seconda della diversità degli interessi, della potenza, della funzione sociale. E, contro la concezione mitica della »unità del proletariato , rilevava che i lavoratori settentrionali hanno interessi contrari a quelli dei lavoratori meridionali; i lavoratori delle campagne hanno interessi contrari a quelli dei lavoratori delle cit

tà; gli operai delle grandi industrie parassitarie hanno interessi contrari a quelli degli operai che vivono fuori della zona del privilegio, e fanno anche causa comune con gli imprenditori e i capitalisti delle industrie in cui sono occupati, per meglio sfruttare la popolazione rimanente (5).

Alle teorie generali, ai »sistemi , preferiva lo studio dei problemi concreti, definiti in modo da poterli bene afferrare in tutti i particolari: suffragio universale, tariffa doganale, perequazione tributaria, edilizia scolastica, indipendenza della magistratura.

Quando l'anno scorso, tenemmo a Roma un convegno (6) degli »amici del Mondo sul problema della scuola, criticò l'ampiezza eccessiva del tema. Sarebbe stato meglio se avessimo messo in discussione la scelta degli insegnanti, oppure l'ordinamento degli esami, oppure il controllo sulle scuole private. Discutere sulla riforma della scuola in genere era come discutere sulla riforma sociale. Chi troppo abbraccia niente stringe.

Il fatto poi che persone di diversa provenienza arrivassero alle stesse conclusioni richiamandosi a teorie positivistiche o a teorie idealistiche, al liberismo o al socialismo, al cristianesimo o al laicismo, aveva per lui scarsa importanza. Importante era che si mettessero d'accordo su soluzioni pratiche da valere per qualche anno su particolari problemi concreti.

Nei primi tempi della nostra amicizia, discutendo sul socialismo, un giorno gli dichiarai che non avrei mai potuto entrare nel partito socialista perché ritenevo infondata la teoria del plusvalore, sulla quale Carlo Marx aveva costruito tutto il suo sistema.

- E che te ne importa del sistema? - replicò Salvemini. - Guarda se le camere del lavoro, le cooperative, i deputati socialisti hanno fatto e possono fare ancora qualcosa per migliorare le condizioni di vita della povera gente. Giudicalo su questo il socialismo; non sulle ideologie. Il Capitale l'hanno letto in Italia qualche diecina di persone e ben pochi l'hanno capito, anche se migliaia di socialisti giurano nel verbo »scientifico di Marx (7).

Al suo rientro in patria dagli Stati Uniti, in un diario in cui ogni sera riassumeva le conversazioni avute durante il giorno, per informarsi sulla situazione politica italiana, in data 5 agosto 1947, annotava:

»Si è discusso di socialismo, marxismo e generi simili. Io ho detto francamente che ormai credo solo in Critone di Platone e nel Discorso della Montagna. Questo è il mio socialismo, e me lo tengo inespresso nel mio pensiero, perché a esprimerlo mi pare di profanarlo. Cerco di esprimerlo meglio che posso nelle opere. Affrontare problemi concreti immediati, seguendo le direttive di marcia dettate dalla morale cristiana, e non perdere tempo in disquisizioni teoriche su che cosa è, che cosa dovrebbe essere, che cosa sarà la democrazia, il marxismo, il socialismo, l'anarchia, il liberalismo, che se ne vadano tutti quanti a casa del diavolo. Perdere il tempo a pestare l'acqua nel mortaio delle astrazioni è vigliaccheria; è evadere ai doveri dell'azione immediata; è rendersi complici della conservazione dello statu quo .

Nell'Italia dell'»elmo di Scipio e dell'»arma la prora e salpa verso il mondo , un rompiscatole come Salvemini, che opponeva alle sagre le statistiche e voleva che gli scarsi mezzi disponibili, invece che alle eroiche avventure, servissero a costruire strade, acquedotti, fogne, case popolari, a combattere l'analfabetismo, ad aiutare gli ultimi strati della popolazione a sollevarsi dalle loro condizioni di vita bestiale un rompiscatole che dimostrava, con dati inoppugnabili, che la Libia non era una terra promessa, quale era decantata dai giornali dei siderurgici e degli affaristi del Banco di Roma, ma uno »scatolone di sabbia , in cui non avrebbe potuto trovar lavoro la nostra mano d'opera esuberante (8); un rompiscatole che, sulla sua "Unità" (9), spiegava che l'annessione della Dalmazia, richiesta dai generali dello Stato Maggiore per accrescere gli organici, avrebbero reso molto più costosa e difficile la difesa del territorio nazionale... era necessariamente un »rinunciatario anzi il »rinunciatario

per antonomasia.

La impopolarità che Salvemini raggiunse in certi momenti - specie negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale - credo che non sia mai stata raggiunta da nessun altro uomo politico italiano.

La prima volta che notai per la strada la sua strana figura (indossava allora un »pipistrello nero, passato da parecchi anni di moda, che neppure i fiaccherai portavano più, e il cappellino a pan di zucchero dei contadini pugliesi) fu nel 1919, mentre mi trovavo in tranvai; un energumeno si sporse tutto dallo sportello della piattaforma per urlargli in faccia l'insulto: »Rinunciatario! .

Con questo titolo Salvemini è stato conosciuto da tutta una generazione di »patrioti ; anche da quelli che non avevano mai letto il suo nome su "Magnati e popolani in Firenze" (10) e sulla "Storia della rivoluzione francese" (11).

Nonostante la severità dei suoi principi morali, che non ammettevano compromessi di alcun genere a vantaggio del suo »particulare e ben poco spazio lasciavano al riposo ed agli svaghi, Salvemini era un compagno socievole, allegro, sempre pronto alla battuta scherzosa. Rideva di tutto cuore, come un bambino, quando gli raccontavano una buona barzelletta.

Fra le poche lettere che ho salvate di lui, ne ho trovate due che mi scrisse nel 1923 dall'Inghilterra, dove si era ritrovato con Carlo Rosselli.

»Rosselli ed io - scriveva il 23 agosto - abbiamo passato a Hindhead tre settimane incantevoli. Rosselli fece furore nel mondo femminile; ma credo che non sia arrivato mai al di là delle spese minute. Io, da quel povero vecchierello che sono, non mi lamento. Eravamo in concorrenza per la più bella signora della comunità: una irlandese giunonica, vedova di guerra, fra i 35 e i 40 anni, veramente bella e deliziosa pianista e cantatrice, che... ci serviva a tavola: perché il servizio era fatto da studenti di Cambridge e di Oxford, da professori di scienze e lettere, artisti e altri simili ingredienti. Dunque Rosselli ammirava quella signora very much: e io anche. Rosselli si lancia all'attacco con baldanza giovanile. Io zoppicavo alla retroguardia. L'ultima sera ci invitò entrambi a fare una passeggiata al chiaro di luna. Rosselli era aggressivo: io taciturno. Alla fine la bella dichiarò che io le piacevo di più. Disastro irreparabile! Rosselli ci pianta e se ne va. Io rimango unico padrone delle acque. Quel ch

e successe allora nella solitudine, in presenza della sola luna, non posso dirlo... perché non successe niente. Le donne inglesi sono come l'Italia: non succede mai niente, e non dura mai niente .

E in una lettera successiva, dopo aver detto che »se non fosse stato suo fermo proposito di non lasciar l'Italia finché non ci fosse stato costretto, e finché non avesse potuto dire a se stesso - qualunque cosa accadesse - che ci era stato costretto , invece di tornare a Firenze, dove certo non avrebbe potuto riprendere la sua vita di studio e di insegnamento, sarebbe rimasto a Londra, magari »a fare il lustrascarpe o a suonare il clarinetto per le vie , continuava:

»Tu mi dirai: come faresti a suonare il clarinetto? - Niente paura, ti rispondo. Qui puoi fare tutto quello che vuoi. Un clarinetto, peggio lo suoni e più la gente ha pietà di te, come di un disgraziato incapace a guadagnarsi la vita, e ti lascia un penny nel piattino .

Qualche anno fa aveva scritto una lettera al "Mondo" in cui proponeva, per la utilizzazione degli immobili già appartenenti alle organizzazioni fasciste, una soluzione antistatalista che trovavo irrealizzabile.

- Mi sembra - osservai - una di quelle proposte che facevano spesso gli anarchici miei compagni di carcere o di confino. Bravissima gente che stimano molto e di cui condividevo quasi tutti gli ideali, ma a cui rimproveravo di mancare di senso storico. Lo stesso non posso certo dire di te, che fai da tanto tempo lo storico di professione.

- A me - replicò pronto Salvemini - non manca il senso storico: manca il senso comune.

Ridemmo insieme. Ma ora, a ripensarci, riconosco che scherzando, diceva la verità, se per senso comune si intende quello che in generale intendono i benpensanti: »tira a campare e pensa alla salute . Se avesse avuto un po' di questo senso comune, Salvemini non avrebbe combattuto tutta la vita le ingiustizie e i privilegi; non se la sarebbe ripresa con i suoi compagni socialisti per i pateracchi che facevano col governo; non avrebbe rifiutato il seggio alla Camera, quando scoprì che i suoi elettori avevano fatto le pastette per combattere le pastette del candidato avversario; non avrebbe scritto "Il ministro della malavita" (12) mentre Giolitti era al colmo della sua potenza: non avrebbe fatto, lui interventista, le violente campagne che fece contro Sonnino per la sua politica nazionalistica, e contro D'Annunzio, al tempo della impresa di Fiume; non sarebbe andato in carcere per il "Non mollare" (13), non avrebbe dato le dimissioni dalla cattedra della Università di Firenze, quando divenne impossibile insegna

re liberamente, non sarebbe stato per tanti anni lontano dal suo paese, che tanto amava, per non riconoscere le benemerenze dell'Uomo della Provvidenza.

Sino sul letto di morte, Salvemini ha conservato questo suo humour.

Alla metà di agosto (dopo lunghi mesi di malattia, non c'era più speranza di salvarlo) sono andato a Sorrento, dove, da quattro anni, aveva trovato la più generosa e premurosa ospitalità in casa della dilettissima amica, donna Titina, figlia di Ferdinando Martini (14). Desideravo discutere ancora con lui il programma per pubblicare le sue opere edite ed inedite. Al mio bacio si è destato con fatica dal pesante torpore prodottogli dall'avvelenamento del sangue. Non riusciva più a star seduto sul letto con l'appoggio dei guanciali. Il volto, emaciato dal digiuno e dalla sofferenza, sembrava di avorio. Parlava con un filo di voce, che appena appena intendevo avvicinando un orecchio al suo labbro.

- Questo cuore spietato, non vuol mollare - mi ha detto. - Con le loro cure i medici mi prolungano l'agonia; non la vita. Desidererei solo che mi facessero addormentare in modo da non svegliarmi mai più...

Gli ho esposto il piano di pubblicazione: metteremo insieme - gli ho spiegato - una ventina di volumi. Ha lievemente sorriso, scuotendo il capo, e dicendo di no con la mano: non valeva la pena di ritirar fuori tanta roba. Gli ho chiesto se ricordava altri scritti per completare il mio elenco:

- Ci ho pensato molto, sai, in questi ultimi tempi. Avrei avuto bisogno di un prolungamento di altri tre mesi per rimettere tutto in ordine.

Ricordava precisamente titoli, editori, date di stampa.

- Credo tu dimentichi un lavoro - ho osservato. - Deve esserci una tua prolusione all'università di Messina, sul carattere e il significato della storia. Non la conosco; ma mi hanno detto che è importante.

- No, no... è una fesseria - ha risposto in un soffio. - Figurati... allora credevo che la storia fosse una scienza.

Quattro giorni prima della fine, Giuliana - la buona, la cara figlia di donna Titina che lo ha assistito per tanti mesi con devozione - mi ha telefonato che Gaetano era agli estremi. Sono tornato a riabbracciarlo ancora una volta. Nelle ultime due settimane si era nutrito solo con qualche sorso d'acqua. Era ancor più spossato e la sua voce era divenuta per me impercepibile. Stava con gli occhi chiusi ed ogni tanto si assopiva. Ma quando si risvegliava era lucidissimo. Maritza faceva da interprete, ripetendo più forte le sue parole. I suoi rapporti con gli amici, raggruppati attorno al suo letto, erano - come il solito - di completa sincerità. A nessuno veniva neppure in mente di fingere per consolarlo.

Ha chiesto che cosa aveva detto il dottore:

- Ha trovato che il tuo cuore è molto debole - gli ha risposto Maritza. -Ormai le pulsazioni non si sentono più.

- Questa è una buona notizia.

Ha pregato che la sua bara venisse portata a spalla dai più giovani amici (15). Si è ricordato anche di don Rosario, il buon prete che era divenuto amico, ed a cui aveva già detto addio qualche giorno prima:

- Se vuol seguire il funerale venga pure, ma »vestito da uomo .

Ha parlato anche di politica.

- I socialisti della fine del secolo scorso erano buoni. Volevano dare un tozzo di pane alla povera gente. Turati era molto buono. I comunisti (16) non sono buoni, sono dei dogmatici. I preti... i preti... è il sistema che li fa quello che sono.

L'ho ringraziato per il bene che ci aveva fatto durante tutta la vita.

- Continuerai a farne con i tuoi scritti, che rimarranno dopo di te.

Ha sorriso, scuotendo la testa.

-Dopo Cattaneo - ho insistito - le cose più belle e più importanti sulla politica del nostro paese, te lo assicuro, le hai scritte te.

Dopo un lungo silenzio:

- Di Cattaneo - ha detto - ricordo un pensiero che mi piace molto: ed è che i popoli anglosassoni unificheranno il mondo. Loro soli ne hanno la forza e la capacità. Continueranno a litigarsi fra loro... ma è l'unica speranza.

- Dove l'ha scritto Cattaneo?

- Domandalo a Sestan (17).

Per ogni amico ha trovato una parola buona, personale.

Due sue allieve si sono chinate su lui a baciarlo.

- Che bel sorriso avete! - ha detto. - Che piacere vedere ancora un così bel sorriso.

Ed ha continuato a bisbigliare nel loro orecchio dei complimenti scherzosi, che Maritza non traduceva: ma il viso delle due belle figliole era tutto illuminato dalle sue parole; ridevano felici, mentre lui accennava pure un sorriso.

Quando Armando Borghi (18), il suo vecchio amico anarchico, l'ha baciato, gli ha detto che aveva ancora l'animo candido di un bambino.

- Sembra tu abbia dodici anni.

- Stamani - ho notato - quando l'hai ripreso perché aveva tirato un moccolo, hai detto che sembrava avesse quattordici anni.

- Si vede che non so più tenere i conti. Ma io sono giustificato. Borghi, invece, non li ha saputi tenere tutta la vita.

- Non avete un'idea - ha ripetuto più volte - di come sono contento di morire così. Avere la coscienza tranquilla è la sola cosa che importa... Morire sorridendo; proprio questo vorrei... Per curiosità vorrei sapere il momento del passaggio dalla vita alla morte... Non capisco perché la gente abbia tanta paura di morire... Per le amicizie ho avuto fortuna tutta la vita e sono fortunato anche nella morte... Non potevo avere una fine più serena, più felice di questa, circondato dagli amici vicini e da quelli lontani... Vorrei abbracciarvi tutti... Sono alla fine della corda... (19)

Come Socrate, Salvemini aveva un altissimo concetto della dignità umana, e, come Socrate, cercava la giustizia per la medesima esigenza morale e con la medesima passione con la quale cercava la verità; perciò è stato per tanti giovani un maestro di vita; perciò è stato il più deciso avversario del fascismo, fin dal suo primo apparire.

A metà novembre del 1923, Mussolini presentò alla Camera il suo governo col »discorso del bivacco , trattando i deputati dell'opposizione come sguatteri che avrebbe potuto licenziare da un giorno all'altro, se gli fosse piaciuto. Ero per la strada con Salvemini quando uscirono a Firenze le edizioni straordinarie che riportavano il discorso. Salvemini comprò il giornale da uno strillone e si fermò sul marciapiede a leggerlo. Via via che leggeva, il suo viso si rabbuiava finché non resse più; si strappò dal capo il cappellino a pan di zucchero e lo sbatté violentemente per terra. Poi subito, vergognoso di non essersi saputo controllare, lo raccolse e lo ricalcò tutto polveroso in testa.

- Gli hanno lasciato dire queste cose, senza neppure interromperlo - sbottò con voce fremente. - E domani leggeremo sui giornali le eleganti repliche degli onorevoli dell'opposizione...

Rimase sconvolto fino alla porta dell'Università. Mi lasciò senza neppur salutarmi.

Dopo l'assassinio di Matteotti, mentre tutti i Santi Padri del liberalismo e del socialismo consigliavano la prudenza, per non rompere le uova nel paniere ai capoccioni dell'Aventino, che stavano prendendo accordi col re, col papa, coi generali, con Delcroix, con i fascisti dissidenti, col comando dei carabinieri, per mandare Mussolini in galera, Salvemini incitò subito tutti gli amici all'azione illegale: se non ci era più consentito di scrivere quello che pensavamo sui giornali, dovevamo pubblicarlo sulla stampa clandestina se non ci era più permesso organizzarci alla luce del giorno, dovevamo costituire delle società segrete. Ognuno di noi facesse quel che poteva, senza commisurare la sua azione alla possibilità di successo: per conservare il rispetto di se stesso, per non divenire, anche col solo silenzio, complice del fascismo.

Salvemini fu, a Firenze, l'anima della rivolta morale contro il »regime : fu lui che diresse il "Non mollare"; quasi tutti gli articoli di questo foglio clandestino sono suoi; la maggior parte dei quattrini per stamparlo fu raccolta da lui; lui ci procurò il memoriale Filippelli sull'assassinio di Matteotti e gli altri documenti che allora pubblicammo.

Per il "Non mollare" Salvemini fu arrestato e processato nel luglio del 1925 (20). Dopo la prima udienza ottenne la libertà provvisoria, e ne profittò per espatriare clandestinamente in Francia. Fu questo uno dei più gravi errori di Mussolini: essersi lasciato sfuggire dalle mani il suo più deciso e intelligente avversario. Se Salvemini fosse rimasto ancora tre mesi a Firenze, lo avrebbero certamente »fatto fuori nella notte di sangue del 4 ottobre.

Durante tutta la resistenza al fascismo, Salvemini fu presente in Italia con i suoi scritti e con l'azione dei »giellisti che si tenevano in contatto con lui. Anche negli anni più bui, dovunque si trovava qualcuno disposto ancora a rischiare nella lotta per la libertà, sempre era un »salveminiano : era stato un lettore della sua "Unità", o in altro modo aveva risentito l'influenza del suo pensiero.

Nel luglio del '29, Caro Rosselli, insieme a Lussu e a Fausto Nitti, riuscì ad evadere dal confino di Lipari, e a raggiungere Salvemini a Parigi (21). Più che un discepolo, Carlo era un figlio spirituale di Salvemini. Attraverso Carlo, »Giustizia e Libertà fu in gran parte opera di Salvemini. Salvemini scrisse il primo programma di G.L.; fece giri di conferenze in America per finanziare G.L.; sulla rivista e sul settimanale di G.L. pubblicò alcuni dei suoi saggi politici migliori; di Salvemini sono molti opuscoli che G.L. distribuì clandestinamente in Italia (22).

Nel 1933 fu chiamato a insegnare storia all'Università di Harward (23) e prese stabile dimora negli Stati Uniti; ma neppure per un giorno cessò di spiegare agli stranieri che cosa era il fascismo, di richiamare l'attenzione della opinione pubblica dei paesi liberi sull'aiuto che i loro governi davano a un governo tirannico; di difendere il popolo italiano dall'accusa di essere immeritevole delle libertà politiche, di cui godevano gli altri popoli civili; di insistere sul pericolo che il »regime rappresentava per tutte le democrazie e per la pace nel mondo.

Un esercito di propagandisti, con gli archivi dei ministeri romani a loro disposizione, non bastava a controbattere questo irriducibile »fuoruscito , che, quasi solo, teneva dietro a tutto quel che veniva pubblicato in Italia per suffragare le sue tesi: libri, giornali, leggi, statistiche, atti parlamentari, bilanci di società, sentenze di tribunali, contratti di lavoro, niente gli sfuggiva. Mentre continuamente Salvemini smascherava le menzogne della propaganda fascista, non credo che neppure una volta i fascisti siano riusciti a dimostrare la inesattezza delle sue affermazioni, documentate sempre con citazioni precise, messe insieme con la pazienza di un certosino e col metodo critico appreso nelle scrupolose ricerche d'archivio.

Se - come spero - le sue polemiche politiche in lingua inglese saranno presto da noi tradotte e pubblicate (24), costituiranno la prova migliore dell'opera svolta da questo »antinazionale , per difendere l'onore e l'avvenire d'Italia.

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NOTE

1. L'articolo, col titolo "Gaetano Salvemini", apparve nell'»Italia Socialista del 13 luglio 1974. Nello stesso anno Rossi scrisse per »Il Ponte (a. III, pp. 892 895) la nota "Come conobbi Salvemini".

2. Salvemini morì a Sorrento il 16 settembre 1957.

3. L'accostamento di Salvemini a Socrate era già stato fatto da Rossi più di una volta: scrivendo alla madre dal reclusorio di Pallanza, il 21 settembre 1931, aveva ricordato gli anni nei quali lo aveva ogni giorno incontrato, e gli »pareva di aver vicino il buon Socrate, abituato a tener sempre i piedi ben saldi in terra, come il buon figlio di contadini che era egli pure, e saggio, più perché capiva l'anima degli uomini che non perché conoscesse molte cose e scrivendo alla moglie dalla casa penale di Roma, il 26 agosto 1938, aveva con particolare calore ribadito il riferimento.

4. La stessa avversione per i filosofi di professione (che Salvemini sempre nutrì, ad esempio, diffidando della »confusione universale che nasceva da ogni proposta in cui Croce avesse messo »lo zampino : lettera del 9 maggio 1949 ad Ernesto Rossi, in "Lettere dall'America", 1947 1949, a cura di Alberto Merola, Bari, Laterza, 1968, p. 282) fu condivisa da Rossi, del quale si ricordano i versi scherzosi dedicati dal carcere alla esposizione delle dottrine crociane professate dal suo compagno di cella Riccardo Bauer.

5. Sono le tesi che Salvemini sostenne negli anni del governo giolittiano contro gli orientamenti ufficiali del partito socialista e delle organizzazioni dei lavoratori della grande industria.

6. Gli atti del convegno si leggono nel volume di Leopoldo Piccardi. Raffaello Morghen, Guido Calogero, Lamberto Borghi, Umberto Zanotti Bianco, "Dibattito sulla scuola", a cura di Adolfo Battaglia, Bari, Laterza, 1956. Rossi fu il primo animatore ed organizzatore dei convegni del »Mondo , come, in seguito, di quelli del »Movimento Salvemini .

7. Salvemini non rinnegò mai la sua aspirazione ad una soluzione socialista dei problemi italiani.

8. Col titolo "Come siamo andati in Libia" Salvemini raccolse in volume, nel 1914, per le edizioni della »Voce scritti suoi e di altri contro l'impresa africana, premettendovi una introduzione, "Perché siamo andati in Libia".

9. L'"Unità" fu il periodico fondato e diretto da Salvemini tra il 1911 e il 1920.

10. "Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295" è il titolo dell'opera maggiore di Salvemini come storico del Medioevo, apparsa per la prima volta a Firenze nel 1899 (successivamente ristampata nelle edizioni Einaudi (Torino 1960).

11. "La Rivoluzione francese (l788 l792)" è forse la più diffusa tra le opere di Salvemini, apparsa per la prima volta nel 1905, e in seguito più volte ristampata (fino all'edizione definitiva (Bari, Laterza, 1954).

12. Il celebre pamphlet "Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell'Italia meridionale" che, insieme a "Le memorie di un candidato", illustra in che modo lo statista piemontese adulterasse le elezioni nelle province meridionali, si legge ora nel volume "Il ministro della mala vita e altri scritti sull'Italia giolittiana" a cura di Elio Apih, Milano, Feltrinelli, 1962.

13. Del "Non mollare" apparso a Firenze tra il gennaio e l'ottobre 1925, è stata pubblicata una riproduzione fotografica (Firenze, La Nuova Italia, 1955 e 1968) preceduta da tre saggi di Rossi, Calamandrei e Salvemini.

14. Sugli ultimi anni di Salvemini: Ebe Flamini, "Salvemini a Sorrento" in "Gaetano Salvemini nella cultura e nella politica italiana", Roma, Edizioni della Voce, 1968, pp. 183 187.

15. Salvemini venne sepolto nel cimitero di Sorrento. Le sue spoglie, nell'ottobre 1961, furono trasportate a Firenze, dove ricevettero l'omaggio del presidente della Repubblica e furono inumate a Trespiano, nel recinto che accoglieva quelle di Carlo e Nello Rosselli, e dove ora riposa anche Ernesto Rossi.

16. Sui comunisti, dai quali, come dai cattolici clericali, si era sempre voluto distinguere, Salvemini aveva manifestato, negli ultimi anni, opinioni meno drastiche di quelle che furono colte dalle sue labbra di morente inevitabilmente assiomatiche. Ricordiamo in proposito che concludendo uno degli ultimi suoi saggi ("Molfetta 1954", nel volume "Scritti sulla questione meridionale", Torino, Einaudi, 1955. p. 659) egli aveva, nella prospettiva di un decennio di futura storia italiana, immaginato come inevitabile un riassestamento politico che avrebbe visto l'inserimento dei comunisti tra le forze impegnate alla soluzione dei problemi del paese.

17. Ernesto Sestan, allievo di Salvemini, con lui collaborò alla edizione dei quattro volumi di "Scritti storici e geografici" di Carlo Cattaneo (Firenze, Le Monnier, 1957).

18. Di un volume di Armando Borghi, "Mussolini in camicia", Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1961, Rossi scrisse una affettuosa prefazione, nella quale ricordò l'amicizia del vecchio anarchico per Salvemini.

19. Le ultime parole di Salvemini morente. raccolte dagli amici. stenografate e controllate, si leggono integralmente, sotto il titolo "Parole di commiato", in »Il Ponte , a XIII (1957), n. 8 9, p. 1158.

20. Sulle vicende fiorentine che videro scatenati contro Salvemini i fascisti e la parte retriva dell'ambiente universitario (in primo piano lo scolopio Ermenegildo Pistelli) e sul processo che ne seguì, è da vedere il bellissimo saggio di Piero Calamandrei, "Il manganello, la cultura e la giustizia".

21. L'evasione è stata descritta da Fausto Nitti nel volume "Le nostre prigioni e la nostra evasione", Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1946, e con la testimonianza "La fuga da Lipari", in "Trent'anni di storia italiana" (1915 1945), Torino, Einaudi, 1961, pp. 199 202. Sull'episodio v. anche. Alberto Tarchiani, "L'impresa di Lipari", nel citato volume "No al fascismo", pp. 73 126.

22. Notizie e documenti sui fuorusciti, e particolarmente sulla attività degli appartenenti a »Giustizia e Libertà si leggono nel volume di Aldo Garosci, "Storia dei fuorusciti", Bari, Laterza, 1953. Su quanto fece G.L. in Italia prima del »processo agli intellettuali , del maggio 1930, v. di Rossi il volume "Una spia del regime", Milano, Feltrinelli, 1955, e, per ricordi personali, il saggio "Fuga dal treno" nel cit. "No al fascismo". Una ristampa dei dodici "Quaderni di Giustizia e Libertà" che precedettero il periodico diretto da Carlo Rosselli è stata fatta dalla Bottega d'Erasmo, Torino, 1959. Dei rapporti di Salvemini con Carlo Rosselli riferisce ampiamente Aldo Garosci nei due volumi della "Vita di Carlo Rosselli", Roma Firenze Milano Edizioni U, 1945.

23. Salvemini occupò la cattedra di storia della civiltà italiana istituita in seguito ad una donazione della fidanzata americana di Lauro De Bosis.

24. Ciò che ora è avvenuto con la pubblicazione de "l'Italia vista dall'America", a cura di Enzo Tagliacozzo, Milano, Feltrinelli, 1969.

 
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