Questo documento è stato redatto da Angiolo Bandinelli - Silvio Pergameno - Massimo Teodori
SOMMARIO: Rivolgendosi espressamente alla classe dirigente della sinistra italiana, il "libro bianco" si propone di ovviare, almeno parzialmente, alla disinformazione e all'ostracismo sul Partito radicale con cui gli apparati dei partiti della sinistra tentano di soffocarne la vita.
5. Il Partito Radicale e i partiti della sinistra
5.1. Il PR e il Partito Comunista Italiano
5.2. Il PR e il Partito Socialista di Unità Proletaria
5.3. Il PR e il Partito Socialista Unificato
5.4. Il PR e il Partito Repubblicano Italiano
(EDIZIONI RADICALI - bozze di stampa - ottobre 1967)
5.3. Il PR e il Partito Socialista Unificato
"Liberare le forze socialiste dalla formula del centro-sinistra". Questo, nella sostanza l'appello contenuto nel documento della segreteria nazionale del PR del 2 gennaio 1966, in occasione della crisi di governo:
"Il PR afferma che la politica effettivamente svolta dal quadripartito di Centro-Sinistra trova nel Parlamento, se non nel Paese, una sola possibile conseguente maggioranza, ben diversa da quella che ci si ostina ancora a considerare omogenea e necessaria: Democrazia Cristiana, Partito Liberale, notabili della destra socialdemocratica e monarchica potrebbero assicurarne una prosecuzione malgrado tutto più ordinata, rigorosa e meno contraddittoria, senza per questo esporre il Paese a pericoli maggiori di quanti non ne subisca attualmente".
Denunciare gli errori che la classe dirigente socialista, anche quella che i radicali non assimilano alle frange trasformistiche della peggiore socialdemocrazia italiana, per un malinteso senso di corresponsabilità nei confronti di "tutto" l'esperimento di Centro-Sinistra, è venuta compiendo di fronte alla Democrazia Cristiana; individuare e mettere in luce i punti possibili di rottura e di crisi dell'equilibrio governativo per consentire, comunque, di spostarlo più avanti a vantaggio dei settori laici e socialisti; appoggiare esplicitamente quegli esponenti, quei settori socialisti che intendono in maniera più rigorosa, battagliera, coerente, il significato della propria "attuale" presenza nel governo; favorire e richiedere la presenza dei compagni socialisti in tutte le sedi di iniziativa e di organizzazione in cui si realizzi una battaglia unitaria di sinistra: questi modi con i quali i radicali hanno inteso, senza preclusione e settarismi, e senza perdere di vista l'obiettivo della costruzione di una alt
ernativa alla Democrazia Cristiana "e al regime", promuovere il confronto ideale e programmatico con i socialisti del PSU.
Alle prime notizie sulla gravità della malattia del Presidente Segni, il PR, attraverso "AR", invitò le forze della Sinistra a considerare l'opportunità della candidatura Saragat che esprimesse una alternativa laica alla direzione cattolica dei massimi organismi dello Stato. L'indicazione non prescindeva da una valutazione del significato della Presidenza Segni, soprattutto in relazione alla crisi dell'estate 1964. I radicali davano anche l'appoggio all'iniziativa, poi non realizzatasi, di un comitato per la promozione di adesioni alla candidatura. Subito dopo l'elezione, la prima pubblica manifestazione di saluto al nuovo Presidente, in piazza del Quirinale, partì dai gruppi giovanili del PR.
"Considerare il problema della Presidenza della Repubblica solo in relazione alle contingenti avventure e disavventure socialiste ed al loro sviluppo sarebbe miopia non solo per l'On. Nenni, ma anche da parte dei compagni del PSIUP.
Mitizzare infine la persona di Saragat, al punto da astrarlo completamente dal contesto internazionale nel quale in definitiva egli non può non porsi, significa oltre tutto dimenticare che per la sinistra italiana il problema di un contatto reale, polemico, critico, ma serio, con la socialdemocrazia europea costituisce il punto di crisi che deve essere risolto se si vuole sperare in un vero progresso sulla via dell'unità e dell'alternativa socialista.
Vedere solo il carattere popolare del movimento cattolico, ed ignorare quello infinitamente più vasto e generale del socialismo democratico tra le masse dei lavoratori europei e inoltre ancora un limite che può essere letale per lo schieramento di opposizione socialista in Italia.
Per tutte queste ragioni, ed altre che analizzeremo nei prossimi giorni, quanti esprimono, da radicali, su "A.R.", appoggeranno ogni iniziativa volta a sostenere la possibilità e la necessità di una candidatura unitaria della sinistra italiana, per ora cercando di approfondire il significato e la possibilità di una battaglia fatta sul nome di Giuseppe Saragat".
Quella per Saragat fu certamente una battaglia vittoriosa per la Sinistra la quale, pur con le sue incertezze e divisioni, riuscì in quel momento ad opporre una alternativa al candidato della DC e delle destre.
Lo schieramento pro Saragat si era sviluppato nel corso della battaglia parlamentare e del dibattito nel Paese. Era un esempio di come, in una prospettiva non a lungo termine, le forze di sinistra potessero decidere, loro, i motivi e le occasioni della propria battaglia politica.
"L'obiettivo dell'unità della sinistra, di tutta la sinistra, e la creazione di una alternativa di potere al regime democristiano sono esigenze urgenti e indilazionabili dello sviluppo democratico del paese e non possono essere affidate alla politica dei tempi lunghi sostenuta dall'on. Nenni.
L'opinione pubblica democratica e socialista, di cui lo stesso Nenni avverte la crescente sfiducia nelle operazioni e nelle formule di compromesso, chiede che sia restituita alla lotta politica chiarezza di scelte democratiche e di alternative ideali e non crede che sia possibile trasformare lo stato in alleanza con le forze clericali e conservatrici".
Questa dichiarazione veniva rilasciata dalla segreteria del PR in merito all'intervista dell'on. Nenni all'"Espresso", nell'agosto 1965. Ma un conforto più autorevole veniva alle analisi dei radicali dall'intervista che Guy Mollet, rilasciava ad "AR" del 2 ottobre 1966, n. 120, nella quale quel "leader" socialdemocratico, che mai aveva abbandonato l'aspra polemica antistalinista, dichiarava che era giunto il momento di porsi come obiettivo quello della unità strutturale di tutte le famiglie socialiste, essendo venute mono le differenziazioni ideologiche, di analisi e di obiettivi, che avevano portato alle scissioni degli anni '20. Una dichiarazione così importante, che del resto preludeva ai successivi e noti sviluppi della politica delle sinistre in Francia, non veniva raccolta da alcun organo ufficiale socialista.
I radicali seguivano con interesse la campagna del Ministro Mariotti per la riforma ospedaliera, nel contesto dell'inchiesta e delle denunce relative allo scandalo dell'assistenza pubblica a Roma e in Italia; inchiesta che chiariva, se mai in laico come Mariotti ne avesse avuto bisogno, il quadro di sfondo da cui ben risultava quali fossero le forze, gli interessi, le collusioni che alla sua riforma si sono opposte, rendendone precario il varo in questa legislatura o impedendone, comunque, l'integrale realizzazione secondo i progetti originari.
Di fronte a questa battaglia, di rottura, del Ministro socialista, non vi era, da parte radicale, distacco, ma impegno e senso di responsabilità. Purtroppo la campagna radicale ed i suoi echi nella stampa non riuscivano al risultato di fare avvertire, nell'interno del PSU, l'importanza di collegare in un unico fronte - l'unico, del resto, che consentisse probabilità di vittoria o almeno l'isolamento anche presso l'opinione pubblica del vero, "comune" avversario - la difesa del progetto Mariotti ed il sostegno alle denunce radicali.
L'ingresso del PSU nel governo ha portato, evidentemente, ad un aggiustamento delle diverse posizioni nell'interno del partito. Per quanto ci riguarda ed a partire anche dai punti di contatto e di dissenso che abbiamo avvertito con i diversi settori del PSU, ci pare evidente che in questo partito le vecchie distinzioni tra "sinistra" e "destra" entrano ormai in crisi. L'on. Lombardi ritira la sua adesione alla manifestazione anticoncordataria del teatro Adriano: l'on. Codignola è tra i promotori del congelamento dell'ADESSPI anche perché a Roma, troppo "radicale" e "promotrice di una manifestazione di massa"; per la stessa ragione, gli onorevoli Fenoaltea e Caleffi, sottosegretari al Ministero della P.I., hanno evitato contati con le iniziative della associazione, neppure invitata ad uno dei tanti convegni promossi dal Ministero; l'"Avanti!" teme di dare adito a ritorsioni di "laicismo" quando continuamente trascura le manifestazioni, la lotta quotidiana, della "Lega Italiana per il Divorzio" o il fatto che
l'on. Ballardini, presidente della Commissione Affari Costituzionali, partecipi il 20 settembre ad una manifestazione laica, assieme ai radicali, a Porta Pia: del resto questo giornale è stato tra i più avari di notizie anche sull'appoggio radicale a Saragat o sulle inchieste relative all'ENI e a Petrucci, o sulle iniziative di "azione diretta", dopotutto intese a promuovere un più largo fronte per la realizzazione di quei diritti civili che dovrebbero essere sostanza politica di una posizione socialista e democratica. Quanti, tra i compagni socialisti, semplici militanti o in posti di responsabilità, hanno avuto dal loro giornale la notizia di una iniziativa, la campagna radicale sull'assistenza pubblica, che ampliava e sostanziava lo schieramento di forze in sostegno di un "ministeriale" socialista, il Ministro Mariotti?
In questi anni, il PR non ha avuto nessun contatto con le dirigenze socialiste - prima nel PSI e PSDI, e poi nel PSU. E' nel corso di una inchiesta promossa da "Corrispondenza Socialista", che non è organo del PSU, che l'allora segretario nazionale del PR poteva globalmente ricordare perché in battaglie "socialdemocratiche" ("case, scuole, ospedali") oltreché in quella per il divorzio, i radicali riconoscessero "contenuti" validi per l'iniziativa nuovamente unitaria della Sinistra. E' con i militanti socialisti che aderirono al "Comitato Italiano per l'Unità della Sinistra" e che aderiscono sempre più numerosi alla "LID", con quei socialisti che in diverse associazioni democratiche come l'ALRI e l'AIED conducono campagne per i diritti civili, che i radicali continuamente si incontrano in iniziative, feconde per il PSU non meno che per il PR.
Ma, soprattutto, si deve alla eccezionale forza politica dimostrata dall'on.le Fortuna, alla sua capacità di divenire in condizioni difficilissime un punto di riferimento e di raccordo per la generale volontà laica che contraddistingue la base organizzativa ed elettorale del PSU, alla sua decisione di combattere lealmente con coloro che dimostravano di impegnarsi senza riserva per l'istituzione del divorzio in Italia, se il PR ha potuto finalmente vedere raccolta dall'opinione pubblica questa sua tradizionale posizione che si era tradotta nel passato in una dura ma isolata lotta di avanguardia. E quante altre battaglie "popolari, di massa", i socialisti possono vantare di avere portato avanti nel Paese e in Parlamento, in questa legislatura, oltre a quella per il divorzio, che i Ferri, gli Zappa, i Reggiani si ostinano a congelare?
Che i radicali potessero essere interessati alla Unificazione socialista, non v'è dubbio. Ma a condizione che "nuovi obiettivi di lotta, nuovi metodi" e "strutture politiche", un "nuovo slancio" - se pure riformistico - fossero stati sostanza di quella che poteva divenire una operazione politica di importanza storica. Invece il processo di unificazione, così come gli avvenimenti che hanno seguito, dimostrano la sostanziale ""vecchiaia"", nella politica non meno che nei richiami ideali, di quella Unificazione. I radicali, pure se dovettero considerare questo avvenimento come un fatto che li riguardava, di fronte ai suoi sviluppi non poterono che sentirsene sempre più estranei, esterni cioè alla "vecchia sinistra" per costruire, anche a partire da essa, ma non solo, una "nuova sinistra". L'articolo apparso su "Corrispondenza Socialista" del dicembre 1966 a firma del segretario nazionale del PR, rifletteva i deliberati della Direzione Nazionale in merito ai problemi sollevati dalla Unificazione. E' per questo c
he ne diamo di seguito il testo integrale.
"Il partito unificato si forma mentre il progressivo europeizzarsi della nostra società fa nascere anche in Italia, nelle grandi masse lavoratrici, una più moderna ed esigente volontà democratica e laica. Antiche caratteristiche e tare del nostro paese, legate al predominio di strutture culturali e sociali d'origine controriformistica e clericale, d'un tratto si trovano scoperte agli occhi delle grandi masse dei cittadini che prendono coscienza di quali siano le tradizioni autoritarie e reazionarie che sorreggono l'attuale regime. La conoscenza sempre più estesa ed approfondita delle caratteristiche essenziali delle società civili si traduce nella spontanea denuncia di una situazione politica in cui ciascuno, operaio o intellettuale, studente o pensionato, credente o ateo, si sente ogni giorno meno libero e responsabile. Opposte cristallizzazioni ideologiche hanno sin qui intrinsecamente limitato - a prescindere dalla ovvia e preminente funzione svolta in questo senso dal clericalismo - questa forma di cosci
enza.
Il "liberalismo" - tutto teso ad una rivendicazione di libertà che potremmo chiamare del "tempo libero", che prescindeva cioè in concreto dall'analisi delle effettive condizioni di esistenza e di lavoro in cui tanta parte della vita umana si consuma - ha per decenni difeso solo concetti e forme di libertà il cui esercizio era storicamente vietato, e continuava ad essere vietato, alle grandi masse lavoratrici. Così, per popolazioni in cui l'analfabetismo era ancora prevalente, la libertà di esprimere o formare le proprie opinioni attraverso la libertà di stampa non poteva che costituire l'eco di un mondo loro vietato; e la libertà di pensiero e di parola, concessa intimamente alla libertà di ricerca e di studio, si sostanziava in strutture civili in cui il dibattito e la discussione pubblica erano possibili solo per estreme minoranze; l'uguaglianza dinnanzi alla legge si vanificava: l'impossibilità di conoscerla si traduceva nella impossibilità di riconoscere il proclamato carattere di tutrice dei diritti di
ciascuno, impedendo in definitiva l'uso della amministrazione della giustizia; la libertà di coscienza e di culto non poteva che interessare i pochi, occasionalmente raggiunti dalle polemiche religiose che avevano cittadinanza in tutto il mondo civile ma non in paesi come l'Italia. Così, per non aver voluto o saputo difendere in concreto le libertà storicamente negate alla maggioranza dei cittadini, a partire dai rapporti di lavoro e dalle loro implicazioni sociali, il liberalismo teorizzatore dello Stato di diritto svolgeva praticamente in Italia una funzione di classe ed usava di fatto del suo patrimonio ideale in questa prospettiva.
Contemporaneamente il mondo socialista, specie con il sopravvenire della rivoluzione di ottobre, accantonava la pur secolare sua tradizione rivolta alla emancipazione politica dell'uomo, oltre che a quella economica, relegando nel dimenticatoio, o addirittura nel calderone delle idee scomode o nemiche, ideali che s'incarnavano storicamente con la volontà di liberazione del mondo moderno.
Oggi, dicevo, la società italiana si europeizza, si civilizza. Guardate cosa avviene, ad esempio, in fatto di divorzio. Famiglie dannate da decenni, figli che hanno sofferto da sempre di condizioni sociali minorate, uomini e donne che vivono per loro e per i loro successori in un clima di continuo timore e inferiorità, centinaia di migliaia di emigrati o di separati da emigrati, rassegnati sino a ieri a considerare umanamente non risolvibile la propria situazione, milioni di cittadini, in totale, prendono coscienza di cosa significhino Stato clericale, laicismo e confessionalismo, diritti del cittadino, una società libera o una società incivile ed oppressa. Se molto spesso essi entreranno inizialmente nella particolare aspirazione che li concerne più direttamente la loro esigenza di laicizzazione dello Stato, contemporaneamente essi prendono anche coscienza di secolari opposizioni, di scelte fondamentali che in Italia hanno potuto essere rimandate solo attraverso una concezione tipicamente cattolica e populi
sta della politica. "E' in definitiva la politica stessa che emerge per la prima volta, per milioni di esseri, in tutta la sua importanza, tutta la sua intelligibilità, nella sua autonomia e nella sua forza, buona o cattiva". V'è qui in generale in fenomeno nuovo di "partecipazione" che cerca ed esige di esprimersi in forme istituzionali che non si ritrovano in questo Stato, e forse meno ancora nei partiti tradizionali così come si sono strutturati e continuano a strutturarsi. E, qui è il punto, senza il realizzarsi della "partecipazione" del cittadino alla vita pubblica non si ha "consenso", non si ha forza "democratica"; si avranno tutt'al più seguaci e sudditi, occasionali incontri, generiche simpatie, passive condiscendenza, diffidente rassegnazione; e, alla lunga, ribellismi e rivolta.
Orbene, qual è il nesso fra questo momento di progresso civile della società ed il fatto della unificazione, così come avviene? Se fossero conseguenti con quanto in un anno hanno scritto su "Corrispondenza Socialista", molti degli intervenuti nel dibattito sull'unificazione socialista converrebbero che i Nenni, i De Martino, i Tanassi e gli Orlandi hanno mostrato di essere radicalmente estranei ad ogni loro istanza di serio rinnovamento, e che non si sono preoccupati d'altro che di "congelare" e rafforzare la chiusura burocratica già esistente nel PSI e nel PSDI. Il partito unificato, così come quelli hanno voluto prefigurarlo attraverso la Carta ideologica e le procedure prescelte, sarebbe ben più provinciale, arcaico, imponente di quanto non fossero già divenuti i due partiti. Tant'è vero che, per realizzare questa operazione, si sono sospese le garanzie democratiche pur minime presenti negli statuti e nelle prassi del PSI e del PSDI, costituendo anche ufficialmente in burocrazia la classe dirigente, ad og
ni livello, del partito unificato, che vedrà così vanificarsi ogni dibattito interno, fin dopo le prossime elezioni politiche, dalla conclamata "inamovibilità" dei dirigenti.
Contro "chi", è stato proclamato questo principio dell'inamovibilità se non "contro" coloro cui si rivolgeva l'appello di aderire al nuovo partito (che non avrebbe dovuto essere, si diceva, la pura e semplice somma dei due preesistenti)? Contro "cosa", se non contro i nuovi fermenti, i nuovi obiettivi che scaturiscono dalla base, connessi ai cambiamenti in atto nella società italiana? Contro lo stesso mito "socialdemocratico" che deve ormai essere controllato. Ora che di esso c'è più larga e esatta conoscenza nel nostro paese, diventa anch'esso pericoloso per una classe dirigente esaurita perfino nelle sue capacità trasformistiche. Perciò non vi diremo, come dicono i comunisti, i socialproletari e i socialisti che hanno lasciato il PSI in queste settimane, di non esser con il PSU perché contrari alla "socialdemocratizzazione" dell'Italia. Anzi, cominceremo proprio col rilevare che nelle procedure e nelle scartoffie della unificazione coloro che ne sono i principali attori mostrano di non volere nemmeno quest
o o di non saperlo volere.
Cosa infatti nel comune linguaggio politico si intende per socialdemocrazia? Cosa, dietro i ricorrenti esempi scandinavi o inglesi, in genere voi stessi evocate? Tralasciando quanto è proprio ad ogni forza genericamente democratica e liberale, ci si riferisce ad una società in cui il soddisfacimento di essenziali bisogni umani viene garantito dalla collettività ad ogni uomo per il solo fatto di esser nato. E viene garantito nel rispetto assoluto della democrazia politica e della civiltà laica, affermando come inalienabili e tutelate e promosse dallo Stato le libertà di coscienza, di pensiero, di espressione, di morale. Sono società in cui, a quanto si afferma in gran parte a ragione, l'uomo ha vinto i tradizionali ostacoli naturali alla propria esistenza, quelli derivanti dalla natura, dall'età, dalle malattie, dalle disfunzioni sociali ed economiche, fondando questa vittoria sulla libertà di ciascuno. Si è cioè realizzato in genere un piano di sicurezza sociale che ha portato a parlare di "Welfare State", S
tato assistenziale, in cui in effetti la vecchiaia non è più quotidiana mortificante scommessa di sopravvivenza, in cui il lavoro viene garantito e in condizioni moralmente tollerabili, l'infanzia è protetta, educata, istruita, la malattia curata. Ammettiamo questo quadro, in questa sede rinunciando alla pletora di se e di ma che pure affollano subito la mente di ciascuno di noi dinnanzi ai gravi problemi che si trovano oggi ad affrontare le società "socialdemocratiche" scandinave. Ebbene, queste realizzazioni possono costituire per una società come la nostra una lecita prospettiva; personalmente tenderei anzi a considerarle imperative e non dilazionabili. Aggiungiamo che ovunque queste realizzazioni sono state possibili, si sono realizzate attraverso l'unità politica e partitica della stragrande maggioranza dei lavoratori, costituitisi sempre in forza alternativa, laica, socialista. Non vi è esempio di "Welfare State" sorto in condizioni politiche diverse e meno che mai in situazioni caratterizzate dalla ro
ttura del movimento operaio e dalla collaborazione sistematica con le forze borghesi integrate da quegli strati di sottoproletariato che queste stesse forze della borghesia riescono spesso a mobilitare. Ma poiché so che quel che non è stato può avvenire domani o anche oggi, venivamo allora ad osservare più da vicino, per citazioni esemplari, la realtà italiana quale i socialisti democratici finiscono per individuarla.
Chi è d'accordo e che è contrario nel nostro paese, non solo sul piano ideologico ma per interessi "obiettivi", a realizzare un razionale e strutturato intervento pubblico nel campo dell'assistenza e della previdenza? Il Ministro Mariotti, nel denunciare i "lager" che spesso hanno nome di cliniche o di ospedali nel nostro paese, ha indicato una volontà pregiudiziale di riforma in questo settore. Ebbene, chi si è immediatamente posto contro? Chi possiede, gestisce, amministra, sgoverna e mortifica il settore dell'assistenza pubblica? Per gran parte "opere pie", enti "religiosi", organizzazioni confessionali, gli strumenti cioè della rivendicazione clericale del monopolio dell'assistenza. Né si tratta solo di una eredità storica, difficilmente liquidabile; ma di una continua quotidiana azione di liquidazione di quanto lo Stato e gli enti pubblici avevano salvaguardato durante il fascismo: di un sacco sistematico dei fondi enormi che ogni anno la comunità spende prevalentemente in "rette" e in "contributi", ela
rgiti in misura e con modalità tali da aver creato in questi due decenni il più gigantesco accrescimento del patrimonio ecclesiastico o clericale dal 1870 ad oggi. Spesso si afferma che difficoltà di bilancio impediscono allo Stato ed ai competenti enti pubblici di realizzare opere e strutture assistenziali proprie: ma l'affermazione è smentita dal fatto che "con le sole sovvenzioni pubbliche" il mondo clericale ha creato e sta creando queste strutture, che sono fonte evidente e sistematica di ulteriore arricchimento finanziario e di forza sociale. Sul piano più specifico della previdenza sociale e degli enti mutualistici lo Stato ha consentito - con il sistema che ha prescelto sotto la pressione degli interessi privati che si esprimono principalmente attraverso la DC - superprofitti giganteschi, non cifrabili se non per somme che sono nell'ordine di grandezza degli stessi bilanci dello Stato, all'industria farmaceutica, ad una cioè delle più esose forme di sfruttamento del lavoro e del cittadino. I socialde
mocratici italiani, è vero, hanno messo in questi venti anni lo zampino in tali settori, e una inchiesta parlamentare in corso chiarirà con quale profitto di sottogoverno e di corruzione. Sul piano politico ciascuno sa che è stato questo uno dei più tristi e vergognosi momenti del regime attuale, a giustificare il quale sarebbe assurdo e spudorato invocare l'esempio laburista. E' dunque con il centro-sinistra, è in collaborazione, sia pure difficile, tesa, contrastata, con il partito unico dei cattolici che davvero è possibile realizzare in questo settore la radicale, difficilissima riforma "socialdemocratica"? O non invece con la cooperazione di tutti i gruppi e partiti della sinistra, a cominciare dai comunisti? Non v'è città italiana in cui le fortune politiche della classe dirigente democristiana, di sinistra o di destra, non edificate anche o prevalentemente con il sistema di sfruttamento clericale (privato e parapubblico) dell'infanzia, della vecchiaia, della malattia, della miseria. Alla rivendicazion
e neotemporalistica degli ecclesiastici di aggiunge così, "autonoma", la necessità di sopravvivenza politica dei ministri e dei sindaci, dei segretari provinciali della DC e dei maggioranti di tutto il regime.
Ecco un esempio di riforma "occidentale", di metodo democratico, di obiettivo giusto che diviene, in quanto tale, elemento di crisi del centro-sinsitra ed oggetto di compromessi prima ancora che vanga proposta e portata in Parlamento, mentre l'unità delle sinistre potrebbe facilmente imporla.
E veniamo, sempre a titolo di esempio, ai diritti civili del cittadino. Esistono nel nostro paese, da sempre, condizioni sociali gravissime nel settore della famiglia. Per decenni i "leninisti" nostrani con la loro polemica "antiborghese", e i socialisti "democratiche" sì ma "classisti" hanno relegato il problema del divorzio, di una legislazione laica ed autonoma dello Stato a favore della famiglia, tra i miti anticlericali della borghesia. Di conseguenza, per altrettanti decenni gli abbienti hanno avuto accesso alla Sacra Rota, agli annullamento e ai divorzi stranieri, mentre da decenni, in una società in cui l'emigrazione esterna ed interna ha costituito forse il più massiccio fenomeno sociale di questi secoli, i fuorilegge del matrimonio, gli scomunicati civili si contavano a milioni. Gli emigranti analfabeti del Veneto e della Calabria che si trasferivano nelle Americhe lasciavano "vedove bianche", donne condannate alla schiavitù della miseria e dei figli e alla solitudine materiale e morale; lì le fami
glie illegali crescevano, ma crescevano ancor più di tutto il triangolo industriale unitamente al fenomeno degli illegittimi. D'un tratto, innestandosi sulla pertinace, dura ma soffocata polemica radicale, l'iniziativa di un parlamentare socialista, autonomista di "destra", l'on. Loris Fortuna, sostenuto da un movimento di opinione (sollecitato anche dalla campagna isolata di un settimanale "popolare" quant'altri mai), riesce a proporre al paese, attraverso il Parlamento, una possibilità di soluzione. Con chi la attuerete, se volete attuarla, amici socialisti unificati? Con i democristiani? O vi direte ancora quanto nemmeno i comunisti, nemmeno gli stalinisti sostengono più: essere questo un paese "cattolico" e perciò immaturo?
Il problema della casa... Altro obiettivo "socialdemocratico". Dov'è a distanza di tanti anni la riforma urbanistica? Forse che il Ministro Mancini e il suo partito sono acquisiti "direttamente" agli interessi particolari che stanno distruggendo, com'è stato detto per Agrigento, le nostre città, le campagne, i monti, i litorali, che stanno incatenando la vita sociale a forme di urbanesimo oltraggiose e stanno corrompendo una vastissima area della attività politica? Non lo credo, non può essere vero, non è "ancora" vero. Ma da che parte vivono e crescono rigogliosi, disponendo di un ampio potere sociale, politico, economico, i nemici di queste riforme, coloro che "devono" combatterle? Possono davvero, gli altri gruppi e partiti di sinistra, pur nei loro eventuali diversi metodi o piani, non votare quella riforma urbanistica e quei piani di edilizia popolare che nell'interesse del 99 per cento della popolazione potrebbe il ministro Mancini proporre in Parlamento o elaborare e comporre il partito unificato? Dop
o vent'anni di politica edilizia popolare (e giustamente in questo caso converrebbe ricordare il carattere populista e non democratico-popolare della DC), che ha dato i risultati che conosciamo, quale miracolo vi consentirà di proporre "queste riforme per queste generazioni", sottraendovi all'abitudine di proiettare le realizzazioni della socialdemocrazia europea degli anni trenta e quaranta come il "paradiso" per le generazioni italiane del duemila? Anche qui il paese non è maturo?
Ho fatto alcuni esempi "concreti", legati alla politica delle cose, alle cose possibili, a quelle sulle quali il 95 per cento dei cittadini italiani, se interpellati, esprimerebbero il loro consenso, apertamente al di là delle ideologie e dei partiti, totalmente refrattari ai vostri se e ma e no. L'equivoco populista di tutte le forze socialiste vi aiuta su questa strada: il fatto che il sottoproletariato fosse governato e strumentalizzato dal clero e, attraverso di esso, dall'industria, dalla finanza, dai padroni del vapore e dallo Stato corporativo, v'è sempre apparso poco chiaro e importante rispetto al fatto che l'autoritarismo clericale nel nostro paese ha trovato anche forme di espressione fasciste, e monarchiche, oltre che democristiane come se questo sbocco non si potesse presagire prendendo nozione del predominio delle forze clericali e controriformistiche della società.
Tralascio altri esempi (il cui senso, come per la scuola, può darsi per scontato) per venire alle dimensioni ideali della lotta politica contemporanea, che così spesso vengono invocate dagli attori dell'unificazione come determinanti per una scelta di centro-sinistra, di collaborazione con la DC e di rottura con i comunisti.
Giustamente e correttamente Guy Mollet ha recentemente rilevato che la rottura fra i comunisti e socialisti avvenne, e si aggravò, sulla pretesa della Internazionale, ormai a direzione bolscevica, di imporre al movimento socialista i due dogmi della ineluttabilità della guerra come mezzo rivoluzionario e del rifiuto della democrazia politica ritenuto strumento del dominio di classe della borghesia. Ne discendeva automaticamente tutto l'armamentario che abbiamo ben conosciuto e per quanto riguarda noi radicali sempre combattuto: dittatura del partito unico del proletariato, mito rivoluzionario basato sui baffi di Giuseppe Stalin e sulla "realtà" del socialismo in un solo paese, itinerario strategico in due tempi (socialismo l'uno comunista l'altro), internazionalismo sempre più fasullo ideologicamente e politicamente anche se moralmente ed umanamente comprensibile se non giustificabile. Avemmo per questa via da una parte la storia dei "socialtraditori" peggiori dei fascisti e dall'altra la storia (meno teoriz
zata e in qualche momento meno ingiustificata) dai "senzadio" stalinisti peggiori dei conservatori.
Ma oggi? Oggi ha ragione Mollet nel rilevare che le motivazioni della rottura fra comunisti e socialisti sono cadute con la rovina dello stalinismo. Certo, non potete ragionevolmente aspettarvi che Longo e Amendola o Ingrao vengano avanti con una dichiarazione giurata e protocollare di ripudio della dittatura del proletariato o di accettazione del pluripartitismo nella società socialista o di ripudio della guerra come mezzo rivoluzionario. Messi su questa strada, sentireste il bisogno di chiedere altro, di sottoporli alla prova della verità e di estendere l'inquisizione ad ogni dirigente nazionale, internazionale o periferico. Né d'altra parte potete pretendere che possano applaudirlo e venirvi a votare in Parlamento fin quando vi trovereste ala destra si Kennedy e di Morse e della maggioranza degli uomini politici democratici americani sulla guerra del Vietnam, per omissione di intervento specifico nella polemica e per l'abitudine di recitare il rosario della fedeltà atlantica, o sino a che non farete nemme
no le preghiere pubbliche che pure papa Paolo ha almeno intonato per la pace. Perché, anche in questo è patente l'arretramento rispetto alla politica estera della socialdemocrazia scandinava e anche della Federazione democratica e socialista francese, e al massimo esistono nel partito unificato nuclei di riserva neutralista ma nessun fermento ancora esplicito di pacifismo ed internazionalismo socialista.
Ed è questo un isolamento sempre più marcato, che il "nuovo" partito rischia di scoprire con qualche ritardo. Ovunque, in questi mesi i partiti europei dell'Internazionale socialista stanno radicalmente mutando posizioni. D'un tratto, molti di essi si trovano molto più a sinistra di Nenni e De Martino. E' vero che costoro si sono mossi verso destra in modo molto più rapido di quanto essi non lo facciano verso sinistra: ma la situazione vele la pena d'esser ricordata. In Austria il partito socialdemocratico accentua le sue posizioni neutralistiche. In Francia Mollet dichiara apertamente che l'unica riunificazione che in Europa deve oggi occupare i democratici-socialisti è quella con i comunisti. In Finlandia, per la prima volta dal 1948, socialdemocratici e comunisti sono uniti, su un programma socialdemocratico, al governo. Gli elettori socialdemocratici scandinavi, in Norvegia, Svezia e Danimarca, confortano di sostanziali aumenti non sospetti i partiti dell'opposizione di "estrema sinistra", comunisti e so
cialisti di sinistra. Nella stessa Germania Brandt e Wehner ricercano il colloquio con la SED.
I nostri socialisti unificati potranno senza dubbio ancora per qualche tempo rifiutare, con alcuni tatticismi e rinvii, l'evidenza dell'unità di obiettivi, sempre più ampia, fra comunisti e socialdemocratici, messa in rilievo dalla situazione internazionale non meno che da quella più specificamente italiana. Ma, pensiamo, non per molto. Dalla lotta a Tambroni alla nazionalizzazione dell'energia elettrica; dall'elezione di Saragat alla Presidenza della Repubblica alle lotte operaie dei metalmeccanici degli anni scorsi; dai casi Tabucchi ai pochissimi altri in cui la sinistra ha salvaguardato dinanzi ai cittadini la sua dignità e quella dello Stato, già molto sono gli esempi forniti dalla cronaca politica recente.
La stessa azione di alcuni fra i massimi esponenti governativi e parlamentari del partito unificato, noti per le loro posizioni di rottura con il PCI, sembra paradossalmente confermare che quanto molti comunisti e radicali e socialisti avevano pur sperato di udire nella Costituente mancata saranno gli avvenimenti politici a proclamarlo. E' infatti possibile che l'onorevole Mancini tragga la sua forza di resistenza e di denuncia su Agrigento dalla velleità di svuotare così le funzioni di protesta del PCI, oltre che di quelle radicali e socialproletarie. Guadagnerà, certo, così, qualche decina di migliaia di voti nella sua circoscrizione, aumentando in popolarità, e spuntando alcune accuse di inefficienza e di integrazione alla DC che vengono lanciate alla delegazione di governo del PSI. Ma, in definitiva, e su un piano ben più duraturo e grave, egli avrà contribuito alla battaglia tipica dell'opposizione: che è quella di mostrare che la responsabilità assolutamente di questo regime e del deterioramento della
democrazia è nel mondo dc e clericale, e che in ogni grande battaglia di progresso o di salvaguardia democratica lì, e non fra i comunisti, è oggi il nemico. Lo stesso accede al Ministro Mariotti: egli avrà certo sperato, negli anni scorsi, di potersi affermare come il portavoce italiano d'una socialdemocrazia che ovunque ha assicurato o tenta di realizzare in Europa vasti piani di sicurezza sociale ed uno stato assistenziale. Già ora, per molti versi, non resta di questa volontà che l'indicazione di una sfrontata manomissione clericale dell'assistenza pubblica e della previdenza sociale, con alcune purulente appendici nella burocrazia di un partito alleato. Ecco, di nuovo, che gli stessi "unificatori" della velleità anticomunista, creano essi stessi le premesse per nuovi e più profondi schieramenti unitari, dai comunisti a loro stessi, verso il loro "laburismo" italiano e contro la DC.
C'è poi l'iniziativa dell'on. Fortuna per il divorzio, che lega per la prima volta da decenni il socialismo ad una grande battaglia laica. Ammettiamo pure che, all'inizio, per l'on. Fortuna si trattava di conferire al nuovo partito del quale anch'egli è incondizionato sostenitore, un ulteriore punto di vantaggio rispetto al PCI, non dimenticato autore del pateracchio costituzionale dell'art. 7. Conosco abbastanza bene Loris Fortuna per sapere che non era questo "il senso principale" della sua battaglia; ma quand'anche lo fosse stato, che cosa ne sarebbe oggi? Il PCI ha fatto, in quest'anno, in senso laico, su questo delicato problema, passi da gigante mentre tutta la DC, tutto il mondo clericale si trovano costretti a confessare il tristo sanfedismo che è il presupposto e l'obiettivo della loro unità.
E senza Mancini a Mariotti, con i loro già notevoli limiti politici, con le loro contraddizioni, che li rendono ancora distanti dall'esprimere vere posizioni riformistiche, senza Loris Fortuna, cosa sarebbe questo centro-sinistra e questo partito unificato, se non la tomba di tutte le volontà e le iniziative di riforma e di rinnovamento maturate negli anni cinquanta? Le regioni, le leggi urbanistiche, la moralizzazione della vita pubblica, la riforma della scuola pubblica ed il suo potenziamento, una politica di pace e di autonomia, il federalismo europeo, una politica dei redditi che non fosse solo una versione della politica del blocco dei salari, una politica fiscale dignitosa invece della presente furibonda ripresa della tassazione indiretta su quella diretta, sempre più pesante contri i ceti meno abbienti?
Ecco perché non ci siamo, come radicali, lasciati determinare, nel nostro atteggiamento rispetto alla unificazione, dalle valutazioni espresse dal PSIUP e, in parte, dal PCI. Innanzitutto perché sapevamo che i due partiti che si unificavano erano entrambi, sia pure imperfettamente, socialdemocratici da sempre. In secondo luogo perché nella società italiana il modello socialdemocratico se è, meccanicamente ripreso, pur esso insufficiente ed inadeguato, è pur sempre "di fatto" rivoluzionario rispetto al regime che ci governa, e comporta una rottura con il populismo e l'autoritarismo clericale che è la più grave remora allo sviluppo del nostro paese. In terzo luogo, perché lo stesso modo con cui lo si è voluto far nascere, così burocraticamente, precostituendo sia il programma che è un vero "vuoto" programmatico di natura tipicamente trasformistica, sia la classe dirigente, ne rende vane, per eccesso, le pretese antiunitarie e di puntellamento del centro-sinistra a base clericale. Infine perché hanno forse ragi
one da una parte il PSIUP, e dall'altro l'opinione qualunquistica e moderata, nel ritenere che per gran parte della classe dirigente formatasi in questi anni nel PSDI e anche nel PSI (dal formaggio delle cooperative frontiste alla torta del sottogoverno centrista e clericale) non vada molto oltre la possibilità di strappare con l'unificazione maggior potere contrattuale di sottogoverno verso la DC. Ma, questo, è già "parecchio".
Volete togliere ai clericali il monopolio dell'assistenza pubblica? Non potrete farlo che "laicizzandola", strappandola alla secolare gestione ecclesiastica e delle forze economiche private ad essa integrate. Né vi sarà poi altra via, per mantenere ed accrescere questo "potere" acquisito, che superare ben presto il clientelismo, per fondarlo invece sul controllo e sulla gestione dei lavoratori.
Ammettiamo pure, ancora, che Nenni e Tanassi riescano, contro il sentimento prevalente nella base del partito unificato, ad affossare il progetto Fortuna per il divorzio, chiedendo nel contempo, pretestuosamente, al paese di dar loro maggior forza e suffragi per imporlo nella prossima legislatura: in tal caso sono poste le premesse per una crescita anticlericale ed unificata della caratterizzazione del partito, al di là del calcolo che li muoverebbe. E così via. D'altra parte, questo del quale parliamo, appare a molti innanzitutto come il "partito del Presidente". Personalmente ho sempre creduto che si sia troppo sottovalutato e oggi si faccia male a non ricordare che fu proprio Saragat, in un non troppo lontano colloquio con Togliatti, ad indicare ai comunisti ed ai socialisti democratici lo stesso obiettivo storico che Guy Mollet ora ritiene possibile perseguire in modo diretto, esplicito ed immediato: un solo e comune partito socialista. Ora sarebbe inutile, a questo proposito per stupide questioni di sti
le, tacere che è stato proprio l'impegno del più autorevole socialista-democratico italiano ad assicurare la permanenza di gran parte della sinistra del PSI (quella unitaria ed antiatlantica) nel processo di unificazione; ad autorizzare maggior fondatezza ad una prospettiva d'alternativa socialista, laica e democratica, ed a consentire a certuni di parlare di non troppo lontana e fatale "liquidazione", pur attraverso burocratiche promozioni, del "clan" dirigente del PSDI.
Mi sembra quindi, per concludere questo punto, di aver esposto qualche motivo valido a suffragare la convinzione prevalente nel mio partito, che il vuoto ideologico e politico della dichiarazione di unificazione, ed il "pieno" sempre più democratico, a volte genericamente democratico, delle risoluzioni comuniste degli ultimi anni costituiscono una seria premessa ad un radicale mutamento dei rapporti fra socialdemocratici e comunisti anche in Italia. Di questa unificazione, ormai, e non d'altra, nel 1967, sarà in fondo necessario cominciare esplicitamente a dibattere.
Ma, oltre questi dati, altri, meno clamorosi ma forse più interessanti, sono incontestabili e confortano le constatazioni che vado avanzando. In campo economico, la differenza che intercorre ormai fra le tesi e le proposte di un Leonardi e perfino di un Barca non sono così distanti da quelle di Giolitti o dall'"équipe" dei tecnocrati socialisti democratici arroccati al ministero del Bilancio, o di quelli presenti nel settore pubblico, da potersi configurare altrimenti che come differenze e divergenze all'interno di uno stesso partito. Sui problemi della scuola e della famiglia, le uniche differenze per ora riscontrabili sono sempre più quelle derivanti dalla partecipazione al governo con i clericali degli uni, e dalla azione di opposizione parlamentare degli altri... Ogni giorno, in Italia, al sentimento di impotenza e di esclusione che, a torto o a ragione, ha ridotto i ranghi militanti del PCI negli ultimi vent'anni, s'aggiunge e s'affianca quello, più recente e drammatico, di coloro che nello loro scelte
sindacali e professionali, politiche e sociali, hanno creduto all'esistenza "nello Stato", cioè nel sottogoverno, di "stanze dei bottoni" e di attitudini ad utilizzarle, capaci di garantire sostanziali mutamenti nei rapporti di classe e serie e responsabili riforme democratiche.
Così noi radicali, fermamente ancorati, nelle intenzioni professate e nella pratica politica di questi anni, all'obiettivo dell'unità e del rinnovamento della sinistra perché si realizzi in Italia e in Europa l'alternativa democratica e socialista, vediamo avvicinarsi il momento dell'unità ed allontanarsi in qualche misura quello del rinnovamento, presupposto necessario perché la unità raggiunta si traduca in conquista di potere e in definitiva sconfitta delle forze reazionarie e clericali. Perché a nostro avviso, e non astrattamente ma in termini di prassi, quel che può potenziare il processo di integrazione della sinistra comunista e di quella non comunista è solo il recupero di una visione chiara, alternativa, della nuova società che sia pur lentamente, con riforme, democraticamente, vogliamo però cominciare sin da "oggi" a realizzare.
Vediamo allora, sia pure per esemplificazioni rapide, quali "tipi" di problemi sembra dover dibattere la sinistra posta dinanzi ai fenomeni del nostro tempo.
Si afferma, da parte della sinistra non comunista, che le socializzazioni dei regimi comunisti non sono tali ma solo un passaggio al capitalismo di stato, a direzione burocratica, con i necessari corollari polizieschi e militaristi. C'è sicuramente del vero in questa affermazione. Ma come superare la contraddizione che si determina quando le forze socialdemocratiche non sanno proporre nulla di più che un progressivo e circoscritto trasferimento al capitalismo di stato di settori produttivi a gestione privata, e fondano comunque l'economia a due settori (che diffondono) sulla immutabilità dei rapporti di produzione, nel settore dello stato non meno che in quello privato? Né mi si dica che la tematica sindacale socialista è oggi volta consapevolmente ad un mutamento di quei rapporti, perché invece non si è nemmeno sul piano del "capitalismo di popolo" e dell'azionariato popolare di Ehrart e di Malagodi, e nemmeno più al "Welfare State" ma alla pura e semplice accettazione ideologica della società dei consumi.
Qui tutte le forze socialiste devono trovare una risposta, anche il PC che, se pur la cerca, non la trova malgrado il suo diretto contatto con le masse operaie e contadine e malgrado la maggiore libertà dei movimenti di cui gode stando alla opposizione. Dei socialisti, inoltre, non possono pensare a proporre politiche ed ideali che siano validi a livello nazionale o a partire da un particolare sistema. Dobbiamo trovare indicazioni finali a medio termine tali da costituire una risposta comune agli interrogativi che scaturiscono dalle due società industrializzate, la collettiva e la capitalistica.
O ancora, la constatazione che cinquant'anni dopo la rivoluzione di ottobre gli eserciti restano il pilastro delle società "socialiste" non meno che di quelle "capitalistiche", con tutto quel che comportano strutturalmente e ideologicamente, quasi facendo propria la eredità nazionalistica giacobiniana e il mito rivoluzionario bonapartista più che il pacifismo antimilitarista del socialismo, questa constatazione potrebbe utilmente consentire di denunciare l'assoluta inadeguatezza del "pacifismo" del PCI incapace di proporre altro che soluzioni nazionali neutralistiche, anacronistiche e comunque inattuali. Si rivelerebbero così, con ampie possibilità di dialogo e di utile critica, i motivi oggettivi per cui il PCI ha sempre avversato come borghesi o superflue battaglie come quelle per gli altri obiettori di coscienza, o oltre per l'affermazione di altri diritti civili (vedi controllo delle nascite, divorzio, riforma del giudiziario, riforma dei codici, riforme dell'esercito e delle polizie) e vi si era solo ac
codato o le aveva raccolte tardivamente.
Ed ancora, il problema della laicità, che in Italia è fatto di anticlericalismo, a proposito del quale la socialdemocrazia italiana sembrava aver stabilito fra sé e la socialdemocrazia europea la stessa incommensurabile distanza che nel mondo cristiano c'era fra controriforma cattolica e riforma protestante. Nessun laico meno in colpa dei socialdemocratici italiani perché, avendo rinunciato su questo punto, per mancanza di convinzione ideale e di chiarezza ideologica, ad una polemica sui princìpi, hanno poi nutrito per di più la loro azione politica di collaborazione subordinata con le forze clericali. Diventa, così, difficile e poco credibile accusare i comunisti, come era pur possibile per noi radicali, di scarsa convinzione laica, di dogmatismo e di persistente estraneità nei confronti di una componente essenziale del movimento di liberazione e di lotta delle masse lavoratrici occidentali. Oggi il PCI fa passi di estrema importanza in questa direzione e - quasi chiosando il dibattito da eruditi di provinc
ia che s'era instaurato fra ceti "rivoluzionari" del PCI e intellettuali della sinistra cattolica - Longo finalmente, nell'ultimo Congresso, riconosceva che la garanzia suprema e insuperabile di democraticità e di rispetto del pensiero religioso e delle sue manifestazioni risiedeva nel ripudio della concezione di uno Stato ideologico, per l'affermazione della laicità dello Stato. Risposta davvero definitiva, perché il problema di "fornire" garanzie teoriche o pratiche, al mondo clericale per facilitare l'ammodernamento o le tendenze "progressive" non poteva, se accettato, che presupporre una sorta di mezzadria integralista, fondata su una interpretazione populista della moderna realtà di classe.
Vi sarebbe ancora da evocare la necessità del rifiuto del quadro nazionale come quadro reale di lotta per il potere fra il movimento democratico dei lavoratori ed i suoi avversari, e come dimensione della battaglia politica moderna.
In queto comunisti e socialdemocratici si sono mossi e si muovono con palese e grave parallelismo. Non a caso, sempre più, i socialdemocratici rischiano di apparire piuttosto come un "prodotto nazionale", una vera e propria struttura portante dello Stato nato dalla rivoluzione romantica e borghese, che come l'espressione organizzata della unità di ideali, politica, sociale della classe lavoratrice dell'occidente europeo. Se, proiettate sul piano delle scelte politiche togliattiane e staliniane, le intuizioni gramsciane sulla necessità di collegare le lotte contadine a quelle operaie per realizzare un più vasto movimento di rinnovamento, si sono tradotte in una impossibile via "nazionale" al socialismo fondata sulla ricerca di colloquio fra "comunisti" e "cattolici", non è men vero che i socialisti che rifiutarono la Terza Internazionale non hanno mai mostrato di avere coscienza della unità storica, oggettiva, internazionale, necessariamente rivoluzionaria fra gli operai ed i lavoratori del triangolo industri
ale europeo compreso fra la Ruhr, l'Est ed il Nord francesi, ed il Nord Italia. E, se sono stati europeisti, lo sono stati in modo velleitario e contraddittorio, puntando interamente (non solo per la necessità imposta dell'atteggiamento di chiusura nazionalistica del movimento comunista in Italia ed in Francia) sulla carta diplomatica e verticistica, fatta crollare con un semplice soffio da De Gaulle. La logica, infatti, degli Stati nazionali non è quella di dissolversi attraverso indolori trattati, ma quella di affermarsi; l'avversione di un vecchio nazionalista maurrasiano francese è bastata da sola per abbattere il gigante dai piedi di argilla pur faticosamente e diligentemente eretto da cattolici e socialisti, dalle forze più avanzate del neocapitalismo europeo e dai rappresentanti della maggioranza dei sindacati in Europa. Ora, sono soprattutto i comunisti che ripetono, come i socialdemocratici, che il giorno della ripresa rivoluzionaria in Europa sarà quello in cui gli operai della FIAT, della Renault,
della Volkswagen sciopereranno assieme, per gli stessi motivi, nello stesso giorno.
Siamo in molte decine di migliaia in Italia, socialisti, comunisti, socialproletari, radicali, socialdemocratici, repubblicani, indipendenti democratici, a riflettere su queste cose; e, spesso, a non trovarci dissenzienti od avversari. Quel che oggi è proprio dei radicali del Partito Radicale, ed è l'essenziale della differenza politica che corre fra essi ed i militanti socialisti o del PCI, del PRI o del PSIUP, è la convinzione che si opera meglio in questa direzione se si fa delle convinzioni e delle osservazioni che ho qui avanzate un motivo di esplicita e manifesta unità di lavoro piuttosto che una riserva inespressa nell'azione militante di ogni giorno, da avanzare "in miglior aumento" nelle "sedi opportune" di altri partiti fratelli. Su questo abbiamo fondato negli anni scorsi una attività militante che è tentato di soffocare nel nascere con drastiche congiure del silenzio. Su questo sono cresciute le alleanze con il PSIUP e con il PCI contro il centro-sinistra non meno che le pesanti scomuniche o i te
ntativi di strumentalizzazione che l'uno o l'altro ci hanno altre volte riservato. Sempre su questo, malgrado la bolsa ostilità dei burocrati o il vanitoso fastidio di alcuni "leaders", si sono fondate comuni importantissime battaglie con la sinistra di governo, come quella per l'elezione di un Presidente non clericale o quelle che ci hanno visti contestare le accuse continue di tradimento che i nostri alleati elevavano verso gli autonomisti del PSI o verso il PRI, ricordando dove fosse il reale e definitivo avversario, appoggiando senza riserve i tentativi di Mariotti, di Mancini o la fatica parlamentare dell'on. Fortuna. E, per finire, è su tutto questo che ci auguriamo di potere, il più presto possibile, unificarci, dissolverci in una unità più vasta e profonda ed efficace.
Aderire all'unificazione? Va bene per amici e compagni che hanno vissuto questi anni in dolorosa, comprensibile ma anche colpevole riserva o inerzia; ma non per noi. Davvero, compagni socialisti, ci vedreste "contrattare" il nostro modestissimo ingresso con Tanassi e Brodolini, posto che lo volessero? Cosa ci diremmo? Di cosa con loro, e loro con noi, parleremmo? Davvero, dover tacere per due o tre anni di case, di ospedali, di laicità, di concordato, di divorzio, di vecchi e di bambini, di scuole e di città, di politica internazionale e di strutture militari, di pensioni e di mutue, di federalismo europeo e di santa Europa clericale, di democrazia "nei" e "dei" partiti democratici non lo potremmo; o potremmo farlo solo accettando la qualifica di intellettuali organici (del centro-sinistra invece che del PCI poco importa) e chiacchierando di tutto questo nelle strutture alienanti che l'industria editoriale riserva alle "querelles" fra i "dottori sottili" del socialismo; altrimenti mancherebbero alla "ragion
di partito" della unificazione "anticomunista" ed alla "ragion di stato" del centro-sinistra "irreversibile".
5.4. Il PR e il Partito Repubblicano Italiano
Nel quadro dei rapporti fra il PR e le altre forze della Sinistra un discorso a parte deve essere fatto per il Partito Repubblicano Italiano.
Non possiamo infatti non ricordare che la sola campagna elettorale alla quale il Partito Radicale partecipò direttamente - quella per le elezioni politiche del 1958 - fu affrontata in liste comuni con i repubblicani. Questo avvenne meno di dieci anni fa e consentì ai due partiti di condurre insieme nel Paese una battaglia laica e progressista che rimane per noi una delle migliori pagine dell'impegno radicale negli anni Cinquanta.
Fu una campagna elettorale centrata sui rapporti fra Stato e Chiesa e, almeno da parte radicale, sulla esplicita richiesta della denunzia del Concordato; una campagna elettorale condotta su tutti i grandi temi che appartengono al comune patrimonio ideale dei due partiti da quello della democratizzazione delle forze di polizia, alla lotta contro i monopoli, alla abolizione dell'istituto prefettizio, alla battaglia meridionalista; una campagna elettorale, infine, che trovò una significativa espressione nella solenne richiesta fatta da una delegazione dei massimi esponenti del PR e del PRI all'allora presidente della repubblica Gronchi di tutelare la sovranità e la dignità dello Stato contro le ingerenze delle autorità ecclesiastiche e prevaricazioni clericali.
Tutto ciò fu possibile con il partito che era di La Malfa e di Reale, ma anche il partito di Pacciardi. E da quando il PRI è diventato soprattutto, se non soltanto, il partito del democratico e progressista La Malfa cosa è successo?
Il fatto che i due partiti rappresentassero entrambi forze minoritarie, che nel nostro Paese sono anche tradizionali forze di opposizione, che avessero in comune lo stesso patrimonio ideale e temi fortemente caratterizzanti nel panorama politico italiano quali il laicismo e il federalismo e che avessero condotto insieme le stesse battaglie, tutte queste ragioni avrebbero dovuto garantire una alleanza, una sempre maggiore vicinanza fra il PR e PRI in questi ultimi anni.
Possiamo affermare invece che da nessuna parte ci è stato riservato un atteggiamento sprezzante e inimichevole come quello che ci è venuto dall'on. La Malfa, al quale pure molti radicali erano stati vicini in passato, e dalla sua clientela intellettuale.
Nella campagna elettorale del 1963, condotta con criteri assolutamente trasformistici, si giunse al punto di richiedere ai nuovi dirigenti del nostro partito la presentazione di candidati radicali nelle liste repubblicane, per le circoscrizioni in cui si presentava La Malfa, con la qualifica di indipendenti. Questa richiesta, naturalmente respinta, fu giustificata con l'argomentazione che bisognava evitare accuse di frontismo!
Negli anni successivi al 1963 si è giunti al punto di non dare comunicazione ai consigli nazionali dei telegrammi di saluto, inviati dalla direzione radicale, neppure quando esprimevano adesione o appoggio ad alcune battaglie politiche preannunciate del PRI.
La "Voce Repubblicana" non ha mai espresso una sola riga di solidarietà al Partito Radicale neanche in occasione di processi come quello di Milano.
Il Partito Radicale è, crediamo, il solo partito, a non essere invitato ai congressi repubblicani, sullo stesso piano, quindi, del MSI e del PDIUM.
A questo punto il Partito Radicale ritiene di non avere altro modo per tentare di avviare un minimo di dialogo con gli amici repubblicani che quello di esprimere con franchezza le gravi valutazioni, da tempo manifestate, nei confronti della politica del PRI.
1. Possiamo affermare, e in almeno un caso - quello della nostra battaglia sull'ENI - lo abbiamo potuto provare, che il PRI è fortemente condizionato da una parte dai rapporti finanziari che lo legano agli Enti pubblici dall'altra alla sua estesa partecipazione al sottogoverno. Pur essendo il più piccolo partito dello schieramento governativo, la sua partecipazione al potere in queste forme è molto rilevante, proporzionalmente forse la più rilevante all'interno del Centro-Sinistra.
2. Il condizionamento che inevitabilmente ne deriva toglie ogni credibilità alla politica di moralizzazione e di riforma dello stato, della quale il PRI ha fatto il punto fondamentale della piattaforma con cui si presenta alla opinione pubblica. E' quanto meno significativo che l'on. La Malfa abbia dovuto riconoscere di essere stato impotente all'interno del governo, quando fu sollevato per la prima volta davanti al comitato interministeriale del credito lo scandalo del Banco di Sicilia. Come è significativo che il rilancio organizzativo, politico ed elettorale del PRI in Sicilia abbia fatto perno per un lungo periodo di tempo su alcune posizioni di potere, fra le quali preminente quella del direttore generale della SOFIS, l'ex liberale e poi repubblicano La Cavera, noto patrocinatore dei governi milazziani. Lo è in misura non minore il fatto che tutta la battaglia repubblicana per ricondurre l'esperienza settoriale della Cassa del Mezzogiorno, diventata un formidabile centro di potere democristiano, nell'am
bito della programmazione nazionale, si sia conclusa con rassegnazione di una vice-presidenza dell'Ente ai repubblicani. E a questo punto non può meravigliare che tutte le campagne moralizzatrici del PRI, buone per la propaganda televisiva e per impressionare il pubblico qualunquista e malagodiano, non si siano mai tradotte in precise battaglie politiche in Parlamento e nel Paese. In una situazione in cui sembrava possibile mettere sotto accusa l'intera classe dirigente clericale, la stessa richiesta di una inchiesta parlamentare sui rapporti fra potere politico e amministrazione finiva per diventare un alibi facilmente fornito ai democristiani, quando contemporaneamente si rinunciava a combattere e a denunciare le specifiche responsabilità dei ministri o dei dirigenti politici clericali, che di volta in volta emergevano nel corso della legislatura.
In occasione dell'ultimo congresso repubblicano avvertimmo gli amici repubblicani del rischio di vedere trasformare sotto le loro mani, e al di là delle buone intenzioni e delle volontà soggettive, il loro partito da forza democratica capace di lottare contro il regime in prodotto esso stesso si questo regime. E' un rischio che non è diminuito ma forse è aumentato dopo i recenti successi elettorali del PRI.
3. Proprio sotto la direzione del laico La Malfa abbiamo visto in questa legislatura abbandonati dal PRI quali obiettivi di lotta laica di cui i repubblicani erano stati insieme ai radicali, in precedenza, i quasi esclusivi sostenitori. Nessuna delle battaglie di libertà che si sono sviluppati in questi cinque anni hanno avuto a protagonista la classe dirigente repubblicana: da quella per la democratizzazione delle leggi fasciste di polizia, a quella per il divorzio, da quella per la laicità dello Stato a quella contro lo spionaggio politico ad opera dei servizi di informazione delle forze armate. Su tutte queste battaglie il PRI si è mosso solo all'ultimo minuto per salvare la faccia, unicamente preoccupato di non turbare un equilibrio politico che gli consente il doppio vantaggio di usufruire del potere e di assumere atteggiamenti di fronda su questioni non rilevanti. La riforma del diritto familiare che reca la firma del repubblicano ministro Reale è il peggior servizio che il PRI potesse rendere alla bat
taglia laica nel Paese.
4. Non meno grave appare la politica estera seguita dal Partito Repubblicano. La fedeltà del PRI alle "grandi tradizioni democratiche" occidentali si è tradotta in tutti questi anni in una pedissequa approvazione delle concrete scelte del governo americano, anche quando queste scelte portavano ai sempre più gravi atti si intervento e di aggressione militare nel Vietnam o a una politica sempre più marcatamente imperialista in Asia e in America Latina. La battaglia antigollista o quella per il trattato antiproliferazione non possono pretendere di dare una risposta convincente e completa agli interrogativi e alle scelte che in tema di politica estera i fatti più recenti pongono alla coscienza e all'impegno dei democratici in ogni parte del mondo. Il PRI ha dimenticato quello che ogni forza democratica non deve mai dimenticare: che le ragioni della democrazia si difendono non astrattamente in nome di determinati sistemi di governo, ma scegliendo di combattere insieme alle forze democratiche che all'interno di qu
ei sistemi si oppongono a una politica militarista, imperialista, oppressiva e violenta.
5. La politica del doppio binario che sembra caratterizzare la direzione repubblicana (partecipazione al potere e al sottogoverno unita a uno spirito di fronda) stanno indubbiamente dando cospicui risultati elettorali al PRI. Ma è importante che gli amici repubblicani si domandino a quale prezzo questi successi si stanno verificando e quali possono essere le conseguenze nel futuro. Una politica trasformistica, basata sull'uso spregiudicato del sottogoverno e della pubblicità televisiva può anche portare al PRI nuove clientele provenienti dalle file liberali o da quelle democristiane o da quelle socialiste e può anche guadagnare nelle prossime elezioni politiche, alle liste repubblicane, settori di elettorato moderato e qualunquista che in precedenza si erano rivolti al partito di Malagodi. Ma le une e gli altri rischiano di trasformare profondamente la fisionomia del Partito da moderno partito democratico in mediocre e moderato partito di potere e di sottogoverno.
Diciamo queste cose ai compagni e agli amici del PRI, con durezza e lealtà e senza nessuno spirito settario. In numerose battaglie di libertà ci siamo trovati a fianco, in questi anni, l'impegno di alcuni dirigenti e di militanti repubblicani; nella battaglia per il divorzio, in quella per la riforma ospedaliera, come in quella contro le leggi di P.S. Abbiamo visto maturare all'interno del movimento femminile repubblicano e all'interno di quello giovanile posizioni nuove, intransigenti e coraggiose.
Noi ci auguriamo che su "queste capacità di lotta e su questo impegno" il PRI sappia trovare le ragioni e le possibilità del proprio rafforzamento, che costituisca allora davvero un contributo importante al rinnovamento della intera sinistra italiana.
In definitiva La Malfa e i repubblicani devono scegliere fra tornare ad essere una forza democratica di rinnovamento o una stampella di ricambio nell'equilibrio dell'attuale regime. E forse sono ancora in tempo, nonostante tutto, per compiere questa scelta.