SOMMARIO: Anche se più mite è stata la condanna nel processo di appello contro Aldo Braibanti, permane la pericolosità di quel mostro giuridico rappresentato dal reato di plagio.
(NOTIZIE RADICALI N. 81, 4 dicembre 1969)
Roma, dicembre (N.R.) - Il processo d'appello a Braibanti si è concluso con una sentenza che ci costringe a confermare la nostra volontà di opporci con decisione alla particolare interpretazione che si tenta di imporre attraverso la giurisprudenza della norma che prevede e disciplina il reato di plagio.
Più civile è stato il tono di questo secondo processo per unanime riconoscimento della stampa. La difesa ha avuto la possibilità di fare udire la propria versione e non solo al momento delle arringhe degli avvocati, ma nel corso del dibattimento, parzialmente rinnovato che ha consentito di ridimensionare, se non ancora annullare del tutto, alcune circostanze assurde e infondate come quelle riguardanti il preteso plagio di Toscani, ora ridotto dalla sentenza a "tentativo di plagio". Più mite è stata la condanna, che consente a Braibanti di tornare in libertà.
Ma forse proprio per queste ragioni la sentenza dei giudici di appello ci appare più grave e allarmante.
Possiamo esser lieti che Aldo Braibanti esca di prigione e sia restituito finalmente alla sua famiglia, ai suoi studi, ai suoi amici. Può dispiacerci che il ritorno in libertà di Braibanti non coincida con una sentenza di piena riabilitazione.
Questo però - e Braibanti sarà il primo a comprenderlo - è secondario. Il "Caso Braibanti", al di là delle vicende personali dell'imputato, per quanto dolorose esse possano esser state, è stato in realtà l'occasione che ha consentito di forgiare - attraverso la interpretazione di questo primo precedente giurisprudenziale - un nuovo strumento repressivo, un nuovo reato ideologico.
La libertà di Braibanti, il diverso clima del processo d'appello non valgono a sdrammatizzare il "caso Braibanti". Esso resta un precedente gravissimo, un potenziale pericolo per la libertà di ciascuno.
Stanno a confermarcelo tutte le argomentazioni dell'arringa accusatoria di De Marsico, che altri con rispetto ha chiamato "Maestro" e che per noi resta il fascista che ha trovato nel processo - davanti ai giudici di questa Repubblica democratica - una occasione forse insperata di perfezionare un disegno appena abbozzato nel codice Rocco.
Stanno a confermarcelo le argomentazioni del Pubblico Ministero che non a caso ha ripreso nella replica le tesi di De Marsico sull'omicidio della "personalità" nella particolare occasione - davvero classista e fascista - di "ruolo" o posizione sociale della persona.
Ciò che abbiamo appreso nelle aule dell'università in tema di certezza del diritto - quella stessa certezza cui si ancorarono tanti magistrati negli anni '20 e '30 per limitare o impedire gli abusi del regime fascista - e in tema di impossibilità di interpretazione estensiva e analogica delle norme penali, ci appare oggi annullato e distrutto da una nuova figura di reato dai confini estremamente incerti e dal contenuto estremamente elastico.
Per questi motivi il "caso Braibanti" rimane per noi aperto. Lo rimane certamente per quei compagni, Pannella e Loteta, che per ciò che hanno scritto e fatto sul caso Braibanti rischiano di essere sottoposti a gravi procedimenti giudiziari. Ma lo rimane anche per tutto il partito. E ci auguriamo che tale vogliano considerarlo quei deputati democratici di diversi partiti che hanno presentato un anno fa una proposta di legge abrogativa dell'art. 603 del C.P., quello appunto del plagio.
Di fronte a questa prima applicazione giurisprudenziale, quella della abrogazione ci appare infatti come la strada più sicura per eliminare questo nuovo mostro giuridico, che è il reato di plagio in questa sua eccezione, dal nostro diritto penale.