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Mellini Mauro - 21 settembre 1971
Divorzio, referendum, concordato
di Mauro Mellini

SOMMARIO: All'indomani dell'approvazione della legge Fortuna sul divorzio e del deposito, da parte degli antidivorzisti, di un milione e trecentomila firme per la sua abrogazione, attraverso i discorsi dei comunisti e dei laici da una parte, e dei democristiani dall'altra, si delinea il tentativo di un compromesso per evitare il referendum. Pretesto i pretesi difetti della legge Fortuna e la supposta eccessiva facilità con cui viene concesso il divorzio. Accettando di discutere tali supposti difetti della legge, automaticamente i laici riconoscono alla controparte il ruolo di portatori di preoccupazioni e corretivi rispetto ad una legge riconosciuta carente e facilona, e tolgono di colpo al referendum il suo carattere di tentativo di sopraffazione sanfedista e ottusa.

(LA PROVA RADICALE N.1 - AUTUNNO 1971)

L'inizio dell'autunno, con i discorsi di Reale e di Terracini per il 20 settembre, con la relazione di Bufalini al seminario indetto dal PCI su referendum, divorzio e concordato, e con gli interventi di Forlani e di De Mita al Consiglio nazionale DC, ha visto delinearsi, ormai con una certa chiarezza, la manovra per il compromesso sul divorzio allo scopo dichiarato di evitare il referendum abrogativo, richiesta fin dallo scorso maggio con la presentazione di oltre un milione e trecentomila firme. Evitare il referendum giungendo ad un compromesso era, fino a quel momento, una soluzione mai chiaramente prospettata, anche se non era difficile intravederne il proposito nell'atteggiamento di chi, come i repubblicani ed i comunisti, aveva rifiutato di aderire alle iniziative che ne proponevano l'esclusione o il differimento con disposizioni di legge. La mancata adesione a queste iniziative, a parte qualche grottesca giustificazione dell'on. Reale, che aveva cominciato col dire che bisognava prepararsi ad andare al

lo scontro senza dare l'impressione deprimente di volervisi sottrarre, erano sempre state accompagnate da calde invocazioni al senso di responsabilità dei cattolici e da fervidi auguri che fosse evitata una prova che avrebbe comportato la guerra di religione. E poiché, una volta presentate le firme ed una volta che si intendeva rinunziare a sostenere la illegittimità della loro raccolta e della proposta di abrogazione di una legge meramente permissiva (l'on, Reale si era affrettato a dichiarare che nulla da eccepire v'era sul piano giuridico e costituzionale) era evidente che la richiesta non poteva essere puramente e semplicemente ritirata. Cominciava ad apparire chiaro che l'augurio non poteva essere realizzato se non con l'espediente di modificare la legge Fortuna, in modo da poter sostenere che la richiesta di abrogazione e le relative firme raccolte per sostenerla non potessero ritenersi valide per il nuovo testo. Un espediente prospettato per la prima volta da una oscura agenzia di stampa e mormorato c

on qualche residuo pudore negli ambienti politici e parlamentari nel corso dell'estate. Un espediente, è il caso di dirlo subito, oltre tutto assolutamente inefficace, così come prospettato, perché l'articolo 39 della legge sul referendum prevede che esso, una volta richiesto, non si svolga più solo se la legge che ne è oggetto sia abrogata e non invece se venga solamente modificata. E' stato l'on. Reale a cominciare a tradurre in termini politici questa trovata pseudogiuridica. E, naturalmente, ha presentato la sua proposta, ancora prudente e non del tutto esplicita, dichiarando che la legge Fortuna è difettosa, perché nella sua elaborazione è mancata una collaborazione aperta e leale con i democristiani. Di qui l'apertura a proposte che partissero dal mondo cattolico. Ma di qui anche il ribaltamento completo dei veri termini della contesa, gratuitamente elargito alla controparte prima ancora di iniziare una trattativa.

E' dalla scorsa estate che, puntando sui pretesi »difetti della legge Fortuna, impostando la campagna contro di essa su di una supposta eccessiva facilità del divorzio da essa consentita, portando in prima linea questioni come quella degli interessi dei figli, del coniuge incolpevole etc., i clericali cercano di correggere una posizione che li ha visti irrimediabilmente battuti e screditati nel paese: quella di tetragoni oppositori di un'istituzione ormai pacificamente accettata in tutto il mondo e di difensori dei privilegi della chiesa e dei suoi ipocriti sostitutivi del divorzio. Accettando di discutere sui supposti difetti della legge appena approvata, sotto la pressione del referendum, automaticamente i laici riconoscono alla controparte il ruolo di portatori delle più serie e concrete preoccupazioni rispetto ad una legge che viene con ciò riconosciuta carente e facilona, togliendo di colpo al referendum il carattere di tentativo di sopraffazione sanfedista ed ottusa ed attribuendogli invece il merito

di estremo correttivo delle frettolose ed imprudenti decisioni del Parlamento. L'invito dell'on. Reale ai cattolici a proporre una via d'uscita e cioè a dar corpo più concreto alla sua proposta già abbastanza esplicita, non ha avuto che la risposta umiliante dell'"Osservatore Romano della Domenica". Il Vaticano non va certo a cercarsi i suoi interlocutori nel Partito Repubblicano. Non meno arrogante era il tono delle parole di Forlani sulla questione del divorzio nella sua relazione al Consiglio nazionale DC. Ma rigettando sui laici la responsabilità del referendum a causa del mancato accoglimento di certi emendamenti proposti dalla DC in sede parlamentare, esso poteva apparire un rilancio ai laici dell'invito a formulare proposte di compromesso. E la proposta è venuta, in termini espliciti e senza neppure l'ombra dei pudori e delle reticenze dell'on. Reale. Chi, aprendo "l'Unità" del 27 settembre, si è trovato davanti a un titolo a cinque colonne che annunziava la mobilitazione del PCI in difesa del divorzi

o e contro il referendum, non poteva certo sospettare di leggervi sotto la notizia che in realtà rappresentava l'annunzio della prima vittoria regalata senza colpo ferire ai promotori del referendum. L'ipocrisia, in verità, era tutta e soltanto nel titolo, perché la relazione di Bufalini al seminario del partito Comunista su »referendum e divorzio alle Frattocchie, non poteva essere più esplicita e priva di falsi pudori. Per evitare la famosa guerra di religione, la frattura tra clericali ed anticlericali etc., il senatore comunista che non può certo essere sospettato di aver espresso tesi personali, ha proposto esplicitamente un accordo politico tra le forze laiche e cattoliche per portare modifiche »non soltanto formali ma anche sostanziali nel regolamento del divorzio, così ciò eviterebbe la paventata campagna per i referendum.

La proposta del PCI è stata subito raccolta dal consiglio nazionale della DC, soprattutto dall'on. De Mita che, collegandosi alle affermazioni di Forlani secondo cui il referendum era stato imposto ai cattolici dal rifiuto dei laici di accettare taluni emendamenti, ha affermato che bisognava evitare il referendum accordandosi con i partiti laici per eliminare »gli aspetti più eversivi della legge Fortuna. Più caute, dopo qualche giorno, sono venute le dichiarazioni di Bozzi, che, definivano inaccettabile, come base di discussione per un accordo tendente ad evitare il referendum, la proposta affiorata nel discorso di Andreotti di garantire al coniuge cattolico il diritto di opporsi al divorzio, ha tuttavia implicitamente accettato l'espediente della modifica della legge. Tante profferte di disponibilità per un accordo del genere non si sarebbero certamente avute se non fosse stata oramai, aperta, pressoché ufficialmente, la corsa al Quirinale e non fossero in corso le grandi manovre per vincerla. Non che sia

troppo presto per prendere posizione sul problema del referendum, anzi proprio il contrario, ma è certo che anche i più accorati propugnatori della necessità di evitare la »spaccatura e le altre conclamate iatture connesse al voto popolare sul divorzio, non avevano preso alcuna iniziativa politica per scongiurarlo quando ciò sarebbe stato assai più facile, cioè prima che iniziasse, o almeno prima che si concludesse, la raccolta delle firme necessarie a richiederlo. E, soprattutto, nessuno dei mezzi che pure esistevano ed esistono per bloccare il referendum in considerazione del suo carattere violatore di un diritto che deve essere assicurato anche ad una eventuale minoranza, è stato voluto usare da quanti oggi più si agitano per »scongiurarlo . E' più che lecito quindi il sospetto che l'accordo in se stesso, più che il fine dichiarato di esso, cioè la difesa del divorzio o soltanto l'allontanamento della prova del voto popolare, sia l'obiettivo che più sta a cuore a chi lancia queste proposte.

Evitare il referendum sarebbe stato facile ai partiti laici se avessero pensato seriamente ad una politica di difesa dell'istituto, realizzato con la loro vittoria in Parlamento, subito dopo il 1 dicembre 1970. Sarebbe bastato allora assumere una posizione intransigente e decisa rispetto all'iniziativa del comitato del prof. Lombardi, lasciando intendere senza mezzi termini che tutti gli antidivorzisti, senza distinguere tra buoni e cattivi, sarebbero stati tenuti responsabili di un'operazione, che secondo il più elementare buon senso sarebbe stata portata avanti da tutto l'apparato della chiesa e della DC o non sarebbe stata portata avanti affatto. E soprattutto avrebbe dovuto essere esclusa senza possibilità di equivoci e di ripensamenti ogni ipotesi di compromesso non solo sul divorzio, ma anche sul Concordato, almeno fino a che la minaccia di rivincita non fosse rientrata irrevocabilmente. Tutti sanno invece come sono andate le cose: le profferte di disponibilità per accordi con i cattolici sul Concordat

o sono state immediate, da parte di un po' tutte le forze politiche e non sono mancati velati accenni a compromessi sul divorzio attraverso accordi sulla riforma del diritto di famiglia. Ma l'aspetto più grottesco di questa paura di aver vinto, che stava attanagliando i partiti laici tradizionali, è stata indubbiamente quello dell'insofferenza per chi aveva sostenuto il peso maggiore della battaglia divorzista, costringendo, in buona sostanza, i partiti laici a vincere. Tra dicembre e marzo le manifestazioni di ostilità e i tentativi di soffocamento della LID e dei radicali sono stati continui e persino un po' ridicoli. Il motivo dichiarato era quello del presunto »estremismo sulla questione del Concordato, ma era trasparente la preoccupazione della nostra intransigenza sulla questione del divorzio. Il gratuito riconoscimento alla DC di un ruolo positivo specie nella ultima fese della battaglia parlamentare; l'attribuzione a dei gruppi estremisti della responsabilità dell'iniziativa del referendum, con l'af

fermazione altrettanto gratuita, che la Chiesa nel suo complesso se ne dovesse ritenere estranea o al più solo un po' troppo tollerante; la mancanza di ogni seria reazione dei partiti alle prime avvisaglie della mobilitazione delle parrocchie ed alle pastorali dei vescovi ed invece la manifesta intenzione di ignorare le responsabilità del clero e della chiesa; tutto ciò ha consentito tra la fine di dicembre e di gennaio alla parte più reazionaria della Curia di far prevalere la sua tesi e di giocare la carta della richiesta di referendum. L'operazione si mostrava infatti in partenza assai meno rischiosa di quanto potesse apparire nelle previsioni dei mesi precedenti all'approvazione della legge. Già le ultime battute della battaglia parlamentare, avevano consentito alla Chiesa ed alla DC di deviare l'attenzione dell'opinione pubblica dalla loro assurda ed anacronistica opposizione di principio, tuttavia mai abbandonata, verso le loro asserite preoccupazioni per alcuni problemi veri o supposti del divorzio (s

ituazione dei figli, trattamento della moglie, etc.). Ora l'atteggiamento dei laici consentiva loro di non esporsi direttamente, pur spendendo tutto il loro peso organizzativo e politico, lasciando ai prestanome del comitato promotore di »cittadini cattolici e laici l'eventuale sconfitta, salvo trarre tutto il vantaggio della vittoria. Ma soprattutto la riconfermata volontà dei laici di addivenire alla revisione del Concordato, malgrado l'operazione referendum in corso, ha rappresentato un dato determinante in favore dei sostenitori di questa iniziativa. Non ha precedenti nella storia una operazione concordataria condotta mentre la Chiesa è impegnata in una mobilitazione sanfedista di questo tipo in polemica con una istituzione dello Stato. I concordati son sempre stati preceduti da pazienti manovre. Ma la diplomazia vaticana ha saputo cogliere il destro rappresentato dal poter disporre di un'arma di ricatto, che i ricattati stessi si ostinavano a voler ritenere in mani diverse da quelle del ricattatore, pu

r essendo disposti a pagare a questi la taglia. D'altra parte, l'offerta di procedere sollecitamente alla revisione, rappresentava e rappresenta per il Vaticano e per gli esponenti della nuova controriforma montiniana un'altra occasione da non lasciarsi sfuggire: essi non possono ignorare che tra qualche anno la Chiesa non solo non avrà la possibilità di ottenere, ma neppure la volontà di chiedere, ciò che oggi sembra a potata di mano con il rinnovo del Concordato. Cristallizzare con una pattuizione oggi stipulata con la Repubblica democratica i rapporti tra Chiesa e Stato, rappresenta indubbiamente un grosso successo per la politica conservatrice all'interno della chiesa.

Se è vero che la decisione di lanciare la richiesta di referendum non è avvenuta senza contrasti nella Curia, e che molti come monsignor Costa, il cardinale Villot e lo stesso mons. Casaroli l'hanno avversata fino all'ultimo, la proposta di Bufalini ed i consensi espliciti o inconfessati che essa raccoglie anche tra le altre forze laiche, deve aver rappresentato un duro colpo alla loro linea ed al loro prestigio. I pericoli da essi prospettati si stanno dimostrando inesistenti, mentre la loro volontà di rinunziare in partenza al referendum, appare oggi come un'ingiustificata timidezza che avrebbe fatto perdere alla Chiesa un vantaggio che sembra conseguito senza colpo ferire. Ma ciò che è più grave in questa situazione è che uno degli elementi del rischio calcolato con il quale la Chiesa ha giocato la carta del referendum, e cioè la resistenza dei laici, dimostrandosi assai più inconsistenti del previsto, finirà ineluttabilmente per spingere più oltre il rischio, fino, probabilmente, a voler giocare la parti

ta fino in fondo, affrontando il voto popolare, al quale, probabilmente, anche molti dei favorevoli alla richiesta del referendum non avrebbero voluto arrivare.

Certo è che, se il prospettato accordo tra laici e DC dovesse andare avanti, esso non potrebbe facilmente condurre a soluzioni che blocchino il referendum conservando molto o poco dell'istituto del divorzio. L'art. 39 della legge regolatrice dell'istituto del referendum è più che chiaro nel formulare una norma del resto ovvia: perché il referendum non abbia più luogo non basta una qualsiasi modifica della legge ma occorre la sua abrogazione. I maneggi di certe forze politiche e certi scambi di vedute in seno al governo ed alla maggioranza governativa, si svolgono quindi su di una ipotesi giuridico-costituzionale assolutamente immaginaria. Ma questo non è un fatto che possa tranquillizzare chi paventa cedimenti e compromessi da parte dei laici. Qualche »laico più accanitamente possibilista, di fronte ad una simile obiezione ha già tirato fuori la proposta di abolire la legge Fortuna, sostituendola con un'altra che ne riproduca il testo con le modifiche concordate. Non occorre spendere una parola per dimostra

re che si tratta di un proposito dissennato. Tanto dissennato che si preferisce continuare a manovrare per un accordo come se bastasse, ad evitare il referendum, approvare delle semplici modifiche. Una volta raggiunto l'accordo sarebbe difficile che vi si rinunziasse per la questione della procedura da seguire per realizzarlo, anche se questa procedura dovesse comportare, come nel caso dell'abrogazione seguita dall'approvazione, quanto meno rischi raddoppiati, per non parlare delle conseguenze sui diritti in corso e, soprattutto del discredito della neonata istituzione. Ma portare avanti il compromesso e le trattative per le modifiche »anche sostanziali della legge Fortuna rappresenta una perdita secca per il divorzio e per i divorzisti anche nel caso in cui l'assurdità del meccanismo proposto dovesse alla fine far aprire gli occhi ai laici meno irrimediabilmente votati al compromesso.

Qualche mese di trattative sarebbe una perdita di tempo difficilmente rimontabile. Le parrocchie, la macchina di potere clericale, la potenza finanziaria disponibile per la campagna antidivorzista, hanno bisogno di poco tempo per mobilitarsi. Non così il fronte laico. Più la campagna sarà arroventata e più l'apparato clericale, la gerarchia, il clero dovranno essere prudenti. In una campagna ridotta al minimo potranno scatenarsi senza ritegno, prima che operino certe reazioni nella pubblica opinione, prima che si manifestino contraddizioni e resistenze nell'ambito dello stesso mondo cattolico, prima che sia smascherato il carattere clericale e non religioso della mobilitazione. Ma soprattutto qualche mese di trattative e di dibattito sui »miglioramenti da apportare alla legge, varrebbero a screditarla e, soprattutto, a screditare i suoi sostenitori, dando un'impressione irrimediabile di debolezza. Altro che il panico che, secondo l'ineffabile on. Reale, sarebbe determinato dalla proposta di legge Scalfari,

che non fa che chiarire l'incostituzionalità del referendum! E, ad un tempo, i clericali si porrebbero in condizione di affrontare il voto popolare con l'atteggiamento di chi tutto ha tentato per eliminare le storture di una legge, che non resta che abrogare, visto che i suoi sostenitori, per punto preso, non vogliono e non possono correggerla, pur ammettendone le imperfezioni. Tutto ciò fa passare in seconda linea la questione delle »modifiche sostanziali in se stesse. La legge Fortuna ha già subito un peggioramento, in danno soprattutto della sua originaria linearità e semplicità e, soprattutto della sua correttezza e chiarezza tecnico-giuridica, a seguito del compromesso raggiunto presso la commissione Leone. Il nome prestigioso del notabile DC napoletano, peraltro notoriamente assai poco versato nelle discipline giuridiche civilistiche, è valso ad accreditare la tesi secondo cui la legge avrebbe ricevuto, con qualche modifica più restrittiva, una migliore formulazione ed una più equilibrata strutturazio

ne. Una tesi che l'autolesionismo dei laici ha tenuto a confermare. Così si è consentito si diffondesse l'impressione che restrizioni, maggiori complessità e macchinosità nel procedimento, più lati poteri discrezionali al giudice, potessero rappresentare un miglioramento di una legge facilona ed assai poco idonea a risolvere i più gravi problemi posti dal divorzio.

In realtà la legge Fortuna, anche nella sua formulazione originaria, contiene una regolamentazione del divorzio che può essere considerata tra le più rigorose tra quante ne sono in vigore nei vari paesi del mondo, giacché in realtà è un divorzio di doppio grado (separazione e divorzio vero e proprio) con un intervallo di almeno cinque anni tra l'una e l'altra fase. La semplicità del meccanismo del secondo giudizio non può certo essere considerata un difetto, in un paese in cui la minima difficoltà di una indagine giudiziaria vale a protrarla per anni, vanificando la tutela di ogni diritto.

Un ulteriore giro di vite nelle già rigorose norme che regolano finalmente il divorzio nel nostro paese, finirebbe per fare del divorzio una specie di simulacro dell'istituto vigente in tutto il mondo, pressoché svuotato di ogni reale efficacia ed utilità, specie per le persone meno abbienti, prive della possibilità di superare, con il denaro e con le solerti difese, anche le complicazioni e gli intralci di una legge tortuosa ed ostentatamente rigorosa. E a questo punto non si può fare a meno di ricordare che nel nostro paese, arrivato finalmente il divorzio, è tuttavia ancora in vigore il Concordato, con il suo articolo 34 e con il riconoscimento degli effetti civili alle sentenze ecclesiastiche di nullità, che, specie dopo il motu proprio di Paolo VI, rischia di diventare una forma di sconcia ed assurda concorrenza alla neonata istituzione dell'ordinamento statale. E' incredibile che un democristiano, che trova ancora dei laici disposti a considerarlo un progressista, quale l'on De Mita, osi parlare di »as

petti eversivi della legge Fortuna e che dei laici, che progressisti dovrebbero essere per definizione della loro parte politica, offrano »miglioramenti restrittivi della legge sul divorzio, proprio mentre la Chiesa proclama a gran voce di voler »liberalizzare gli annullamenti. D'altra parte l'opinione pubblica, anche quella solitamente diffidente verso ogni novità, non ha mostrato di nutrire il minimo turbamento per Il nuovo istituto né ha manifestato il minimo allarme per la sua formulazione o per qualche suo singolare aspetto. Come l'indissolubilità del matrimonio non ha trovato che difensori d'ufficio nei sostenitori della sovranità vaticana degli annullamenti ecclesiastici, così le critiche alla legge nelle sue singole norme non sono state che un espediente contingente dell'opposizione di principio di quegli stessi signori. Possiamo dire oggi, ad un anno dalla sua approvazione che, malgrado tutto, la legge funziona e funziona bene, persino con una giustizia come quella italiana e persino con una magi

stratura di cui certi precedenti di oltranzismo guelfo, specie negli alti gradi, potevano destare qualche preoccupazione. Del tutto gratuita ed artificiosa è dunque la offerta delle modifiche alla legge: espediente complicato ed inconcludente di una operazione politica che nasce da un equivoco di fondo e che si vale di ipotesi e strumenti altrettanto equivoci, e che pertanto l'opinione pubblica non potrà comprendere ed accettare. D'altra parte si tratta di una di quelle operazioni che difficilmente potrebbero andare in porto senza complicità e connivenze estese, praticamente, a tutto lo schieramento laico. Per molti anni abbiamo inteso rimproverare ai comunisti il loro voto sull'articolo 7 della Costituzione, da parte di laici che quotidianamente rinnovano, con il loro atteggiamento nei confronti del mondo clericale, l'equivoco che aveva determinato quel voto. Quei rimproveri erano null'altro che un alibi per i loro più recenti cedimenti. Oggi si rischia di vedere rinnovare, ancor più grottesco, questo spett

acolo. Perché, se nel 1947 i comunisti poterono votare l'art. 7 contro i socialisti, parte dei liberali, i repubblicani, gli azionisti, oggi essi hanno bisogno della copertura di tutto lo schieramento laico per mandare in porto l'operazione prospettata da Bufalini. La scusante del cedimento dei comunisti non funziona, ognuno dovrà assumersi la sua parte di responsabilità. Semmai i comunisti hanno una attenuante, se è una attenuante, rappresentata dal giuoco più ampio che stanno tentando nei confronti del mondo di obbedienza clericale, che essi chiamano semplicemente cattolico. Tuttavia se in questo giuoco la rinunzia a combattere a fondo per il divorzio e la restaurazione del Concordato non sono un semplice e marginale gesto di cortesia, ma, come crediamo, una carta che si vuole spendere in vista di precise contropartite, si può anche ritenere che i comunisti abbiano concesso troppo e troppo presto. Avuta la loro adesione al principio che non si può fare a meno di un Concordato (in questo persino Terracini s

i è spinto più in là di Andreotti, che respinge l'abrogazione del Concordato, almeno a parole, solo per il significato polemico che necessariamente rivestirebbe) ed al principio che la legge Fortuna si può rimettere in discussione e persino farne oggetto di trattative concordatarie, la Chiesa e la DC non hanno più molto da chiedere ai comunisti. La loro approvazione dei termini specifici dell'accordo non serve perché forse non serve affatto il raggiungimento dell'accordo. Quanto all'approvazione delle clausole della revisione del Concordato, non serve di certo, sia perché è quasi scontato che i comunisti si riservino qualche critica inoffensiva a tali clausole, sia perché, per gestire la trattativa e la sua conclusione, non c'è bisogno di loro, ma basteranno oramai i partiti di governo. Contropartite immediate non sembra probabile quindi che i comunisti possano ottenerne: anche ai fini della prossima scadenza dell'elezione del presidente della Repubblica è assai problematico che la disponibilità comunista su

l divorzio e Concordato possa ottenere qualche risultato positivo, se non si deve ritenere che l'obiettivo che, in sostanza, essi si prefiggono per tale elezione non sia altro che di poter dare una mano alla DC, senza effettive condizioni e possibilità di scelta.

C'è da domandarsi allora quale interesse possano avere gli altri partiti laici a fornire una copertura ai comunisti per una operazione che, se ha un significato ed un obiettivo, è quello di passare ostentatamente sulla loro testa. E' certo infatti che, ad esempio, il Partito Socialista finirebbe per risentire il più duro contraccolpo. I suoi militanti ed i suoi elettori sono assai meno coriacei di quelli del PCI; le simpatie di cui continua a godere negli ambienti laici sono ancora vaste. Inoltre è certo che, alla fine, se lo scandalo dovesse superare il limite, non mancherebbero gli stessi comunisti di riversare sul Partito Socialista la responsabilità di un compromesso che si dovesse confessare essere »poco avanzato . Le responsabilità di governo rendono indubbiamente più facile sottolineare la volontà dei socialisti di non creare grane con la DC. Eppure l'ultima riunione della direzione del PSI non ha lasciato dubbi sulla volontà dei dirigenti di quel partito di appoggiare fino in fondo il compromesso pro

posto dal Partito Comunista. Sembra anzi assodato che la proposta di: Bufalini non sia venuta fuori senza una preventiva intesa con i più qualificati esponenti socialisti. De Martino sembra sia soddisfatto di aver finalmente trovato un punto di »equilibrio più avanzato che, non solo non irrita, ma rende un grosso servizio alla destra DC. Il tentativo di Fortuna di mettere a punto le responsabilità del suo partito in questa poco edificante vicenda, ha trovato un po' tutti imbarazzati e sfuggenti. E non è mancato il grottesco di Enrico Manca che, ritrovata, probabilmente con i suoi delicati incarichi alla RAI, una forte carica antiborghese, ha ricordato che la difesa del divorzio riguarda gli interessi della borghesia.

Resta il fatto che questa vergognosa operazione di resa gratuita del fronte laico. viene portata avanti con la circospezione e la segretezza della cattiva coscienza. E' indubbio che, se l'opinione pubblica ed i militanti stessi dei partiti che, ai vertici, la stanno conducendo, avessero un'informazione anche sommaria sui termini della questione, l'ondata di indignazione manderebbe quasi sicuramente a monte un risultato che in certi momenti sembra addirittura scontato. La stampa di informazione, anche quella che in passato non ha mancato di appoggiare apertamente la campagna divorzista, dà una mano oggi, con il suo ben dosato silenzio, alle manovre che sembrano destinate a segnare la più dura ed assurda sconfitta del movimento laico nel nostro paese. Ma proprio la necessità del silenzio e della mistificazione è il punto debole dell'operazione resa. Alcuni deputati e senatori si sono dichiarati pronti a condurre in Parlamento l'ostruzionismo contro il tentativo di abrogazione concordata con la DC della legge F

ortuna. La denuncia della manovra divorzio-concordato-presidenza apparsa con grande rilievo sul "Manifesto" del 3 ottobre, ha portato per la prima volta, e forse inaspettatamente, un attacco da sinistra alla politica del PCI in questo specifico settore. Certo la situazione resta grave. anche perché, se il pateracchio può rientrare, assai più difficilmente può essere spazzata via l'atmosfera di disimpegno dei partiti laici rispetto alla prova del referendum.

Resta, ancora una volta, aperta la via indicata dai radicali e dalla LID: l'incontro con i militanti dei partiti, la mobilitazione della base laica e divorzista, che non vuole essere coinvolta in queste manovre e che potrà costringere i burocrati volenti o nolenti a non aver paura di aver vinto ed a vincere ancora.

 
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