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Calogero Guido - 10 maggio 1960
IL DIALOGO E L'OBBEDIENZA
di Guido Calogero

SOMMARIO: Ragiona su un articolo di A.C.Jemolo che contrappone "come antitetici simboli del modo liberale e del modo autoritario di concepire la convivenza civile l"uomo del dialogo' e l"uomo dell'obbedienza'". L'uomo dell'obbedienza potrebbe accusare di anarchisno l'uomo del dialogo, se questi volesse sottrarsi assolutamente all'obbedienza. Ma ciò non è: l'uomo del dialogo sa obbedire quando riconosca valido l'imperativo di chi comanda, vale a dire quando riconosca che l'autorità di quello è stata "delegata" proprio dalla sua propria libertà. La differenza vera tra i due modelli è che il primo deriva "il dovere dell'obbedienza dalla legge del dialogo", l'altro "deriva il dovere del dialogo dalla legge dell'obbedienza". Questo dilemma "costituisce la scelta etica fondamentale". ["Quaderno" del "Mondo"].

(IL MONDO, 10 maggio 1960)

In uno dei suoi ultimi articoli, Jemolo si è espresso in modo molto suggestivo e pertinente quando ha contrapposto, come antitetici simboli del modo liberale e del modo autoritario di concepire la convivenza civile, l'"uomo del dialogo" e l'"uomo dell'obbedienza".

Significa, questa contrapposizione, che l'"uomo del dialogo" non obbedirà mai? Tale potrebb'essere la ritorsione polemica dell'"uomo dell'obbedienza". Il quale, allora, forse sosterrebbe che il suo avversario è di necessità anarchico, e in forma così assoluta da dover escludere qualunque disciplina civile. Se infatti (possiamo immaginare che dica) il dovere fondamentale di ognuno è quello d'intendere le esigenze altrui, quando mai si potrà passare al comando, e costringere all'obbedienza? Non ha, anche il disubbidiente, il diritto di essere capito, e quindi rispettato nella libertà di disubbidienza?

Ma è facile vedere come questa obiezione si riduca a quella che tante volte si avanza, quando si crede che un'etica e una politica fondate sulla "legge del dialogo" rendano illegittima qualsiasi coercizione. In tali casi, ci si dimentica che non si è mai soltanto in due. Al di là dell'altro, infatti, ci sono gli altri, i quali hanno pari diritto di essere intesi. Posso quindi, anzi debbo coercire Caio se pretende di esser capito, e tenuto in considerazione, in misura privilegiata a paragone di Tizio. Il rispetto del principio di tolleranza implica che non si tolleri chiunque violi la regola della parità dei diritti assicurati da quel principio.

Ma allora la situazione è la stessa anche per quanto riguarda l'esigenza del comandare e dell'obbedire. Una volta che mi sia reso conto della natura del principio del dialogo, io so, intanto, che debbo obbedire ad esso, in qualunque situazione possibile. Ma debbo anche obbedire a chiunque sia stato posto a guardia della sua attuazione, autorizzato ad esercitare la necessaria forza in sua difesa. La sola condizione è che, secondo quello stesso principio, la sua autorità sia stata delegata della mia libertà, e con la minima decurtazione possibile di ogni libertà altrui (donde, ovviamente, la necessità delle decisioni di maggioranza, quando il previo dibattito non abbia portato ad unanimità). Così le sole autorità legittime sono quelle delegate in base a una costituzione, il cui ultimo fondamento sia la legge stessa del dialogo. Ma, allora, a simili autorità non è incongruo, anzi è doveroso obbedire.

La diversità fra l'uomo del dialogo e l'uomo dell'obbedienza non sta dunque nel fatto che questo obbedisca e l'altro no: perché obbediscono entrambi. La differenza sta nel fatto che l'uno deriva il dovere dell'obbedienza dalla legge del dialogo, l'altro deriva il dovere del dialogo dalla legge dell'obbedienza. Quest'ultimo dice: "Debbo capire gli altri, ma solo perché devo obbedire a chi mi ordina di farlo". L'altro dice: "Debbo obbedire a certe autorità, ma solo in quanto le ho costituite per assicurare una migliore comprensione di tutti".

E ciò conferma, una volta di più, come la grande antitesi di principio non sia tra il concepire la realtà come spirito e il concepirla come materia, tra il credere che esista solo l'immanente e il credere che ci sia anche il trascendente, tra il prevedere solo la morte e l'aspettarsi l'immortalità, ma bensì tra la subordinazione etica del dovere di capire a quello di obbedire, e l'opposta subordinazione etica del dovere di obbedire a quello di capire. Di fatto, quale che sia la soluzione di quei problemi metafisici, questo dilemma resta identico, e costituisce la scelta etica fondamentale. In ciascuna di quelle situazioni ci sarà posto tanto per gli uomini dell'obbedienza quanto per gli uomini del dialogo: e questi ultimi avranno sempre ragione di dire che neppure si potrebbe obbedire ai comandi altrui, se anzitutto non si fosse deciso di capire tali altrui volontà. L'uomo dell'obbedienza, in realtà, non è che un dimidiato uomo del dialogo: un uomo che a un certo punto decide di non intendere più altre voci,

per il timore dei dubbi che possano venirgliene circa quanto ha già ascoltato. Ma una fede talmente timida non è una vera certezza morale.

 
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