di Massimo TeodoriSOMMARIO: Cosa resta, a tre anni dal 1968, della miriade di gruppi della sinistra extraparlamentrare? Dove sono finiti intellettuali e cinematografari che hanno finanziato queste forme di sottosviluppo politico allo scopo di comperare buona coscienza a buon mercato? Questo tipo di sinistra extraparlamentare porta la responsabilità della profonda disillusione di masse di giovani che avevano visto nelle nuove forme di militanza e negli approcci più diretti alla politica un'alternativa alla sclerosi delle organizzazioni giovanili tradizionali e della sinistra ufficiale nel suo complesso.
(LA PROVA RADICALE N.1 - AUTUNNO 1971)
Il 1968 si sta allontanando e con esso si sedimentano i portati del maggio francese, della contestazione studentesca, delle stagioni di facili illusioni rivoluzionarie. Certo, l'anno di fuoco ha lasciato più di una traccia nella vita politica e nella sinistra: è possibile cominciare a valutare appieno il significato delle esplosioni extraparlamentari, della loro consistenza e vedere cosa resiste al tempo e cosa è caduco, prodotto di materiale infiammabile a rapida combustione. Nel giro di qualche anno il tempo ha fatto giustizia di alcuni miti che erano venuti ad ingombrare il panorama politico. Sono cadute molte formule, molti slogan e tanti di quei gruppi che erano pronti a scodellare la vera Rivoluzione, la vera Avanguardia, il vero Partito, l'Ideologia pura e la Linea bella e pronta per ogni evenienza. Cosa rimane di quel fenomeno operettistico di pura marca stalinoide e clericale, l'Unione dei Comunisti Italiani marxisti-leninisti, che potrebbe costituire un bel reperto per una ricerca di psicoterapia s
ociale? E dove son finiti quelle schiere di intellettuali e cinematografari che hanno finanziato ed appoggiato queste forme di sottosviluppo politico per comperarsi buona coscienza a buon mercato? O per provare gli spasimi di qualche gioco clandestino? Non vale la pena parlarne; potremmo solo dire che la politica e la storia sono buon giustizieri, se fossimo cinici e non pensassimo che ogni volta che si brucia una qualsiasi esperienza che coinvolge passioni ed energie è tutto il movimento ed il potenziale di rinnovamento della sinistra a subire un riflusso. Chi provasse a districarsi nella selva dei gruppi e gruppetti che sono nati, hanno avuto il loro quarto d'ora di notorietà e sono morti nel giro di qualche anno si troverebbero di fronte ad una impresa difficile. Movimenti che pure avevano un grande potenziale, come quello studentesco, sono stati usati come riserva di caccia per faide ideologiche e per proselitismi gruppuscolari; e così anch'esso si è consumato senza trovare nei grandi temi specifici e ne
lla genuina spinta antiautoritaria che lo animava in alcuni dei segmenti più vivi e dei momenti più unitari, la ragione e la forza di procedere nella lunga marcia attraverso le istituzioni. E' di questi ultimi tempi il convegno nazionale di `Potere Operaio', che pur dovrebbe essere uno degli eredi di quell'importante filone di ricerca marxiana che ha nei "Quaderni Rossi" di Raniero Panzieri il punto di partenza, che viene a proporre la militarizzazione, sì, e la necessità del passaggio alla clandestinità in vista di qualche forma di lotta armata sul modello dei tupamaros. Ma anche quelle di `Potere Operaio' non sono altro che espressioni gruppuscolari, non importa se con qualche decina o centinaia di militanti, come tutte le altre tese a riaffermare la compiutezza delle proprie analisi e la definitezza delle proprie strategie; così come sono le innumerevoli sette teoriche e le infinite varietà di società di pensiero marxologico, di nuclei operaistici e di gruppi economicistici che stanno sempre più perdendo
anche quel richiamo che avevano esercitato nelle stagioni di forte tensione sociale e politica. Questo tipo di sinistra extraparlamentare porta la responsabilità della profonda disillusione di masse di giovani che avevano visto nelle nuove forme di militanza e negli approcci più diretti alla lotta politica una alternativa alla sclerosi delle organizzazioni giovanili tradizionali e della sinistra ufficiale nel suo complesso, e sta rivelandosi fallimentare nel gestire in maniera adeguata quel risveglio di combattività operaia che aveva contribuito a suscitare, provocando l'autunno caldo. Finisce quasi per verificarsi un inquietante parallelismo tra i gruppi nuovi e le sinistre classiche che li accomunerebbe tutti in una sostanziale `vecchia sinistra' per metodi, per strutture e per collegamento con la realtà sociale del paese, se i primi non fossero il più delle volte delle parodie delle seconde al cui attivo rimane tuttavia la rappresentanza di larghe masse di classe lavoratrice.
Se sono molti i sintomi che rivelano la scarsissima incidenza dei gruppuscoli extraparlamentari sulla scena del paese, deve essere già fatta qualche eccezione in attesa di avere maggiori elementi di valutazione di fatto. Del "Manifesto" si può dire soltanto che la iniziativa del quotidiano è importante come concreta dimostrazione della possibilità di costruire canali di informazione alternativi al regime che tentino l'autofinanziamento ed allo stesso tempo non siano effimeri e velleitari. Per quanto riguarda il "Manifesto" come movimento occorre stare a vedere nei prossimi mesi se riuscirà a condurre delle solide e significative campagne nel paese ed emergere in una prospettiva che non sia quella di una piccola eresia comunista ma come uno dei momenti di crescita di una nuova sinistra. Rimane infine il fenomeno più corposo, se non altro per il numero di aderenti che si calcolano in cinque-dieci mila, che è andato crescendo invece che consumarsi nel post-1968 e cioè `Lotta Continua'. A far fronte dell'esaurim
ento della contestazione i lottatori continui svolgono una funzione necessaria ed incancellabile dal tessuto sociale del paese sia con il loro atteggiamento verso la politica sia nel far da amplificatori alla diffusa rabbia sociale. Sottolineare che »la politica non è un'attività separata dalla vita , costituisce un significativo recupero libertario in una situazione come quella italiana in cui la politica come sottopotere colonizza sempre più la società civile, la sinistra si burocratizza con apparati estranei al corpo ed alle lotte sociali, ed i nuovi gruppi si chiudono in concezioni dottrinarie ed avanguardistiche dell'intervento politico. Così come si deve marcare l'attenzione rivolta a tutti gli aspetti della vita sociale e non solo al punto di produzione come fonte di sfruttamento e di oppressione e quindi come momenti suscettibili di una articolata lotta di classe. Corrisponde ad una esigenza largamente sentita dar voce agli innumerevoli modi e luoghi in cui la rabbia e la protesta vanno esplodendo co
ntro la classe dirigente del paese e contro gli stessi partiti (compresi quelli di sinistra) che non sono capaci di affrontare adeguatamente i nodi che strozzano la vita di masse di cittadini. `Lotta Continua' tiene conto di questa varietà di contraddizioni e cerca di inserirsi in esse con la promozione di azioni dirette tese a riappropriarsi del far politica, certamente svolge un ruolo abbandonato dalla sinistra rispettosa, troppo spesso freno e moderatrice di bisogni popolari per un malinteso realismo degli apparati. Questa non è la ultima delle ragioni per cui gruppi di giovani trovano in essa un punto di riferimento capace di soddisfare temporaneamente le proprie esigenze (per esempio l'alto grado di militanza, la dedizione alle lotte) di uscire dalle strettoie di una vita politica e sociale che tende a soffocare. Del movimento studentesco e della contestazione del primo tempo LC prosegue ancora quella carica antigerarchica e dissacratrice - da `rivoluzione culturale' hanno voluto dire in molti - che è u
n anticorpo tipico e necessario della società opulenta ed alienata come si avvia ad essere in molti settori la nostra. Certo, il riuscire a dare speranza che sia possibile fare qualcosa in tempi in cui sottomissione e rassegnazione guadagnano terreno è cosa di rilievo e valore a patto però che si sappia trasformare la speranza ed i bisogni che si tenta di interpretare ed organizzare in conquiste positive, altrimenti si rischia di fomentare soltanto nuove illusioni. Con ciò non si vuol dire che l'unica strada obbligata è quel tipo di politica di segno tradizionale che LC con la sua agitazione sembra voler combattere, ma deve pur esserci un modo - e storicamente se ne conoscono dei filoni - per dar corpo alla `nuova politica', quella appunto che non è attività separata.
Diviene sterile avere come principale obiettivo quello della `presa di coscienza' e della `trasformazione di sé stessi' che si accompagna necessariamente con una visione palingenetica dei processi di trasformazione sociale. Perché delle due, l'una: o si crede che la rivoluzione interiore (che va dalla consapevolezza operaia fino al cambiare la propria testa alla "Beatles") sia oggi per il mondo industrializzato la vera rivoluzione senza necessità di mutamenti strutturali anche a breve e medio termine, oppure si reintroduce dalla finestra l'ora x della rivoluzione cacciata dalla porta come momento risolutore dei conflitti e dello scontro di classe, in attesa del quale non ci sarebbe altro da fare che forgiare sé stessi, individualmente e collettivamente. Come d'abitudine sono pertinenti le osservazioni che Francesco Ciafaloni fa a questo proposito del rapporto tra consapevolezza e lotte operaie, quando pone come discriminante il conseguimento di obiettivi ben chiari e raggiungibili; altrimenti »"uno ci prova,
fa la sua brava lotta, la perde, acquista coscienza del fatto che il padrone è forte, è più scontento di prima e non ci prova più. Le lotte cioè bisogna anche vincerle oltre che farle. Senza contare che la consapevolezza con il tempo sbiadisce e restano i fatti strutturali, le modificazioni della divisione del lavoro, i fatti economici e quelli organizzativi ("Quaderni piacentini", 42, 2· semestre 1970) . Così, nonostante quello che si è voluto chiamare `la scoperta della politica' per LC, restano dei nodi da sciogliere e sui quali inevitabilmente si misura la riuscita politica e la stessa novità sostanziale del gruppo. Innanzitutto la divaricazione tra enunciazioni e prassi: una forza che ha come tesi di fondo l'intreccio stretto tra la lotta e l'organizzazione politica e la subordinazione del secondo momento al primo, si presenta oggi, quando ancora è gruppo di estrema minoranza, con un apparato di stipendiati, con un centinaio di sedi che per lo più non corrispondono a nessuna realtà effettiva di lotta e
di partecipazione. Cosa vuol dire, poi, la calata nel meridione, addirittura con l'impianto di un quotidiano a Napoli, previsto per la prossima primavera se non una smentita di fatto di ogni linea decentratrice e di ogni tentativo di invenzione di metodi anti-burocratici? Vi sono altri segni di una pratica interventista-gacobina (che non ha neppure dalla sua la attuazione di un programma) come la scissione tra il momento della elaborazione e discussione della linea politica (avvenuta al convegno regionale lombardo del 3-4 luglio) da parte dei quadri ed il suo calaggio nella più vasta assemblea del popolo-militante (quella di Bologna della fine di luglio) ritenuto capace solo di recepire la cucina già bella e pronta e chiamato a riempire il tempo della riunione con una serie di testimonianze propagandistico-populistiche. Si tratta ancora una volta della abitudine riemergente di un uso leninista e avanguardistico della organizzazione politica rispetto a cui non è stato compiuto alcuno sforzo di nuova elaboraz
ione e sperimentazione. Si dice che il problema dell'organizzazione tutto sostanza e niente forma: sarebbe vero se non fossimo convinti che sostanza in politica è anche forma che obiettivi sono anche come li si raggiunge, che struttura è anche metodo. E che l'esperienza storica di tutta la sinistra insegna che il "modo" di organizzarsi diviene in sé stesso fattore costituente di ciò che si vuol conseguire e che tutte le forze rivoluzionarie sono state soggette a processi di involuzione (rapporto carismatico tra `capi' e `masse', teorizzazione della necessità di periodi di transizione autoritari poi divenuti permanenti...) quando ai momenti minoritari e di tensione subentrano i complessi problemi di organizzazione, non importa se di una forza politica o di una determinata area sociale. `Lotta Continua' si schiera nei programmi `contro lo spontaneismo', `contro il burocratismo', `contro l'indottrinamento scolastico fatto sulla base di qualche testo classico', che `il partito non si fonda': tutto bene. Ma il pr
oblema comincia proprio a questo punto: quando cioè occorre tradurre le lotte d massa in organismi che non ripetano i vizi storici della sinistra socialdemocratica e leninista e che siano capaci di funzionare fin da ora al massimo grado di partecipazione diretta democratica e di autogestione con il massimo di incisività.
Il programma di lavoro proposto oggi da `Lotta Continua' si impernia sullo slogans `prendiamoci la città', costituendo le `basi rosse' (»"come organizzazione di situazioni, settori sociali, strati del proletariato, strutture territoriali in cui la lotta contro il sistema sociale nel suo complesso consenta di instaurare il modo comunista di vivere organizzarsi, lottare" ) e sull'accentuazione del ruolo dei gruppi marginali - sottoproletariato meridionale, carcerati e delinquenti, contadini poveri e braccianti, operai immigrati - come potenziali agenti della rivoluzione. Il tutto si accompagna con una esaltazione della violenza come elemento dirompente che passando attraverso la costruzione di una forza armata proletaria ed una »guerra di popolo come processo di lunga durata e non come sollevazione insurrezionale aspetterebbe la crisi del potere borghese e la finale conquista del potere. Sappiamo troppo avvertiti e politicamente articolati i compagni di `Lotta Continua' perché possano ritenere vera questa vis
ione strategica secondo cui rivoluzione e potere sembrano incarnarsi tutto nella fisicità di una concezione ottocentesca e dobbiamo quindi ritenere probabile che questi tipo di propaganda e di linguaggio sia costruito appositamente per galvanizzare la protesta e la ribellione sociale. Ma è proprio in ciò che si sostanzia l'atteggiamento elitario e populista di un gruppo di avanguardia che così facendo contribuisce ad allargare la divaricazione tra momento dirigente e massa, tra la tattica immediata e la visione politica di fondo, tra la conoscenza che il potere da battere è ben più complesso che non certe sue manifestazioni materiali e l'incoraggiare i proletari, quelli veri, a forme di ribellismo, tra la propria estrazione borghese e l'assunzione di una condizione proletaria; e sopratutto tra il giusto appello alla necessità di intervenire con la lotta per soddisfare bisogni e felicità e l'ignorare completamente come questi si possano realizzare parzialmente qui ed ora rinviandoli in nome di una onnicompren
siva crescita di consapevolezza.
Così al fondo del gruppo che incarna oggi più di ogni altro una strategia di rottura rimane una ambiguità politica che rischia sia di non far conquistare piattaforme più avanzate di lotta e di obiettivi per tutto il movimento sia di non concretare indicazioni di come costruire una forza politica contro il regime e contro il sistema nel mezzo dell'attuale crisi che investe sinistre parlamentari ed extraparlamentari. Quell'ambiguità che fa oscillare i lottatori continui tra un anarco-sindacalismo per cui tutte le lotte sono buone in quanto accrescono l'autonomia operaia senza preoccuparsi di problemi di priorità e di efficacia ed un leninismo di accezione interventistica ed autoritaria. `Lotta Continua' pretende di poter dare una risposta a tutti i problemi che il momento politico presenta, quasi che il comportamento di un gruppo di minoranza si dovesse modellare sulla impostazione totalistica e chiesastica dei partiti della sinistra tradizionale e non fosse piuttosto necessario, oggi più che mai, compiere il
modesto ma certamente `rivoluzionario' mestiere di fare le proprie battaglie e ricostruire una politica che sappia continuamente mettere in relazione ciò che si enuncia con ciò che si può concretamente trasformare.