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La Voce Repubblicana - 27 marzo 1962
I radicali coerenti

SOMMARIO: Approva la scelta di quanti, nel momento in cui il partito radicale si sta sfaldando, hanno deciso di non confluire nel partito socialista. Chi sono coloro che invece privilegiano questa ipotesi?: Essi non sono identificabili né negli "azionisti" né nei "democratici". "Si tratta piuttosto...di un gruppo estremamente vario che non ha fino a questo momento riflettuto a fondo sulla dialettica politica del nostro Paese e sulla validità di uno schieramento democratico".

La scissione in atto nel partito radicale rievoca la crisi del partito d'Azione del 1945-46: anche quel partito subì una "crisi di sbandamento", anche allora si fece sentire "il richiamo del partito socialista", anche allora la "distruzione del partito d'Azione non servì però a "determinare un'azione politica coerente e univoca da parte del partito socialista". Così oggi, "ripetere la diaspora" e "recare forze al socialismo, di cui il socialismo non ha neppure bisogno" supera "i limiti della razionalità e del buonsenso". Ma, invero, "i radicali de 'Il Mondo' e di 'Nord e Sud', i goliardi della 'libertà della cultura'" "hanno scelto ancora una volta la strada difficile di una minoranza democratica" piuttosto che la confluenza "eterogenea" in un"partito di massa".

(LA VOCE REPUBBLICANA, 27-28 marzo 1962)

Il partito radicale nacque sei anni or sono dal cuore e dalla mente di un gruppo di eredi di una grande tradizione di cultura e di politica del nostro paese: il laicismo che va da Machiavelli a Croce, il filone del liberalismo italiano che parte da Cavour e arriva a Gobetti e Amendola.

Esso raccolse, intorno al più libero settimanale che abbia avuto sino ad oggi l'Italia, gli scrittori di "Stato Moderno", quanto del partito liberale non era stato travolto dalla dittatura fascista né corrotto dai potentati economici, alcuni scrittori di origine azionista, il meridionalismo democratico di "Nord e Sud", i giovani dell'Unione Goliardica Italiana. La causa occasionale della sua nascita fu la crisi del centrismo degasperiano e l'inizio della coraggiosa battaglia per un nuovo equilibrio politico, la cui prima fase si è conclusa in questi giorni con la votazione in Parlamento del nuovo Governo di centro-sinistra.

A questa battaglia si associarono uomini e gruppi di diversa formazione e di eterogenea inclinazione, i quali hanno ritenuto oggi, di aver esaurito il loro compito e di doversi orientare verso una collocazione politica ad essi più congeniale, anche se meno autonoma ed originale.

Non sono identificabili in questo gruppo che oggi abbandona gli ideali del partito radicale né gli "azionisti" come dice il "Paese" di stamane (Piccardi non fu mai azionista, ma bene, lo furono Valiani e Paggi) né tanto meno i "democratici". Si tratta piuttosto, a nostro parere, di un gruppo estremamente vario che non ha fino a questo momento riflettuto a fondo sulla dialettica politica del nostro Paese e sulla validità di uno schieramento democratico.

Con la odierna scissione del P.R. si ripete in effetti in condizioni politiche ben diverse, e tra l'altro meno drammatiche, l'esperienza che fu già una volta del Partito d'Azione. Anche allora, nel 1945-46, una formazione nata su uno schietto filone democratico, che alla battaglia democratica aveva dato uomini, vite, pensiero e azione, e che si era qualificata come la forza fondamentale della Resistenza all'antifascismo accanto e più dei comunisti (come riconosceva giorni addietro uno scrittore non certo tenero verso il Partito d'Azione) subì una crisi di sbandamento, di confusione ideologica e di incertezza politica che ne determinò la fine e provocò un grosso vuoto nell'articolazione politica democratica. Anche allora il richiamo del Partito Socialista fu per molti più valido di qualsiasi determinazione ideologica, di qualsiasi tradizione e di qualsiasi richiamo alla funzione propria di una forza democratica. Ma le conseguenze di quell'errore sono oggi ben chiare; come la distruzione del Partito di Azione

non servì a determinare un'azione politica coerente e univoca da parte del Partito Socialista, che finì per inglobarsi nel Fronte popolare, così essa provocò al centro-sinsitra una dispersione di forze, una diaspora di energie intellettuali e morali che non si può dire abbia minimamente giovato al consolidamento della permanente forza democratica di cui le nostre istituzioni hanno bisogno.

La funzione di questa forza la si vede al tempo della battaglia istituzionale, che portò infine alla Repubblica. E nessuno, ormai, la disconosce oggi che una seconda grande battaglia per lo sviluppo democratico del paese, la battaglia per il centro-sinsitra, è vinta a metà. Ma che proprio in questo momento, quando si tratta, tutti insieme, di raccogliere i frutti della battaglia combattuta insieme, della battaglia in cui le forze radicali hanno avuto un'importanza di prim'ordine, spesso anticipando a costo di alcune asprezze e di molte incomprensioni, le soluzioni politiche oggi raggiunte, che proprio oggi il partito radicale trovi opportuno scindersi, e ripetere la diaspora, democratica e recare forze al socialismo, di cui il socialismo non ha neppure bisogno, questo supera a nostro parere i limiti della razionalità politica e del buon senso.

Non abbiamo niente, personalmente, contro coloro che si recano, o si recheranno, prima o poi, nel socialismo. Ma politicamente il loro errore, provenendo essi in origine da un partito assai ideologicamente definito e caratterizzato come il partito radicale, ci appare assurdo. E proprio per questo siamo lieti che coloro i quali avevano più autentiche radici morali, culturali e politiche abbiano preferito rispettare una vocazione democratica e laica che non tollera compromessi, riaffermando con coerenza le permanenti ragioni di distinzione e di autonomia di una posizione che non è socialista e non si esaurisce con il successo della battaglia per il centro-sinsitra. E così i radicali del "Mondo" e di "Nord e Sud", i goliardi della "libertà della cultura" hanno scelto ancora una volta la strada difficile di una minoranza democratica piuttosto che quella della confluenza eterogenea in un partito di massa o dell'eresia socialista.

Questa scelta non può non confortare quanti hanno apprezzato in questi sei anni le battaglie radicali; essa preserva, per il presente e per il futuro, l'essenziale. I democratici sanno di dovere a questi uomini, ai più noti e ai più giovani, rispetto e gratitudine: anche per questa fedeltà al proprio destino, che spesso non paga i contemporanei, ma garantisce l'avvenire di una società più democratica e più libera.

 
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