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Calogero Guido - 27 dicembre 1960
DISOBBEDIENZE CIVILI
di Guido Calogero

SOMMARIO: Interviene nel dibattito, svoltosi al Ridotto dell'Eliseo a cura della rivista "Questitalia", in cui si era discutesso sul "diritto all'insubordinazione" (presiedeva il dibattito Wladimiro Dorigo, partecipavano J.M Domenach, A.C. Jemolo, L.Piccardi e A.Spinelli). Secondo l'a., colui che rivendica l'"insubordinazione" non può però "sottrarsi alle sanzioni stabilite per tale disobbedienza". Distingue quindi tra la "insubordinazione" e la "disobbedienza civile" gandhiana, per la quale -nella situazione indiana - lo Stato era già "condannato dalla coscienza". Chi invece disobbedisce "eccezionalmente" a un comando, "conferma la sua adesione all'ordinamento costituzionale". E' la posizione di Socrate, che disobbedisce ma non si sottrae alla condanna, così insieme obbedendo ai due richiami della sua coscienza.

Ogni richiamo al diritto di "insubordinazione" o di "resistenza" non può non avere carattere eccezionale, e drammatico, ed occorre essere "molto cauti" nel valutarlo e commisurarlo. In definitiva, quel che importa è l'autentico spirito di dialogo, che è "interesse a capire non meno che interesse a convincere". ["Quaderno" de "Il Mondo"].

(IL MONDO, 27 dicembre 1960)

Nel dibattito intorno al "diritto all'insubordinazione" rivendicato nel noto manifesto francese e in altre dichiarazioni più recenti, che si è svolto al Ridotto dell'Eliseo per iniziativa della rivista "Questitalia" sotto la presidenza di Dorigo e con la partecipazione di Domenach, Jemolo, Piccardi e Spinelli, non mi è parso di rintracciare motivi per modificare quell'impostazione generale del problema, che avevo cercato di dare nel "Quaderno" del 22 novembre. Una conferma indiretta è risultata anzi dall'osservazione (tanto di Domenach quanto di Jemolo, se ben ricordo) secondo cui chi, per motivo di coscienza, disobbedisce a un ordine ritenuto ingiusto, ha senza dubbio moralmente il diritto di farlo, ma non può tuttavia pretendere di sottrarsi alle sanzioni stabilite per tale disobbedienza.

Questa "insubordinazione" è infatti radicalmente diversa dalla "disobbedienza civile" con cui, poniamo, un seguace di Gandhi, adottando il metodo della "resistenza passiva" e della "non-collaborazione", tendeva a mettere in difficoltà il governo inglese dell'India, e quindi a ottenere l'indipendenza. In questo secondo caso, il metodo della "non violenza" può bene essere scelto piuttosto per ragioni morali, o piuttosto per calcolata previsione di sua maggiore efficacia politica in quella speciale situazione: comunque, lo Stato contro cui l'individuo opera è già condannato dalla sua coscienza, e la sua azione è quindi intrinsecamente rivoluzionaria e non costituzionale. Opposta è invece la situazione di chi, disobbedendo eccezionalmente a un comando, conferma la sua adesione all'ordinamento costituzionale, da cui quel comando proviene, col suo stesso accettare le sanzioni previste per la propria disobbedienza. Questa è la classica posizione di Socrate, il quale non può obbedire al comando di tacere e di non di

scutere, ma non si sottrae all'esecuzione della condanna perché ha accettato il vivere secondo le leggi di Atene, che comunque egli ritiene ispirate dal principio della libertà di parola e del dialogo.

E qui si può solo aggiungere che l'intrinseca costituzionalità di un simile atteggiamento è confermata non solo dall'accettazione della condanna per la disobbedienza, ma anche dal fatto che si presenta esso stesso solo come caso d'eccezione, come "manifestazione d'emergenza", la cui normalità è tanto più giustificata quanto più serio è il prezzo che per essa si paga. Socrate che non si piega a compromessi, ma poi non fugge dal carcere e beve la cicuta, per non mancare né all'uno né all'altro di due obblighi di coscienza che ritiene entrambi essenziali, può bene essere considerato un eroe tanto della coscienza etica quanto della lealtà costituzionale. Ma un ricco cittadino che, per protestare contro certe norme del traffico, le violasse regolarmente pur pagando regolarmente le multe, non darebbe un buon esempio civico, perché nulla sopravviverebbe dell'ordinamento di una società se venisse universalmente seguito il suo esempio.

Lo stesso carattere di eccezionalità e di emergenza è del resto proprio anche di quelle speciali forme di pressione sull'opinione pubblica, di cui in fondo avvertono l'esigenza coloro che variamente si appellano al "diritto di insubordinazione" o al "diritto di resistenza", e insomma all'una o all'altra delle varie forme della classica "obiezione di coscienza". Essi restano perciò alquanto delusi quando si dimostra loro che, a rigore, non esistono simili "diritti", bensì più gravi e perenni scelte fra il dovere di obbedire e il dovere di insorgere. Ma, in realtà, quello che essi più propriamente intendono sottolineare è la necessità, che in taluni casi si presenta, di "testimonianze di emergenza", cioè di manifestazioni particolarmente drammatiche del proprio pensiero.

Tale, di fato, è p. es. lo sciopero della fame, o il suicidio compiuto per affermare un'idea. Questi comportamenti non rientrano, di necessità, nel quadro della "resistenza passiva" o della "disobbedienza civile", perché possono ben conciliarsi con una mantenuta fedeltà all'ordinamento civico, ancora ritenuto rispondente al suo fondamentale principio di legittimità etico-politica (lo stesso suicidio è "fellonia" solo dal punto di vista di un diritto feudale, o religioso-feudale, in cui si presupponga come incondizionato l'obbligo di servire a un padrone). Esse non sono, in sostanza, altro che forme particolarmente energiche di richiamo degli altri alla riflessione, necessarie quando si ritenga che il richiamo abbia speciale urgenza, o che l'altrui potere di propaganda sia troppo soverchiante in confronto al proprio.

Ma questo stesso ribadisce il carattere di eccezionalità della cosa, e la necessità di essere molto cauti nel valutarla e commisurarla. Come ogni squilibrio nella pariteticità dei poteri di propaganda mette in pericolo la costituzionalità stessa dello stato, così, per tutto il tempo in cui si continui a considerare valida e quindi ad accettare questa costituzionalità, bisogna non esagerare nell'uso di simili comunicazioni d'emergenza. Quel che importa, come sempre, è che l'autentico spirito del dialogo - il quale è interesse a capire non meno che interesse a convincere - non vi risulti soverchiato da una troppo unilaterale, anche se eroica, volontà di propaganda, per di più sostenuta da una sorta di calcolo sulla pietà altrui, e sull'altrui obbligazione a venire in soccorso.

 
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