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Piccardi Leopoldo - 1 agosto 1961
I CITTADINI AD ARBITRIO DI S.E.
di Leopoldo Piccardi

SOMMARIO: Dettagliata analisi degli emendamenti, presentati da alcuni deputati DC, al disegno di legge sulla cittadinanza in discussione al Parlamento. Se venissero approvati, quegli emendamenti consentirebbero la "revoca della cittadinanza", qualora concessa per decreto del capo dello Stato, a coloro che compissero atti o svolgessero attività "incompatibili coi doveri di fedeltà alla Repubblica". Secondo i proponenti, infatti, la cittadinanza "è conferita con atto di concessione", che non dà luogo ad un "diritto inalienabile".

L'a. smantella via via le tesi dei proponenti (tesi che in Parlamento sono state contrastate solamente dall'opposizione) e fa la storia dei vari progetti di "revoca della cittadinanza", a partire dai due provvedimenti legislativi fascisti del 1926, chiaramente liberticidi. Ricorda come, specialmente con il secondo, il fascismo diede il via alla "lotta contro il fuoriuscitismo violando antiche e valide norme universalmente riconosciute. "La privazione della cittadinanza per ragioni punitive...è in contrasto con i principi della moderna democrazia", e riporta alla memoria le antiche pene espulsive e le "messe al bando" oggi respinte dai governi e dalle coscienze democratiche. L'art. 22 della Costituzione è nato su questi precedenti. L'Italia non deve farsi coinvolgere dalle logiche della "ragion di Stato", neppure nella vicenda dell'Alto Adige, che certamente ha dato lo spunto a questa iniziativa illiberale.

(IL MONDO, 1 agosto 1961)

Nel momento in cui ci accingiamo a scrivere, deve considerarsi sventato il tentativo di far approvare anche dalla Camera, in assemblea, nel clima di emotività creato dalla situazione dell'Alto Adige e dall'impazienza per le imminenti vacanze, le disposizioni sulla revoca della cittadinanza, già varate al Senato. Vale tuttavia la pena di parlarne, perché le commissioni della Camera non hanno respinto quelle disposizioni, ma hanno soltanto rinviato il loro esame alla ripresa autunnale, e frattanto hanno già respinto, sia pure con una stretta maggioranza, l'eccezione di incostituzionalità sollevata dall'opposizione. La battaglia, che è una grossa battaglia per la democrazia italiana, è quindi soltanto differita: nell'attesa che essa giunga alla sua fase conclusiva, è bene che l'opinione pubblica si renda conto della sua importanza. E giustizia vuole che, giunti a questo punto, si cominci a prendere atto del comportamento assunto, di fronte al problema, dalle varie forze politiche. E' triste, ma doveroso dire, a

questo proposito, che ancora una volta la difesa dei principi di libertà ai quali si ispira il nostro ordinamento costituzionale è stata lasciata alla sinistra socialista e comunista, mentre liberali e socialdemocratici, insieme ai neofascisti, hanno prontamente aderito all'iniziativa democristiana e i repubblicani si sono limitati a riserve che hanno trovato la loro espressione in una astensione dal voto.

Abbiamo così potuto constatare con quanta facilità, per iniziativa della maggioranza democristiana e con la connivenza di forze che amano vantare un primato di fedeltà alla democrazia, si possa tentare, con forti probabilità di successo, di inserire in una legge di questa nostra Repubblica democratica norme di schietta ispirazione fascista, contrastanti con i principi accolti in tutti i paesi ove l'ideale della libertà è tenuto in onore.

Ecco la storia della vicenda. Sottoposto dal governo al Senato un disegno di legge sulla cittadinanza, in sostituzione della legge, tuttora vigente, del 1912, fu presentato dai senatori democristiani Antonio Romano, Piasenti, De Bosio ed altri, un emendamento all'art. 6: dopo l'unico comma di questo articolo, ove si stabiliva l'obbligo di chi ottiene la cittadinanza per decreto del Capo dello Stato di prestare giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le altre leggi dello Stato, si proponeva di aggiungere altri tre commi, che è bene trascrivere letteralmente:

»Il decreto di concessione della cittadinanza può essere revocato se la persona cui si riferisce svolga attività incompatibili con i doveri di fedeltà alla Repubblica e alle sue istituzioni.

»Incorrono nella perdita della cittadinanza coloro che l'abbiano acquistata o riacquistata in applicazione delle leggi speciali, qualora svolgano le attività indicate al comma precedente.

»La revoca del decreto e la perdita della cittadinanza, di cui al secondo e terzo comma, sono pronunciate con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'Interno, sentito il Consiglio di Stato .

Questa proposta, alla quale il governo diede la sua pronta adesione, fu illustrata da alcuni senatori democristiani, fra i quali non mancavano giureconsulti ormai noti all'opinione pubblica per lo zelo con cui sogliono porre il proprio sapere a disposizione delle più azzardate cause governative. Le ragioni addotte a sostegno dell'emendamento furono infatti quelle che è lecito attendersi dai giuristi del regime. La cittadinanza, si disse, è conferita con un atto di concessione, il quale »non dà luogo ad alcun diritto inalienabile ; lo "status" di cittadino che ne deriva rimane perciò condizionato »al rispetto delle regole della cittadinanza italiana sottoscritto all'atto del giuramento . Discorsi che, dal punto di vista giuridico, sono piacevoli facezie: perché ogni studente di giurisprudenza sa che da un atto di concessione può derivare il diritto il quale, quando è nato, segue, per quanto concerne la sua vita e le sue possibilità di estinzione, le norme che gli sono proprie; e, quanto al giuramento, è chiar

o che si tratta di un atto solenne destinato a richiamare l'attenzione dell'aspirante cittadino sui doveri che derivano dallo stato che egli sta per acquistare, senza che la concessione si muti in una specie di rapporto contrattuale, soggetto a risoluzione per inadempienza di una delle parti. Non meno inconsistenti furono le ragioni addotte dalla maggioranza per respingere l'eccezione di incostituzionalità sollevata dall'opposizione, che giustamente si richiamava all'art. 22 della Costituzione, ove si dichiara che nessuno può essere privato della cittadinanza per motivi politici. La norma costituzionale, sostennero i fautori dell'emendamento, parla di motivi politici; noi, nella nostra proposta, non ne parliamo e perciò siamo in regola. Argomento di cui è facile valutare, oltre alla serietà, l'innocente tartufismo.

Ma gli arzigogoli giuridici escogitati per giustificare l'emendamento appaiono tanto più futili se si tiene presente la storia della questione: perché la revoca della cittadinanza è uno di quei temi che hanno una storia.

Storia nostra, storia italiana, innanzi tutto. Il fascismo, nel periodo in cui stava costruendo il suo sistema di oppressione, adottò due distinti provvedimenti legislativi in materia. Il primo (R.D.L. 10 gennaio 1926 n. 16) consentiva di privare della cittadinanza coloro che l'avessero acquistata in seguito ad opzione e se ne fossero dimostrati indegni per la loro condotta politica: era questa chiaramente una misura con la quale il governo fascista si illudeva di superare le difficoltà che erano sorte nei rapporti con i gruppi allogeni passati all'Italia in seguito ai trattati di pace. Il secondo provvedimento (legge 31 gennaio 1926, n. 108) prevedeva la revoca della cittadinanza nei confronti di chiunque commettesse all'estero fatti diretti a turbare l'ordine pubblico nel Regno, o da cui potesse derivare danno agli interessi italiani o diminuzione del buon nome o del prestigio dell'Italia. Aveva così inizio la lotta contro il fuoriuscitismo, che il fascismo doveva proseguire poi con mezzi più risolutivi: l

'assassinio dei fratelli Rosselli insegni.

L'esistenza di questi precedenti avrebbe dovuto mettere in guardia partito di maggioranza e governo. Sembra, al contrario, che si sia creduto di poterne trarre ispirazione. L'emendamento alla legge sulla cittadinanza segue infatti la linea dei due provvedimenti legislativi fascisti, accompagnando una norma generale a una speciale disposizione che, con il trasparente richiamo alle leggi speciali, allude agli alto-atesini. Certamente l'odierna proposta è molto meno grave dei provvedimenti adottati dal fascismo, perché esclude dalla sua applicazione i cittadini che siano tali per nascita o per matrimonio. Ma l'analogia rimane.

Se qualcuno avesse poi dei dubbi sul carattere illiberale che era proprio alle leggi fasciste, indipendentemente dalle circostanze in cui furono emanate e dalle loro finalità, si potrebbe ricordare che, nel periodo fra le due guerre, della revoca della cittadinanza a titolo punitivo fecero largo uso tutti i governi totalitari, i nazisti come i sovietici. Ciò che segnò una ripresa del movimento contro un sistema considerato antidemocratico e inumano: movimento non nuovo, perché già nel 1896 l'Istituto di diritto internazionale, nella sua sessione di Venezia, aveva proclamato »la snazionalizzazione, non può essere imposta a titolo di pena .

La privazione della cittadinanza per ragioni punitive o comunque di difesa dello Stato è dunque per se stessa in contrasto con i principi della moderna democrazia. E la ragione è chiara. Nella revoca della cittadinanza rivivono le antiche pene espulsive che, nelle loro varie forme, dalla "interdictio acquae et ignis" al bando, si sono perpetuate nella storia dei popoli, ma sono oggi respinte dalla coscienza dei popoli democratici. Chi viene meno ai doveri che derivano dalla convivenza civile può essere punito, perfino con la pena capitale: non può essere espulso dalla comunità di cui fa parte. Esiste, in seno a ogni collettività civile, un vincolo di fraternità che non può essere infranto.

Questa storia e questi sviluppi della coscienza politica e morale stanno alla base dell'art. 22 della Costituzione repubblicana, il quale deve essere inteso alla stregua dell'una o degli altri. E soprattutto deve essere inteso come una manifestazione di quella polemica contro il passato che, diceva Calamandrei, è propria di ogni costituzione. Il legislatore costituzionale ha voluto condannare gli incivili provvedimenti del fascismo: non si venga oggi a sostenere la costituzionalità di disposizioni che di quei provvedimenti seguono le orme.

Ma l'Alto Adige? Non è dunque consentito allo Stato di difendersi da una minoranza che non esita a ricorrere ai più brutali sistemi del terrorismo? Questo è il ricatto che ci si vuole fare e che dobbiamo fermamente respingere. Il problema dell'Alto Adige è grave e di non facile soluzione. Ma su un punto abbiamo idee estremamente chiare; e siamo ben decisi a sostenerle. L'Alto Adige non deve diventare un centro di infezione antidemocratica, non deve diventare un pretesto per il corrompimento delle nostre istituzioni: la nostra piccola Algeria, come da più parti si è detto.

D'altronde, sarebbe facile dimostrare, se ne avessimo il tempo e lo spazio, che, dal punto di vista della semplice efficacia pratica, lo emendamento all'art. 6 del disegno di legge sulla cittadinanza è anche una miserevole trovata, destinata a non avere attuazione o a coinvolgere il nostro paese in un gioco dagli sviluppi pericolosi e imprevedibili. La logica della ragion di Stato, con le sue posizioni di forza e la sua disinvolta manomissione dei principi, è anche quasi sempre una logica imbecille. Il che è di grande soddisfazione per i galantuomini.

 
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