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Mellini Mauro - 25 maggio 1970
Memoria della Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio (LID) avverso la legittimità costituzionale del referendum abrogativo.
di Mauro Mellini

SOMMARIO: La lega Italiana per l'istituzione del Divorzio aveva affermato, nel suo ultimo congresso, la volontà di affrontare il referendum sul divorzio promosso dalle organizzazioni clericali e di combattere i tentativi di evitarlo attraverso elezioni anticipate o modifiche alla "legge Fortuna". Tuttavia aveva espresso una serie di riserve di costituzionalità sul referendum che Mauro Mellini, presidente della LID, sottopone alla Corte Costituzionale con una memoria. Vengono in particolare affrontate le conseguenze sui diritti fondamentali del cittadini che sarebbero provocati dall'eventuale abolizione della legge sul divorzio.

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Ecc.ma Corte Costituzionale

Memoria

della Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio (LID) con sede in Roma, Via Torre Argentina 18.

Avverso

la legittimità costituzionale del referendum abrogativo ai sensi dell'art. 75 della Costituzione e della L. 25.5.1970 n. 352 della legge in ``casi di scioglimento del matrimonio'' al dicembre 1970 n. 898.

(Udienza 11 gennaio 1972 in Camera di Consiglio)

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La Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio (LID) ritiene esserle consentito, nel momento in cui la Ecc.ma Corte Costituzionale sta per decidere della legittimità costituzionale della richiesta di referendum abrogativo della legge istitutiva del divorzio, sottoporre alla Corte stessa le sue deduzioni in merito, giacché è fin troppo evidente che il contraddittorio sulla legittimità costituzionale dell'abrogazione di una legge e del mezzo diretto a conseguirla, non possa essere realmente stabilito con la contrapposizione, alle tesi dei richiedenti, di quelle del Governo; tanto più di un Governo che si è dichiarato neutrale rispetto all'istituzione della legge e che comunque non può considerarsi portatore e rappresentante di quegli interessi e di quei diritti inalienabili che con l'abrogazione verrebbero ad essere lesi e conculcati.

D'altra parte, in concreto, la Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio, nel suo recente Congresso Nazionale di fronte al tentativo di conseguire l'abrogazione della Legge 1 dicembre 1970 n. 898 con atto legislativo ordinario, che viene proposto come espediente per evitare i presunti gravi pericoli del referendum, ma che rappresenterebbe in realtà la resa al ricatto di questo rappresentato, ha dichiarato che, salvo il giudizio di costituzionalità di codesta Ecc.ma Corte, il referendum deve essere affrontato. Ma al contempo ha riaffermato tutte le sue riserve ed i suoi giudizi negativi sull'iniziativa di cui trattasi, giudizi negativi che hanno ispirato, fin da prima dell'approvazione della legge sul divorzio una coerente, costante ed assidua azione politica, diretta a controbattere l'iniziativa stessa, a denunziarne la natura sostanzialmente e formalmente incostituzionale, nonché gli abusi con i quali è stata portata avanti. Si può dire anzi che la LID sia stata l'unica organizzazione che abbia svolto un

'azione siffatta, in mezzo all'indifferenza delle forze politiche ``ufficiali'', che hanno cominciato a mostrare interesse per il problema del referendum solo quando si sono cominciati a ventilare ipotesi ed espedienti transattivi, che consentissero ai proponenti di raggiungere i loro veri scopi, con il pretesto di ``scongiurare'' la prova.

Basterebbe quindi ricordare questa azione politica dell'ultimo anno, anche a prescindere dal ruolo essenziale avuto dalla LID per l'approvazione della legge sul divorzio, per concludere che non è pensabile un contraddittorio ed un effettivo confronto di tesi sulla questione del referendum di cui trattasi, senza che la LID sia intesa e possa esprimere il suo punto di vista.

A) La Ecc.ma Corte Costituzionale è investita del giudizio sull'ammissibilità del richiesto referendum, ai sensi dell'art. 33 della L. 25 maggio 1970, a seguito della ordinanza della Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 32.

Non può non rilevarsi la singolarità dell'ordinanza in questione, che, anziché provvedere alla verifica di "tutte" le firme raccolte a sostegno della richiesta di referendum, ha ritenuto di poterne accertare la conformità alle norme di legge con l'esame soltanto di un numero di firme, ritenute validamente apposte, superiore al minimo richiesto, avendo rinunziato a verificare poco meno della metà delle firme raccolte, verifica ritenuta superflua.

E' noto che i metodi con i quali l'ufficio centrale stava procedendo alla verifica delle firme, rimettendone fiduciariamente il controllo a singoli magistrati addetti all'Ufficio Massimario istituito presso la Corte, è stato oggetto di una denunzia alla Procura Generale presso la Corte d'Appello di Roma da parte del Dott. Marco Pannella e dell'avv. Mauro Mellini, esponenti della LID.

E' anche certo che la verifica non è stata effettuata dai membri dell'Ufficio Centrale, anche dopo tale denunzia; come è certo che gli atteggiamenti personali di singoli magistrati non responsabili (appunto perché estranei all'Ufficio così come costituito per legge) hanno certamente influito sui metodi e sui criteri d verifica della regolarità delle firme.

Non sappiamo invece se la denunzia in questione, di cui la stampa ha dato ampia notizia, abbia influito in qualche modo sulla determinazione di non portare fino in fondo le operazioni di verifica.

Certo è che un esame soltanto parziale delle firme raccolte e della regolarità anche solo formale ed apparente (nessuno saprà mai quanti falsi materiali ed ideologici sono stati commessi nelle operazioni di raccolta) ha privato e priva la Ecc.ma Corte Costituzionale di un elemento obbiettivo necessario per il giudizio che pure essa, a nostro avviso, è chiamata ad emettere, riguardante la questione di legittimità costituzionale delle modalità e dei mezzi con i quali il referendum è tato richiesto.

E' anzitutto indiscutibile che, esaminata una sola parte delle firme raccolte, potrebbe darsi che quelle che risultano non esaminate siano tutte o quasi irregolari e, fatto questo ben più rilevante, che sia fra di esse stragrande la percentuale di quelle risultanti come apposte da ecclesiastici, da ricoverati in ospizi gestiti da enti ecclesiastici, etc., etc. Così sono impediti o resi meno agevoli e certi quei rilievi di fatto che emergano anche dall'esame delle firme raccolte e che possano essere utili al fine di stabilire, che, come noi riteniamo, questo referendum viene richiesto, organizzato, e preparato non da altri che dalla Chiesa Cattolica, con tutte le conseguenze in ordine alla sua legittimità costituzionale.

Si è avuto notizia di alcuni episodi in se banali, ma certamente sintomatici, riscontrati attraverso lo spoglio dei moduli contenenti le firme. Uno zelante compilatore, cancellando le generalità, già trascritte, di un elettore di cui era venuta a mancare la firma, aveva apposto l'annotazione ``assente dalla parrocchia'' (il che è anche indicativo della sicura assenza del notaio all'atto delle firme). Altre schede sono state compilate con l'indicazione dell'esatta qualifica ecclesiastica dei firmatari. Altre (e si tratta di migliaia e migliaia di nominativi) portano come luogo di residenza ospizi gestiti da enti ecclesiastici. Queste schede sono tra quelle ``utilizzate'' o tra quelle ``superflue''?

B) La questione che dovrà essere preliminarmente e pregiudizialmente affrontata dall'Ecc.ma Corte Costituzionale sarà quella dei limiti del sindacato ad essa attribuito dall'art. 33, comma 4· della L. 25 maggio 1970 n. 352.

Si tratta di stabilire se il sindacato medesimo sia limitato all'accertamento che la materia del referendum non investa le materie espressamente sottratte a tale istituto, elencate nello art. 75 (trattati internazionali, leggi fiscali, etc.) o invece debba estendersi anche all'esame della legittimità della richiesta, alla stregua di tutte le altre norme della Costituzione (alla luce delle quali debba ritenersi che non possa darsi luogo alla modifica dell'orientamento giuridico consistente nella soppressione delle norme con il procedimento del referendum) nonché all'esame di tutti gli altri presupposti di legittimità costituzionale dell'iniziativa giunta al vaglio della Corte.

Non sembra che la tesi più restrittiva possa essere condivisa. E' ben vero infatti che il provvedimento che, in caso positivo del referendum, dichiari abrogata la norma, è stato da un'autorevole dottrina ritenuto atto legislativo, sottoposto, come tale al sindacato di legittimità alla stregua e con le modalità di ogni altra norma di legge. Ma è anche vero che non sembra possibile emandare a tale successivo ed eventuale momento il sindacato di legittimità della modifica dell'ordinamento giuridico prospettato con la proposta di abrogazione di una norma mediante referendum, senza in realtà eludere la stessa disposizione dell'art. 75 della Carte Costituzionale, che, se espressamente esclude le leggi relative a talune materie espressamente elencate, non per questo estende il mezzo del referendum alla modifica delle norme costituzionali, per le quali è prevista la speciale procedura dell'art. 138, nell'ambito della quale il referendum è previsto con forme, finalità e limiti completamente diversi.

In una costituzione semirigida, quale quella che regge il nostro ordinamento, il problema delle legittimità costituzionali di ogni legge che urti con una norma costituzionale precedentemente stabilita, si riduce a quello dell'osservanza o meno del procedimento di revisione costituzionale, perché non può parlarsi ovviamente, di norma in contrasto con la costituzione, se non a proposito di un norma approvata con le forme ordinarie, mentre non potrebbero considerarsi legittimi le forme ed i modi di approvazione di una modifica dell'ordinamento giuridico, che investano anche le norme e i principi costituzionali stabiliti, se tali modi e tali forme non siano quelli previsti per la revisione costituzionale.

D'altra parte, in contrasto con la costituzione attualmente in vigore, e tali quindi da comportare un'obbiettiva modifica di questa, possono anche giudicarsi modifiche dell'ordinamento consistenti in mere "soppressioni" di norme esistenti. Se, ad esempio, venissero soppresse le norme del codice di procedura penale relative alla difesa dell'imputato, verrebbe ad essere stabilito un dato di contrasto con l'art. 24 della Costituzione e tale soppressione potrebbe considerarsi validamente operata solo con l'osservazione della procedura di revisione costituzionale.

L'incostituzionalità della norma (o della abrogazione della norma) comporta quindi necessariamente l'incostituzionalità della procedura della sua approvazione, qualora la procedura non sia stata quella di revisione costituzionale, nel qual caso, ovviamente non potrebbe parlarsi di incostituzionalità del contenuto, ma solo di abrogazione delle norme costituzionali precedentemente stabilite rispetto alle quali sussista il contrasto.

Ne consegue che, se la soppressione di una norma di legge sia in contrasto con una norma costituzionale, tale soppressione non possa essere operata con il referendum abrogativo, perché tale istituto non rientra tra quelli previsti e stabiliti per la revisione costituzionale, così che può affermarsi che, oltre le materie espressamente elencate nell'art. 75 della Costituzione debbano tuttavia intendersi escluse dall'abrogazione mediante referendum, quelle norme la cui eliminazione dell'ordinamento positivo comporterebbe un modifica di questo, tale da contrastare con le norme costituzionali stabilite.

Una riprova di tale assunto si ha considerando che, se è obbligo primario degli organi legislativi ordinari (Parlamento) eliminare ogni contrasto della legislazione con la Costituzione, tali organi di fronte alla soppressione di una norma, soppressione che suoni offesa ai principi costituzionali, dovrebbero provvedere immediatamente a ristabilirla. Verrebbe così a determinarsi un pericoloso ed assurdo antagonismo tra l'istituto di democrazia diretta e le istituzioni rappresentative e dovrebbero queste assumere il carattere di correttivo e di controllo del primo, con una completa inversione dei ruoli che la Costituzione ha voluto ad essi attribuire.

C) La soppressione del divorzio, che si vorrebbe conseguire attraverso il referendum, della cui richiesta si discute in questa sede la legittimità, verrebbe indubbiamente ad offendere la Costituzione della Repubblica in diverse sue norme e sotto molteplici aspetti.

E la richiesta in sé, per gli organismi dei quali promana, per la distorsione che di essa intenzionalmente se ne è fatta, se ne fa e se ne farà, allo scopo di conseguire finalità diverse da quelle proprie dell'istituto del referendum, è a sua volta incostituzionale e ciò anche a prescindere dalla legittimità della soppressione della legge cui si riferisce.

La soppressione del divorzio contrasta anzitutto con l'art. 29 della Costituzione. Esso concepisce la famiglia fondata sul matrimonio come società naturale, aderente quindi, nella sua struttura giuridica che sul matrimonio e sul vincolo matrimoniale fa perno, alla realtà naturale, espressa dal costume, dalla storia, dai dati culturali d fondo della società (che non sono soltanto nazionali ma universali) comunemente accettati. Elementi tutti che concorrono a fare del matrimonio un vincolo tutt'altro che indissolubile. La famiglia naturale è quella in cui il legame si identifica con l'unione in sé, la procreazione in sé. Il vincolo legale della famiglia non può essere indissolubile, perché ciò significherebbe attribuire carattere essenziale ed inderogabile ad un qualità che è soltanto eventuale, ed ottimale, e quindi irriducibile a norma, della famiglia come società naturale.

Di contro il vincolo matrimoniale indissolubile esclude dalla legittimità, cui pure deve poter assurgere, a norma dell'art. 29 della Costituzione, quelle unioni naturali in sé perfette e talvolta esemplari, nelle quali uno dei coniugi sia legato da un vincolo già indiscutibilmente morto nella sostanza. Sono proprio queste unioni che dimostrano meglio di ogni altra argomentazione l'incompatibilità tra matrimonio indissolubile e società familiare naturale, fondata sul matrimonio.

E' pur vero che proprio contro l'istituzione del divorzio si è tentato di evocare un concezione della famiglia società naturale, come istituzione caratterizzata dall'indissolubilità e ciò proprio allo scopo di sostenere una pretesa incompatibilità del divorzio con l'art. 29 della Carta.

Ma tale tesi, del resto ben presto messa da parte dagli stessi più accaniti avversari del divorzio, si fonda su di un concetto di ``diritto naturale'' di pura marca confessionale, secondo cui la ``unione naturale'' è, al pari di ogni altro precetto religioso, di natura trascendente, distinguendosi dalla norma ``rivelata'' soltanto per il modo in cui sarebbe stabilità.

Il carattere confessionale, ed anzi d'espressione di una determinata corrente culturale e di un determinato momento dell'evoluzione del pensiero cattolico, sono di per sé elementi che escludono che questa tesi possa essere stata raccolta in una Costituzione di una società pluralistica e, appunto aconfessionale.

L'aver voluto la costituzione la famiglia, ed il matrimonio su cui essa si fonda, conformi al modello naturale, cioè universalmente accettato, significa che l'istituto del divorzio, che è, nel diritto comune delle genti del mondo d'oggi un dato che caratterizza universalmente l'istituto del matrimonio, non può essere soppresso senza offendere la Costituzione.

D) La soppressione dell'istituto del divorzio comporterebbe altresì una violazione dei principi costituzionali espressi negli articoli 3, 19, 8 e 7 della Carta.

Nessuno ha seriamente osato affermare, pur nell'accesa polemica insorta durante la campagna per l'approvazione della relativa legge, che l'istituto del divorzio offenda la libertà di coscienza dei cattolici. Si è detto che esso offenderebbe i sentimenti, le convinzioni, le concezioni sociali degli appartenenti a questa confessione, si è detto che ne avrebbe sofferto un vulnus il concordato, che sarebbero stati intaccati i buoni rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, si è invocata una pretesa incompatibilità con l'esistenza di una larga maggioranza di cattolici nel paese. Ma nessuno ha potuto seriamente sostenere che la libertà di religione dei cattolici ne avrebbe sofferto.

Del resto ciò equivarrebbe affermare che in quasi tutto il mondo i cattolici non godano di libertà di religione. Il che è, a dir poco, ridicolo.

Che il divorzio sia un istituto meramente ``permissivo'', anche rispetto all'atteggiamento religioso dei cittadini, non vi è dubbio. Fin troppo ovvio è il detto che il divorzio non obbliga nessuno a divorziare. E ancor più chiaro è il carattere di mera libertà proprio del divorzio, se si considera che esso rappresenta una alternativa non già all'unità familiare, ma all'istituto di separazione (il che è tanto più evidente allorché l'istituto è regolato come nella legge vigente). Ciò significa che il divorzio non incide in una reale situazione di rapporti tra i soggetti del matrimonio (tra i quali è già venuto meno ogni positiva efficacia del vincolo) quanto sulla posizione dei soggetti stessi rispetto alla società in sé considerata. Ora lo stato di menomata libertà in assenza del divorzio non può concepirsi al di fuori della concezione confessionale e sacramentale del matrimonio. Ma mentre nessuno impone, con il divorzio, a chi lo voglia e lo ritenga conforme ai propri convincimenti religiosi, di considerarsi

vincolato malgrado la separazione, è chiaro invece che il non credente, o il credente appartenente a confessioni che non attribuiscono affatto al matrimonio, anche considerandolo un sacramento, un carattere di indissolubilità, è certamente menomato nella sua libertà di religione, ove il divorzio sia escluso dalle leggi dello Stato.

Dal piano meramente individuale, la menomazione della libertà rappresentata dalla mancanza di riconoscimento degli effetti giuridici del divorzio, giunge ad investire le confessioni religiosi acattoliche in quanto comunità religiose. Nei loro ordinamenti infatti il divorzio trova pieno riconoscimento ed ampia regolamentazione, ma si tratterebbe di un riconoscimento e di una regolamentazione assolutamente privi non soltanto di rilevanza giuridica, ma anche di ogni possibilità di realizzazione concreta, attraverso la legge civile che vieterebbe ciò che le norme religiose consentono, regolano e favoriscono.

E) Ma la disuguaglianza dei cittadini a cagione della loro fede religiosa che verrebbe a realizzarsi con l'abrogazione della legge nel divorzio, appare ancor più evidente ove si consideri la particolare situazione della confessione cattolica, del matrimonio così detto concordatario ed il riconoscimento degli effetti civili alle pronunzie della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale.

L'art. 34 del Concordato, con la legge di applicazione 27 maggio 1929 n. 847, ha determinato nel nostro ordinamento giuridico una situazione paradossale, per cui l'indissolubilità del matrimonio, sancita dall'art. 159 C.C., così a lungo conservato proprio per la strenua difesa che ne è stata fatta da parte della Chiesa Cattolica e delle sue propaggini politiche, è stata di fatto abolita per i matrimoni concordatari, attraverso il riconoscimento degli effetti civili delle sentenze ecclesiastiche in materia di nullità del vincolo matrimoniale e di un istituto assolutamente inesistente nell'ordinamento civile italiano, la dispensa dal matrimonio rato e non consumato.

Si dirà che, almeno il primo istituto, quello della nullità del vincolo, è cosa diversa da quello dello scioglimento e non è ignoto neppure alla regolamentazione del matrimonio propria del codice civile. Ma, l'assenza di ogni controllo di merito all'atto della pronunzia della esecutività in Italia, ed il fatto che le pronunzie di nullità da parte dei tribunali ecclesiastici avvengano per motivi non solo estranei al nostro sistema giuridico civile, ma addirittura inconcepibili per questo (si pensi alla riserva mentale) comportano che in pratica, per l'ordinamento italiano, tali pronunzie non rappresentano una sostituzione della giurisdizione ecclesiastica a quella civile, ma puramente e semplicemente un fatto che fa venir meno un vincolo che, nell'ordinamento civile ed alla stregua dei principi fondamentali ed universali di questo, si presenta come assolutamente valido e normale.

D'altra parte è ben noto che, proprio in coincidenza con l'inizio della campagna per l'istituzione del divorzio in Italia, la Chiesa ha cominciato a largheggiare con gli annullamenti, così che queste pronunzie, in precedenza eccezionali rimedi a situazioni realmente anormali per la loro costituzione, hanno cominciato a rappresentare un via d'uscita sempre sperata, anche se non sempre possibile ed agevole, per ogni matrimonio fallito. Il fenomeno degli annullamenti ecclesiastici, numericamente trascurabili fino al 1946-1947, (circa 67 all'anno) è venuto ad assumere proporzioni assai considerevoli fino a raggiungere nel 1970 la cifra di ben 815 pronunzie positive definitive passate alle Corti d'Appello per l'esecutività.

Nel 1971 alla sola Corte d'Appello di Roma sono state presentate più di duecento sentenze e rescritti ecclesiastici.

Il ben noto ``motu proprio'' di Paolo VI dello scorso maggio ha creato i presupposti per un ulteriore ed assai più vistoso espandersi del fenomeno, la cui dilatazione non è, né potrebbe essere, soltanto numerica. Si è creato in pratica, per i matrimoni religiosi cattolici, per i cittadini che tuttora siano disposti a muoversi nell'ambito delle istituzioni ecclesiastiche e ne condividano i principi, i metodi, di ordinamenti giuridico-religiosi, un privilegio che in realtà ha determinato una forma di vera e propria concorrenza da parte delle istituzioni ecclesiastiche all'istituto civile del divorzio.

Ma quel privilegio diverrebbe addirittura intollerabile, qualora il divorzio dovesse essere cancellato dalle leggi dello stato.

La discriminazione tra i cittadini, che pure può essere lamentata rispetto alla situazione attuale (e dovrà prima o poi esserne investita con le giuste doglianze codesta Ecc.ma Corte) diverrebbe macroscopica: da una parte i cattolici con il matrimonio praticamente dissolubile, con il procedimento facile, rapido, e persino non troppo dispendioso del motu proprio paolino, e dall'altro i non credenti, gli acattolici, i cattolici non disposti a ``subire'' la loro fede come un fatto di sudditanza ed a viverla come una finzione ipocrita, con un matrimonio rigorosamente indissolubile. Due matrimoni, due istituzioni diverse, due tipi di famiglia, non soltanto due forme diverse di celebrazione.

Né occorre ricordare, a questo punto, che gli acattolici, anche se uniti in matrimonio con la forma canonica cattolica, non hanno diritto di agire in giudizio davanti ai tribunali ecclesiastici, salvo che, umiliati al bacio della sacra pantofola del Papa, non abbiano da questi ottenuto la grazia di far valere i loro diritti ``quasi che fossero cattolici''.

L'abolizione del divorzio nella legge dello stato significherebbe oggi non altro che il ristabilimento di un assurdo monopolio del divorzio da parte dei Tribunali ecclesiastici. Anzi, neppure il ristabilimento della situazione, già abbastanza assurda ed iniqua, antecedente al 1· dicembre 1970; ma il determinarsi di qualcosa di ben più vergognoso: perché nel frattempo è intervenuto il motu proprio paolino, è stato definitivamente abbattuto il tabù dell'indissolubilità del vincolo, è stato conosciuto, attraverso le vicende di molti illustri o almeno famosi cittadini la paradossale ``facilità'' dell'annullamento ecclesiastico.

L'Italia senza divorzio ha visto attingere al ``provvidenziale'' toccasana delle nullità canoniche del matrimonio le famiglie più in vista, da quella dell'ex re, a quella di un ex presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica, da quelle di senatori, deputati, (quasi tutti rigorosamente antidivorzisti) ed attori, industriali, ex nobili, etc, etc.

Eliminando il divorzio dalle leggi dello Stato dopo una così breve ma non sterile esperienza, come potrebbe l'apparato ecclesiastico negare le sue provvidenziali nullità anche a mille e mille cittadini comuni (o quasi), purché s'intende, sposati secondo il rito cattolico e disposti a farsi ``annullare'' con lo stesso rito?

F) Una gravissima disparità di trattamento tra i cittadini ed una sostanziale violazione del principio costituzionale secondo cui tutti possono far valere in giudizio i propri diritti (art. 24) verrebbe ad essere consumata con la pura e semplice abrogazione della legge 1· dicembre 1970 n. 898. Tale legge regola infatti il divorzio stabilendo i casi ed i criteri che autorizzano il giudice a pronunciare lo scioglimento del vincolo o la cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso. Esso stabilisce quindi un diritto di mera azione, non realizzabile se non attraverso la sollecitazione della pronunzia del Giudice ed attraverso questa. L'abrogazione del divorzio paralizzerebbe l'attività del giudice diretta a tal fine, fulminando tutte le azioni in corso. Così situazioni obiettive identiche fruirebbero di un trattamento diverso, non solo, ma interessi e diritti sostanziali identici a quelli che hanno già trovato tutela e riconoscimento nelle sentenze di divorzio già pronunziate, rimarrebbero sforniti di

ogni tutela solo perché, ad esempio, il tribunale di Campobasso è più lento di quello di Milano, o anche perché il signor x non ha potuto disporre delle somme per agire in giudizio qualche mese dopo il signor y che non aveva problemi del genere.

G) Ma l'incostituzionalità della richiesta di referendum di cui trattasi, oltre che per l'oggetto della norma di cui si chiede l'abrogazione e per le conseguenze dell'eventuale accoglimento della proposta da parte dell'elettorato, appare evidente in considerazione del soggetto che ha effettivamente promosso l'iniziativa.

Il referendum previsto dall'art. 75 della Costituzione è referendum popolare non soltanto perché il popolo è chiamato ad esprimersi sulla proposta di abrogazione, ma anche perché popolare è l'iniziativa per richiederlo.

Nei casi in cui la richiesta può essere promossa da taluni enti o speciali categorie di persone, la Costituzione espressamente li indica (art. 75: cinque consigli regionali; art. 138: un quinto dei membri di una Camera).

Fuori di tali casi il referendum deve essere promosso dagli elettori eventualmente organizzati in associazioni, partiti, comitati.

Ma se a promuovere il referendum è un ente pubblico, con la sua organizzazione, i suoi mezzi, i poteri di cui dispone, allora, anche se formalmente la richiesta sia stata sottoscritta nei modi di legge dal numero di elettori richiesto dalla Costituzione, non saranno violate soltanto le norme che regolano la vita dell'ente, o quelle che puniscono gli abusi di particolari funzioni, né saranno viziati solo singoli atti da ritenere frutto di reati; ma sarà sostanzialmente violata la norma costituzionale che vuole affidata alla iniziativa dei cittadini elettori la richiesta di referendum.

Se, ad esempio, il Comandante del Corpo d'Armata di Milano, decidesse di sottoporre a referendum la legge sull'obiezione coscienza (si fa per dire) e disponesse di centri di raccolta di firma nella caserme, indirizzando alle truppe proclami infuocati, e circolari ai fornitori delle mense e alle famiglie degli ufficiali e dei soldati per invitarli a firmare, non vi è dubbio che, oltre alle sanzioni penali che, è da augurarsi, sarebbero adottate nei confronti di detto Comandante, si dovrebbe prendere atto che il referendum così richiesto rappresenterebbe un vero attentato contro le istituzioni e le firme raccolte dovrebbero essere considerate alla stregua di un corpo di reato.

Ora il referendum in questione è stato voluto, promosso, organizzato e sarebbe domani utilizzato, sfruttato, come già oggi viene sfruttato ed utilizzato con le note operazioni ricattatorie non da altri che dalla Chiesa Cattolica legata (non conta se nostro malgrado) all'Italia da un Concordato tuttora in vigore, fruente di benefici e di privilegi, riconosciuta, ``nel proprio ordine indipendente e sovrana''.

Possiamo noi desiderare che la Chiesa sia una privata associazione, libera come tutte le altre di promuovere qualsiasi iniziativa politica che essa ritenga di dover intraprendere. Ma tale non è. I suoi ministri sono stipendiati dallo Stato. I suoi beni sono in larga misura esenti da tasse ed imposte, lo Stato provvede ad erigere chiese e case parrocchiali. I vescovi giurano fedeltà alla Repubblica ed alle sue leggi. Il clero, le credenze cattoliche, sono protetti da speciali leggi penali. La Chiesa ha con la Repubblica rapporti diplomatici.

Un'iniziativa di referendum intrapresa da questo ente non è una iniziativa di una qualsiasi consociazione di elettori. Lo esclude la posizione stessa che l'art. 7 della Costituzione attribuisce alla Chiesa Cattolica e ne consegue che una iniziativa, pur se corredata dalle firme di tutti gli elettori, se organizzata e diretta dalla Chiesa, non è una iniziativa popolare e, soprattutto non è conforme all'art. 75 della Costituzione né può essere considerata legittima. Altrimenti si riconoscerebbe il potere di indire il referendum ad ogni organo costituzionale ad ogni ente od ufficio pubblico, trasformando l'istituto del referendum in quello del plebiscito a sostegno della politica di questo o di quello degli organi di per sé investiti di pubblici poteri.

H) Che questo referendum sia stato voluto, proposto, organizzato dalla Chiesa non vi è dubbio.

La prima formale presa di posizione sul referendum, prima ancora dell'approvazione della legge, si ebbe in un deliberato degli organi centrali dell'Azione Cattolica, la cui posizione è regolata dal Concordato, che ribadisce, non soltanto il suo impegno a rimanere estranea ad ogni partito politico, ma anche la sua ``immediata'' dipendenza dalla gerarchia ecclesiastica.

Né occorre ricordare le ripetute deliberazioni della Conferenza episcopale italiana (CEI) che praticamente, da ultimo, hanno dato il via all'operazione della raccolta delle firme. Né occorre ricordare i pesanti, inopportuni interventi pubblici e personali del Pontefice contro il diritto della Repubblica Italiana a darsi una legge sul divorzio.

Qui però occorre ricordare che la stessa legge che regola l'istituto del referendum in esecuzione dell'art. 75 della Costituzione è stata approvata come risultato di un accordo politico i cui termini erano stati imposti dalla necessità di risolvere una crisi politica, apertasi nel gennaio 1970; imperniata sulle note diplomatiche della Santa Sede contro il divorzio.

Il referendum sul divorzio è nato dunque come ipotesi concreta, per la volontà della Santa Sede e del partito che ne esprime gli interessi e la volontà nel nostro paese e che ne aveva fatto questione pregiudiziale alla soluzione della più lunga crisi ministeriale degli ultimi anni.

Elencare le pastorali, le omelie, le prediche con le quali singoli arcivescovi, sacerdoti hanno caldeggiato, bandito, invocato il referendum sul divorzio, è praticamente impossibile, tanto numerosi sono stati questi casi.

Nel momento in cui è iniziata ufficialmente la raccolta delle firme, malgrado la deliberata volontà di creare una parvenza di alibi per l'organizzazione ecclesiastica, con l'attribuzione al Comitato di ``cittadini cattolici e laici'' della responsabilità della operazione (tentativo riuscito solo nei limiti in cui partiti ed organi di stampa cosiddetti laici e divorzisti hanno voluto creare alla Chiesa ed al suo partito, ma soprattutto a se stessi, questo alibi) le più scoperte e tracotanti prese di posizione del clero sono state ancora più frequenti ed insistenti. Noto è l'episodio del vescovo di Taranto. Nota è la denunzia sporta dalla LID nei confronti dei vescovi del senese che, con una pastorale collettiva, avevano vilipeso le leggi dello stato gettato allarme nella pubblica opinione, violato il giuramento di fedeltà alla Repubblica. Si noti che l'arcivescovo di Siena, Mons. Castellano era stato, fino a poco tempo prima, altissimo dirigente della Azione Cattolica.

Ma non vi è documentato ufficiale che illustri la responsabilità diretta e immediata della Chiesa nella richiesta del referendum e nella sua organizzazione quanto il modo in cui sono state raccolte le firme di sostegno.

La stragrande maggioranza di tali firme è stata raccolta nei locali delle parrocchie, dei conventi, delle scuole, degli ospizi e degli ospedali gestiti da enti ecclesiastici, con forme di vera e propria coartazione della volontà di vecchi, malati, di genitori di bambini costretti a frequentare quelle scuole per mancanza di analoghi istituti pubblici. La macchina della gestione ecclesiastica dell'appalto della beneficienza ed assistenza pubblica, che rappresenta una delle più vergognose ed assurde forme di speculazione esistenti nel nostro paese, è stata mobilitata per intero per la raccolta delle firme.

A Roma, dove il Tribunale e la Pretura erano stati istituiti degli uffici ad hoc (con la presenza e la collaborazione di talune pie donne) per l'autentica delle firme, malgrado l'afflusso di monache, preti, converse, e malgrado l'organizzazione nientemeno che di speciali corse di autobus pubblicizzate con migliaia di manifesti, il numero delle firme raccolte in tale sede è stato semplicemente ridicolo.

I notai hanno dovuto insediarsi nelle parrocchie, o hanno dovuto far finta di averlo fatto. Annunzi sacri affissi alle porte delle chiese hanno reso noto gli orari di queste operazioni.

In moltissimi casi militanti della LID sono intervenuti e sempre hanno potuto cogliere i preti con le mani nel sacco.

Senza la mobilitazione della macchina, organizzativa ecclesiastica, senza il suo apparato finanziario, senza l'abuso del magistero religioso, si può affermare, senza tema di smentita, che non sarebbero state raccolte che poche migliaia di firme.

Manca, infatti nel paese qualsiasi seria corrente d'opinione ostile all'istituto del divorzio, che non sia quella d'osservanza confessionale e di sostegno dei ``diritti'' della Chiesa, cioè, in pratica, del monopolio della giurisprudenza ecclesiastica in materia matrimoniale.

Malgrado il numero rilevantissimo di firme raccolte non si può neppure dire che vi sia stato, seppure artificialmente provocato un serio movimento antidivorzista. Si è trattato e si tratta di un gesto di rinnovata sudditanza, spesso, malgrado tutto, subito malvolentieri e con assai scarsa convinzione.

I) La riprova del carattere assolutamente non popolare e spontaneo della raccolta delle firme, dell'organizzazione che ne è stata fatta sul presupposto di una sudditanza semispirituale dei firmatari, da parte delle organizzazioni ecclesiastiche, è dato dall'utilizzazione che dalla richiesta di referendum, e quindi delle firme, viene fatta dai suoi veri promotori, cioè dal Vaticano e dal suo partito in Italia.

Sarebbe semplicemente assurdo ed inconcepibile, se veramente un milione e trecento ottanta mila cittadini avessero spontaneamente chiesto il referendum, organizzandosi autonomamente in associazioni e comitati che propugnano l'abolizione del divorzio, pensare di poter ``evitare'' il referendum, con patteggiamenti tra i partiti e con trattative più o meno diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato italiano o talune delle forze politiche italiane.

Nessuno avrebbe la possibilità di frodare un così gran numero di cittadini del loro diritto al referendum, nessuno avrebbe il diritto o la possibilità di interpretarne la volontà e gli interessi nella trattativa e nel compromesso, perché la sola volontà certa ed espressa dalla richiesta, sarebbe quella di pervenire all'abolizione della legge.

Se le trattative sono invece iniziate, e se il referendum è stato usato come merce di scambio o come minaccia per ottenere determinati risultati politici (il più rilevante dei quali sarebbe certamente l'umiliazione del Parlamento, costretto a rimangiarsi una legge appena un anno dopo averla approvata) è proprio perché la Chiesa considera tali firme null'altro che come un tributo di sudditi.

La strumentalizzazione del referendum, che ha rappresentato sin dal primo momento il vero fine e la condizione essenziale che ha indotto la Chiesa a richiederlo, è la riprova che, rispetto ai firmatari, chi oggi conduce queste trattative concepisce soltanto un rapporto di sudditanza, che prescinde completamente da quello che dovrebbe essere la volontà espressa con la sottoscrizione.

D'altra parte, appena aperto questo triste e sconcertante capitolo del mercato referendum-divorzio, è subito emersa la volontà di ottenere non soltanto un divorzio ``più difficile'' con evidente vantaggio della concorrenza rotale, ma anche un trattamento diverso che sia espressamente sancito per i matrimoni concordatari nella legge stessa, con la riaffermazione dei ``diritti'' della Chiesa, fatti derivare dal Concordato, secondo una tesi invano sostenuto anche avanti a codesta Corte eccellentissima.

Si legga la relazione dell'on. Forlani alla Direzione della Democrazia Cristiana. Vi si afferma la volontà di quel partito di rappresentare i richiedenti il referendum ed, allo stesso tempo, la finalità di ottenere, con la trattativa, un trattamento particolare per i matrimoni concordatari.

Il cerchio si chiude: nato da un compromesso sulle prese di posizione del Vaticano per il preteso ``vulnus'' al Concordato, il referendum dovrebbe portare ad un compromesso per garantire la pratica eliminazione di questo ``vulnus''. E ciò, passando sopra la sentenza di questa Corte, la volontà del Parlamento, e la volontà degli stessi elettori che sarebbero privati del diritto di smentire coloro che pretendono di monopolizzare, esprimere e mercanteggiare la volontà dei cattolici o presunti tali.

Ma tutto ciò presuppone quanto stiamo affermando: che a richiedere il referendum è la Chiesa, il Vaticano, l'organismo legato alla Repubblica da un rapporto concordatario che per questa via è deciso a difendere, a sfruttare e potenziare.

Ritenere che sia legittimo un referendum a sostegno di una azione diplomatica che un ente sta svolgendo nei confronti della Repubblica a vantaggio della sua potenza, della sua giurisdizione, dei suoi diritti reali o supposti, significherebbe riconoscere che la Costituzione contiene principi suicidi che nessun ordinamento politico può ammettere e legittimare.

L) Queste ultime considerazioni circa l'utilizzazione per una trattativa ed un compromesso a beneficio della giurisdizione ecclesiastica, impone di affrontare fin da ora la questione della incostituzionalità della legge 25 maggio 1970 n. 352 nella parte che regola il funzionamento dell'Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte suprema di Cassazione ed attribuisce a tale Ufficio, all'art. 39, il potere di dichiarare che le operazioni relative al referendum non hanno più corso quando la norma, cui si riferisce la richiesta, sia stata abrogata.

E' noto che proprio per tale via, con l'approvazione di una diversa legge sul divorzio, frutto di un compromesso, che abroghi quella del I dicembre 1970 n· 898, si vorrebbe ``evitare'' il referendum, realizzando così, attraverso un poco edificante pasticcio, quella operazione politica che è il corollario della iniziativa incostituzionale di cui sopra si è detto.

Ora appare evidente che una tale gherminella sarebbe possibile solo sorvolando sulla legittimità costituzionale dell'espediente in sé, che segnerebbe, anche rispetto ad ipotesi assolutamente legittime di ricorso al referendum, l'affossamento del diritto popolare a questo istituto.

Ma il provvedimento con il quale l'Ufficio Centrale può bloccare il referendum, è concepito dall'art. 39 della legge come un provvedimento meramente amministrativo, adottato senza garanzia di contraddittorio e quindi senza rispetto del diritto alla difesa delle parti interessate.

L'assurdità di tutto ciò è ancora più evidente in quanto alla Corte Costituzionale è invece prescritto di decidere con sentenza, osservato il contraddittorio e fatto salvo il diritto alla difesa, sancito dallo art. 24 comma 2· della Corta Costituzionale.

D'altra parte funzioni indiscutibilmente giurisdizionali vengono attribuite dalla sopra ricordata legge ad un organo speciale, rappresentato dall'Ufficio Centrale, che, pur composto di magistrati della Cassazione non si identifica con questa. E' così violato anche il divieto costituzionale di istituire nuovi giudici speciali. E tutta l'attività di tale organismo, pur esplicandosi con le forme dei provvedimenti giurisdizionali ed avendone la sostanza, prescinde completamente e sistematicamente dalla garanzia del contraddittorio e dal diritto alla difesa.

Ciò comporta, a nostro avviso, che la ecc.ma Corte Costituzionale, sollevi in via incidentale, nel momento in cui è chiamata a conoscere della legittimità dell'ordinanza della Corte di Cassazione, la questione dell'incostituzionalità della legge che regola la procedura avanti all'Ufficio Centrale e la costituzione di questo.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto riteniamo che la ecc.ma Corte Costituzionale debba respingere la richiesta di referendum sulla legge 1· dicembre 1970 n. 898.

La Lega Italiana per l'Istituzione del Divorzio ritiene che non possa e non debba essere rimessa in discussione questa fondamentale conquista di civiltà e tale è il motivo ed il fine della opposizione al referendum ed alla sua ammissibilità.

Non ritiene tuttavia che il referendum debba essere ``evitato'' a tutti i costi e che per evitarlo possa essere rimessa in discussione la legge.

L'illegittimità costituzionale della proposta di soppressione e, più ancora, quella dell'iniziativa della richiesta di referendum, risaltano particolarmente nell'uso che della richiesta si vuol fare, per forzare la volontà del Parlamento, ottenerne un ripensamento e quasi un gesto di resipiscenza. L'abrogazione della legge sul divorzio, ottenuta con il ricatto di un referendum incostituzionale da parte di un organismo cui non può essere concesso di assumere siffatta iniziativa, per modificare i rapporti da potenza a potenza tra la Santa Sede e l'Italia, sarebbe il risultato di una operazione eversiva, le cui conseguenze sarebbero irreparabili per la democrazia e l'indipendenza del Paese.

Chiediamo che sia respinta la richiesta di referendum soprattutto ed innanzitutto per respingere l'operazione ricattatoria che attraverso il referendum si vorrebbe imbastire.

Ma se, convinti come siamo della sostanziale incostituzionalità della richiesta, la Corte dovesse ritenere che insormontabili limiti formali non consentano respingerla, allora non andremo senza certezza di vittoria alla prova del giudizio popolare.

Le ragioni che fanno di questo referendum un attentato contro i principi della Costituzione e della democrazia, saranno portati al giudizio popolare assieme al merito della questione del divorzio. E il Popolo, sulla cui responsabilità e sulla cui sovrana volontà si fonda la democrazia e la Costituzione non avrà limiti formali che gli impediscano di respingere questo attentato, assieme ai timori ed alle viltà di coloro che non lo ritengono degno di affrontare serenamente e fermamente, senza debolezze ma senza drammi, le responsabilità di questa sua funzione.

Per la Presidenza della LID

Avv. Mauro Mellini

 
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