di Giuliano RendiSOMMARIO: [Questo articolo reca la firma di Giuliano Rendi, ma è il frutto di una stretta collaborazione tra lo stesso Rendi e Gianfranco Spadaccia. Venne presentato a M. Pannunzio con le due firme, ma il direttore del "Mondo" non amava articoli con due firme, n.d.r.]. Anticipatoria e rigorosa analisi della politica della CGIL e della sua maggioranza comunista nei confronti del Mercato Europeo Comune. Per la CGIL, osserva Rendi, il MEC deve ormai essere "un necessario punto di riferimento"; e tuttavia, invece di avanzare in proposito "considerazioni di carattere economico-sociale" essa affronta la questione da un punto di vista "esclusivamente politico", agganciandosi alla politica dell'URSS e mettendo in minoranza la corrente socialista la quale, pur con perplessità e riserve, il Mercato Comune lo ha accettato. La CGIL segue così la politica definita con il IX Congresso del PCI, che maschera la sua ostilità all'integrazione europea affermando di essere favorevole piuttosto ad un "generale accordo economico
europeo" tra i paesi del MEC e quelli dell'EFTA.
L'articolo prende in considerazione gli sviluppi del MEC mostrandone la positività e analizzandone i difetti, dovuti sia all'insufficienza del processo unificatorio sia alla inadeguata politica del governo italiano, che mette in difficoltà alcuni settori economici. Su queste insufficienze i socialisti della CGIL avevano già appuntato giuste critiche, ma in seno al comitato di coordinamento dei sindacati europei erano poi prevalse le tesi più ostili ed estremiste, di cui avevano profittato i comunisti della CGIL per irrigidire le loro posizioni.
Si prende poi in considerazione la politica interna della CGIL, intenta più a far leva sugli scontenti settoriali che a promuovere una seria, grande politica economica e industriale che faccia progredire il paese verso l'inevitabile integrazione dei mercati.
(IL MONDO, 9 febbraio 1960)
Per la CGIL oggi il Mercato Comune è un necessario punto di riferimento per definire la propria azione politica dato che il MEC, imponendo ai paesi aderenti una serie di limiti e di obbligazioni, finisce per investire tutti i settori della loro vita economica e sociale, nel cui ambito una organizzazione di interessi deve necessariamente muoversi. L'atteggiamento della CGIL verso il MEC non è però determinato da considerazioni di carattere economico-sociale, ma esclusivamente politico.
Nei fatti, se non nelle parole, essa ha fatto suo il punto di vista comunista nei riguardi della Comunità Economica Europea, e per i comunisti il MEC rappresenta il nemico da combattere in Europa.
Questa avversione comunista nei confronti del processo di integrazione europea è stata riconfermata anche recentemente nella prima delle sei tesi preparatorie del IX Congresso Nazionale del partito. Essa afferma che per il movimento comunista sia il MEC che gli altri organismi sovranazionali:
"esprimono di fatto una tendenza oggettiva alla internazionalizzazione della vita economica, che però soltanto con il socialismo potrà trovare la sua soluzione organica e giusta. In essi si riproducono, in più alte e più gravi proporzioni, le contraddizioni del capitalismo".
Come si vede la dichiarazione si inquadra perfettamente nella nuova linea del partito tendente a combattere i pericoli della cosiddetta socialdemocratizzazione. Ma oltre a queste riaffermazioni di principio i comunisti assumono continuamente nuove iniziative; ultima e fondamentale agli effetti della loro politica, c'è stata una presa di posizione in seguito alla costituzione dell'EFTA, l'organismo europeo che raccoglie i paesi estranei all'area del MEC. I partiti comunisti dell'Europa occidentale, tenendo conto di questo avvenimento, hanno saputo operare uno spregiudicato adeguamento tattico nella propria politica di opposizione attiva al Mercato Comune; al termine della riunione internazionale, tenuta recentemente a Roma nei locali del circolo Gramsci, è stato concordato un documento conclusivo nel quale il fatto nuovo è costituito dalla deplorazione della guerra economica e commerciale scatenata fra i paesi europei dalla loro divisione in due gruppi economici contrapposti:
"Bisogna porre un termine alle divisioni economiche alle quali conducono tanto il MEC che la Zona di Libero Scambio".
Questa esplicita presa di posizione a favore di un generale accordo economico europeo, non è in contraddizione con la loro irriducibile opposizione agli organismi sovranazionali della "piccola Europa". Bisogna infatti tener presente che il Mercato Comune si propone soprattutto di aprire la strada all'unità politica dei paesi aderenti, attraverso l'organizzazione unitaria dei loro interessi economici, mentre la politica dei paesi riuniti nell'EFTA è diretta ad ostacolare questo tipo di organizzazione non tanto per ragioni economico-commerciali, quanto per impedire la realizzazione dell'obiettivo finale, cioè l'unità politica. Ci si rende così facilmente conto che i comunisti, auspicando il dissolvimento del MEC nell'area generale di libero scambio, si affiancano agli sforzi di tutti coloro che si oppongono alla integrazione politica della piccola Europa.
Per quanto incerte e dubbie siano le possibilità di arrivare alla Federazione Europea attraverso il MEC, è bastata questa modesta prospettiva perché l'URSS ponesse al centro della sua politica estera in Europa l'opposizione al Mercato Comune; la stretta unità d'azione dei partiti comunisti li impegna così in una politica a lungo termine contro il processo di integrazione economica europea. E' legittimo a questo punto domandarsi quale influenza può avere questo atteggiamento comunista sulla CGIL e sui rapporti con i socialisti, o meglio, per usare la loro terminologia, sulle prospettive dell'intero movimento operaio.
Quali sono le concrete possibilità del MEC? Cosa può realizzare dal punto di vista politico e cosa realizza intanto dal punto di vista economico? Il Mercato Comune si propone un ambizioso programma economico con un organismo istituzionale per realizzarlo; si tratta però di una istituzione debole, priva di poteri sovranazionali e sottoposta alla volontà dei ministri degli Esteri dei sei paesi, di modo che la realizzazione del programma dipende dal grado di collaborazione di volta in volta assicurato dai governi interessati. Questa debolezza istituzionale si manifesta sia nella mancanza di una stabile politica monetaria comune, sia nella mancanza di una politica degli investimenti, con il pericolo di un accentramento dello sviluppo nelle zone industrializzate, sia infine nella debolezza della politica antimonopolistica. Inoltre anche quando si fosse realizzato l'intero programma economico, l'unificazione politica sarà ancora un obiettivo da conquistare.
Tuttavia gli scopi finali che il MEC persegue con strumenti inadeguati, sono validi sia dal punto di vista politico sia da quello economico. Gli Stati europei infatti si sono ricostruiti negli anni dal '45 al '50, e negli anni susseguenti hanno assorbito quel tanto di progresso tecnico americano che la loro dimensione e il loro limitato interscambio permettevano; ora si avviano ad utilizzare le conquiste tecniche del sistema produttivo e distributivo americano su una scala continentale, indirizzando il più alto livello di capitalizzazione che stavano raggiungendo verso l'automazione e le tecniche, caratteristiche di un mercato di grande dimensione. La concorrenza poi cui viene sottoposta l'Europa rompe pigrizie e protezioni molto antiche.
Sarebbe ingenuo pensare che l'unificazione economica prospettata dal Mercato Comune, data l'assenza di un potere statale efficiente, possa essere realizzata in tutti i settori della vita economica; essa però si realizzerà certamente in quei settori che dell'ampliamento dei mercati e dall'aumentata concorrenza sono in grado di trarre i maggiori benefici, per essere quelli di più rapido sviluppo e di più facile trasformazione. Nel nostro paese l'esempio più clamoroso di una politica industriale è dato dalla FIAT, che ha dovuto permettere l'entrata in Italia di un primo tipo di macchina straniera in seguito all'accordo fra Alfa Romeo e Renault e che contemporaneamente ha migliorato la propria produzione rivolgendosi con buon successo alla conquista del mercato tedesco (l'incidenza delle esportazioni sulla produzione automobilistica italiana è aumentata in un anno dal 32 per cento al 41 per cento, mentre la fetta di mercato tedesco conquistata quest'anno dalla FIAT oscilla fra il 10 e il 12 per cento).
Il Mercato Comune determina naturalmente anche un limitato aumento di disoccupazione frizionale in alcuni momenti di transizione ed aggrava paurosamente la situazione dell'agricoltura nelle aree depresse; però tanto i partiti di sinistra quanto la CGIL, volendo assumere un atteggiamento sul MEC, sono costretti a tener conto non solo di questi elementi negativi, ma anche dei molti positivi. L'operaio di una industria, che vede la sua impresa agire in un'area europea trovandovi grandi possibilità di sviluppo, difficilmente sarà portato a condividere un atteggiamento critico nei confronti del MEC, e questo stato d'animo si consoliderà con i maggiori risultati a venire.
I socialisti, favorevoli con alcune riserve critiche al processo di integrazione economica europea, hanno dimostrato fin dal momento della discussione parlamentare sui trattati di Roma che non avrebbero tollerato una presa di posizione assolutamente negativa da parte della CGIL. Ne nacque una discussione molto viva sull'autonomia del sindacato e sulla tesi leninista della cinghia di trasmissione, ma la necessità di evitare una rottura portò la CGIL ad assumere un atteggiamento moderato, che giustamente fu considerato più vicino alle posizioni socialiste che a quelle comuniste.
Infatti, nel luglio del '57, il comitato esecutivo della CGIL, con una mozione che impegnava l'intera organizzazione, dopo aver preso atto che la tendenza all'integrazione economica europea poggiava su esigenze obiettive, affermò esplicitamente:
"Malgrado gli inconvenienti di natura transitoria che possono derivare per alcune attività produttive dallo sviluppo di tale tendenza, il Comitato Esecutivo ritiene che essa vada appoggiata e incoraggiata perché può creare, in prospettiva, un contributo fondamentale e - in certa misura - insostituibile allo sviluppo delle economie europee e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori".
Esaminando poi analiticamente i limiti del MEC la mozione esprimeva delle preoccupazioni, alcune delle quali di chiara ispirazione socialista, che sembravano delineare da parte del maggior sindacato operaio italiano la possibilità di una politica costruttiva nei riguardi delle nuove istituzioni europee. Principalmente si poneva l'accento sulla necessità di affrettare, sul piano nazionale, una politica di riforme nelle strutture produttive e nella distribuzione del reddito, considerando contemporaneamente i problemi delle aree depresse per il cui sviluppo si chiedevano particolari condizioni di favore. Ma soprattutto la mancanza di una istituzione sovranazionale, capace di orientare gli investimenti e di condurre una politica antimonopolistica, era avvertita come limite fondamentale del MEC. Il documento richiedeva infatti come capisaldi insostituibili di ogni cooperazione economica europea:
"la chiara definizione di una politica sovranazionale che getti nuove basi per i rapporti fra i paesi integrati e i paesi terzi, al di fuori di qualsiasi forma di discriminazione; e la costituzione di un organismo sovranazionale, atto a rappresentare sul piano commerciale gli interessi fondamentali degli stati aderenti.
Infine di fronte alla tendenza del padronato dei sei paesi ad unificare la propria politica economica e sociale, la CGIL constatava la evidente necessità di rafforzare l'unità d'azione dei sindacati operai dei diversi paesi, indipendentemente dalla loro affiliazione internazionale.
Così la politica della CGIL sembrava avviata verso una opposizione costruttiva nei confronti del MEC, tendente da una parte a valorizzare gli elementi sovranazionali e dall'altra a porre l'accento sulle riforme di struttura necessarie all'economia italiana per affrontare con successo il confronto con le più avanzate economie degli altri paesi. Di costruttivo invece, fino ad oggi, c'è stato soltanto la costituzione di un comitato di coordinamento fra le centrali sindacali dei paesi del MEC, affiliate alla FSM. Come è noto, nella piccola Europa questa associazione internazionale è forte soprattutto in Francia con la CGT e in Italia con la CGIL e, all'interno del Comitato, è stata proprio quest'ultima ad assumere un ruolo di punta. E' perciò interessante osservare quanto poco costruttive siano state le deliberazioni di questo comitato, tanto che proprio sull'argomento della sovranazionalità esso ha recentemente affermato:
"Questo discredito delle istituzioni europee e particolarmente delle Autorità e dei loro organi dirigenti non potrebbe essere eliminato attraverso il rafforzamento dei loro poteri sovranazionali. Questo non permetterebbe, come alcuni sperano, la realizzazione di una politica economica di sviluppo armonico e di pieno impegno, ma faciliterebbe, come l'esperienza dimostra, il dominio più diretto degli interessi monopolistici sul funzionamento delle istituzioni e faciliterebbe in realtà un rafforzamento ulteriore - economico e politico - dei gruppi capitalistici più aggressivi del Mercato Comune".
Sarebbe come chiedere l'ulteriore indebolimento dei poteri economici dello stato italiano soltanto perché questo, sotto il controllo di governi conservatori, si è dimostrato troppo debole nei confronti dei monopoli. Evidentemente, a due anni di distanza dalla mozione del luglio '57, i comunisti italiani si sono serviti del comitato europeo della FSM per rimangiarsi in pratica le concessioni fatte ai socialisti in quella occasione. Inoltre i documenti elaborati da tale comitato danno un quadro totalmente negativo della politica di realizzazioni del MEC, basandosi su fenomeni settoriali e contingenti anche se dolorosi, che la stessa CGIL nella sua mozione aveva previsto come "inconvenienti di natura transitoria" in funzione del processo di integrazione economica. Le tinte del quadro vengono poi ulteriormente incupite dalla considerazione di problemi che non dipendono dal Mercato Comune, come la crisi strutturale dell'industria tessile, che deriva dallo sviluppo industriale dei paesi asiatici. Siffatte val
utazioni fanno chiaramente comprendere in quale senso si sia indirizzata la CGIL: è venuto completamente meno il suo impegno a precisare una politica di sinistra nell'ambito del MEC e si è seguita invece una politica tatticamente prudente, ma di assoluta opposizione. Questa linea d'azione priva il sindacato di un programma economico europeo e rischia di estraniarlo da quelle che sono le naturali linee di sviluppo della società italiana. La CGIL non volendo svolgere una opposizione costruttiva al Mercato Comune, che avrebbe rafforzato necessariamente gli obiettivi politici di questo, e non potendo seguire una politica generale di agitazioni sociali poiché il MEC pone in crisi soltanto determinati settori dell'economia europea, ha dovuto limitarsi sul piano europeo ad un generico rivendicazionismo.
Anche la politica interna della CGIL non si è differenziata da questa linea, salvo che per le possibilità offerte dalla particolare situazione economico-sociale italiana. Infatti l'Italia è il paese dove il processo di integrazione economica può provocare le conseguenze più dolorose se non è accompagnato da una vigorosa politica di industrializzazione del Mezzogiorno.
La particolarità della situazione del nostro paese è determinata dalla esistenza, accanto alla zona industrializzata, di una vasta area depressa, con conseguente squilibrio strutturale fra nord e sud e fra agricoltura e industria, e con l'impossibilità di parte di quest'ultima di assorbire la forte disoccupazione e la sovrappopolazione agricola. Rimanendo immutata l'attuazione politica economica nazionale, il MEC da una parte può provocare un aumento incontrollato dello sviluppo con il pericolo di una maggiore concentrazione degli investimenti nella parte più industrializzata del paese e con un sostanziale aggravamento della situazione delle aree depresse, dall'altra, togliendo alcune protezioni e mettendo l'agricoltura italiana a diretto confronto con quelle europee, può precipitarla in una dura crisi.
Tuttavia questi pericoli e in genere le conseguenze negative del processo di integrazione solo indirettamente possono essere attribuite al MEC; in realtà, dipendono dalle insufficienze della politica economica italiana. L'unico modo di evitarli consiste nel porre termine a questa politica, sostituendola con un'altra che sia capace di controllare gli effetti del MEC combattendo gli squilibri strutturali della nostra economia. E questo è il compito di una opposizione democratica.
Coerentemente alla sua politica di opposizione la CGIL si è soprattutto preoccupata di inserirsi sullo scontento verificatosi in alcuni settori di crisi, per utilizzarlo a fini di agitazione sociale. E ciò è particolarmente avvenuto per l'agricoltura. In questo campo il MEC impone uno sviluppo della produzione, una diminuzione dei costi e una riduzione della produzione granaria, che si possono ottenere soltanto attraverso l'assorbimento della sovrappopolazione agricola nell'industria e nelle attività terziarie. Tutti gli sforzi dovrebbero essere quindi diretti verso una politica economica che, estendendo la industrializzazione nel paese, fosse in grado di raggiungere questo scopo. Il programma della CGIL rielaborato alla conferenza agraria di Arezzo del dicembre '58, mira invece volutamente ad illudere i contadini che sia possibile mantenerli tutti sulla terra attraverso un maggior assorbimento di mano d'opera, che si dovrebbe ottenere intensificando la produzione per mezzo degli enti riforma o per mezzo di
investimenti fondiari obbligatori. Con questa azione nelle campagne il sindacato si propone di riunire in un'unica agitazione i piccoli proprietari in via di sotto-proletarizzazione e i braccianti espulsi dall'agricoltura. L'agitazione viene però indirizzata verso scopi chiaramente irraggiungibili, tant'è vero che il programma di Arezzo non presenta un calcolo del territorio disponibile e degli investimenti necessari, che permetta di controllarne le possibilità concrete di riuscita.
In realtà tutte le cose che si possono rimproverare al processo di integrazione economica europea dipendono in parte dalla debolezza istituzionale del MEC, in parte dal carattere conservatore della nostra politica economica nazionale. Di conseguenza non ha senso criticare il MEC senza poi impegnarsi a rafforzarlo sia battendosi per una effettiva politica sovranazionale, sia precisando un programma di riforme strutturali per la nostra economia.
In fondo, per l'opposizione di sinistra, tutto il problema dovrebbe ridursi a questo: accettare la prospettiva dell'integrazione, fornendo in questa direzione una alternativa alla politica conservatrice italiana ed europea. E' ciò che la CGIL non vuole fare, riducendosi così ad una politica di rivendicazioni destinata a far presa su alcuni settori di crisi della società italiana e senza la possibilità di offrire soluzioni irrealizzabili. Lo stesso Togliatti, dovendo prospettare al comitato centrale del suo partito una politica di agitazioni sociali credibili, cioè accettabili dalla base, ha fatto leva sullo scontento esistente nell'agricoltura fra i braccianti, i piccoli proprietari e i mezzadri, limitandosi poi a indicazioni generiche per gli altri settori sociali, in particolare per l'industria.
Crediamo che un partito o un sindacato, qualunque esso sia, se vuole dare prospettive di successo alla sua politica, non può estraniarsi da quei fenomeni economici che determinano lo sviluppo della società in cui agisce. Proprio i comunisti con il loro esempio ci hanno insegnato che le possibilità di rinnovamento di un popolo dipendono principalmente dal suo sviluppo industriale e questo sarà facilitato nel nostro paese dall'inserimento in una economia continentale. Ma soprattutto le forze di sinistra non devono isolarsi rispetto ai settori sociali produttivi del paese, facendo perno su quelli arretrati e in crisi. Gli operai che condividono oggi l'opposizione dichiarata dei comunisti al MEC, vedranno domani nelle realizzazioni del MEC il successo dei loro avversari cioè del padronato, e non potranno che derivarne il sentimento di una sconfitta. Ciò è già avvenuto con il Piano Marshall e con l'OECE e il pericolo per la CGIL si ripresenta ancora oggi: se i socialisti vogliono evitarlo non hanno che da sosten
ere con maggiore coraggio la propria politica all'interno del sindacato.