di Angiolo BandinelliSOMMARIO: Lunga e complessa analisi sulla situazione politica, mentre già si intravvedono le elezioni politiche [7 maggio 1972, n.d.r.]. Ad avviso dell'autore, la scelta dell'on. Andreotti alla guida del governo elettorale corrisponde ad un disegno sostanzialmente conservatore e antidivorzista. Andreotti rappresenta il volto "democratico" del partito cattolico: se al posto di Andreotti vi fosse l'on. Fanfani, "mezza Italia sarebbe oggi, probabilmente, in rivolta". Ciò vuol dire che ad Andreotti è affidato il disegno clericale, fondato sull'"offensiva" contro il divorzio, la messa in "crisi" del riformismo, l'utilizzazione da parte della DC della "rinascita fascista".
La recente battaglia per la Presidenza della Repubblica, ha visto svilupparsi un disegno a contrastare il quale la sinistra non ha saputo trovare né armi né convinzione: la candidatura De Martino non è stata sufficiente, mentre si sono forse perdute importanti occasioni lasciando cadere i nomi di Nenni, di Pertini e dello stesso Saragat. E' così riuscito eletto Giovanni Leone, il candidato del "blocco d'ordine". Il riflusso è continuato durante la crisi di governo e la scelta delle elezioni anticipate, con l'incarico dato ad Andreotti perché uscisse "battuto" dal dibattito parlamentare per poter guidare il governo elettorale.
Segue un'analisi, condotta sulla linea radicale, secondo la quale la DC in sostanza incarna il "regime" che continua quello fascista, un regime "corporativo", "assistenziale", nel quale "il manganello" è l'accessario, mentre il "consenso" può essere raggiunto "attraverso l'uso regolato della struttura" del regime e del potere". Se questa è la situazione, non serve sbandierare la crisi involutiva in atto nel Sud, con la canea dei Ciccio Franco dopo il "riassorbimento della variante laurina o qualunquista". La sinistra, intanto, continua nei suoi equivoci: più il PCI che lo stesso PSI, che pure è al governo. Al suo XIII Congresso, il PCI ha riproposto per bocca di Berlinguer il "ritualistico slogan" della "svolta democratica", cioè l'incontro delle tre grandi componenti della società italiana. Una tesi che cade in contraddizione con l'altro slogan agitato, "battere la DC". Perché questa paralisi delle sinistre?. Perché esse, ormai da anni, gestiscono dal sottogoverno il paese in stretto accordo con la DC. E se
mbrano perfino disposte a pagare, sull'altare di questo accordo consociativo, il prezzo del divorzio. Si arriva così alle elezioni con la mina del divorzio sempre più profondamente inescata: se la DC le vincerà imporrà ai suoi alleati "un alto prezzo" in "termini di laicità" proprio su questo tema; se invece verrà battuta, "implorerà" che non le venga inflitta una "ulteriore mortificazione" per lei troppo costosa.
Tutto fa sì che i divorzisti debbano affrontare una stagione politica assai difficile, di cui dovranno fare "rigoroso motivo di dissenso e di rifiuto". Assieme a loro dovranno unirsi i radicali e gli antimilitaristi, visto che si sta discutendo in parlamento la nuova legge sulla obiezione di coscienza.
Concludendo, si ricorda come al suo ultimo congresso del novembre, il partito abbia avanzato la proposta di autoscioglimento se non si determineranno condizioni diverse al prossimo congresso nazionale: condizioni che non i radicali, ma i "nonradicali" dovranno porre in essere garantendo un loro più sostanziale apporto, anche "militante", alle battaglie del partito.
(»SOCIALISMO '70 , gennaio 1972)
E' toccato all'on. Giulio Andreotti, finalmente, guidare il monocolore democristiano, e il paese, alle elezioni politiche anticipate. Questo ennesimo successo personale sarà attribuito anche esso, certamente, alle capacità e alle risorse di un uomo politico per il quale nell'ultimo anno aggettivi laudativi e definizioni encomiastiche non sono mancate: neppure in quell'area che lo riconosce come un conservatore, anzi un reazionario convinto e coerente.
Ma davvero l'occasione ha arriso ad Andreotti in virtù di quelle doti - pazienza e scaltrezza elegante, lucidità e raffinato cinismo - che così universalmente gli sono riconosciute? E il suo emergere, in questa occasione, dalla indubbia lotta di logoramento tra "leaders" democristiani; il suo balzo in avanti rispetto al lungo oblio e agli incarichi secondari, sono solo il risultato positivo di un disegno di potere lungamente accarezzato e perseguito con sotterranea tenacia e abilità?
O non è necessario finalmente avvertire, con preoccupazione, che l'indicazione Andreotti risponde piuttosto, in rigoroso parallelo, al grado di involuzione profonda in cui il paese è caduto, sulla crisi di credibilità del centro-sinistra e nella lenta e sempre più evidente squalifica delle istituzioni parlamentari e democratiche? Non si dovrà comprendere che non è un caso, né un risultato di mere lotte di potere interne al partito di maggioranza relativa, la irresistibile ascesa di questo uomo politico, »provinciale per sua volontà e scelta, legato senza complessi alle clientele di una regione, il Lazio, che è tra le più arretrate e clericali del paese, esponente dichiarato di una realtà civile e politica tra le più parassitarie e mediocri? Da anni, o da sempre, Andreotti da una parte rappresenta la rivincita (se mai di rivincita avessero avuto bisogno) dei dati deteriori, più pericolosi, diremmo naturalmente eversivi, dei »corpi intermedi e separati presenti a tutti i livelli dello stato prefettizio, auto
ritario, poliziesco e militarista che è succeduto senza soluzioni di continuità - in questi settori - a quello fascista; dall'altra, incarna una lucida consapevolezza, che lo distingue da tutto il personale politico democristiano: che, per esempio, una battaglia sul divorzio, da posizioni clericali, vale in Italia molto di più, politicamente, che non capacità tecnocratiche e rimasticature europeistiche, discorsi programmatori, ostentazioni di modernità e di cosmopolitismo: le cianfrusaglie cioè di cui per lungo si è vestito quel personale, quella leadership, provinciale e clericale anche essa, ma ansiosamente alla ricerca di una plausibilità »culturale e politica, ritenute l'una e l'altra necessarie per guidare e reggere un paese che, altrove, viene considerato europeo e si vanta di essere salito a ottava potenza economica mondiale.
E' certo comunque un fatto, che soli i radicali hanno denunciato: se invece di Andreotti fosse stato l'on. Fanfani a presentarsi alle Camere con il dichiarato intento di giungere, dopo un voto di sfiducia ricercato e premeditato, a gestire queste elezioni anticipate dall'alto di un governo minoritario ed "illegale", mezza Italia sarebbe oggi, probabilmente, in rivolta.
In Andreotti, la Democrazia Cristiana ha trovato l'uomo adatto, per convinzioni e volontà, a perfezionare e far passare il suo essenziale disegno di regime. Un passo determinante lo aveva compiuto con la elezione a presidente della Repubblica del senatore Giovanni Leone. Ricordiamo come si è arrivati a questa elezione presidenziale. La scadenza giungeva a conclusione di oltre un anno di avvenimenti che volevano essere il necessario prologo ad una scelta preordinata e condizionata ad un disegno preciso, e fin troppo chiaro. Da oltre un anno, i vertici dei partiti della sinistra erano venuti rinunciando a qualsiasi iniziativa caratterizzante, a battaglie di seria opposizione, ad una convinta difesa di posizioni e di conquiste "laiche" (in primo luogo il divorzio, di fronte al ricatto del referendum), per poter giungere all'appuntamento del dicembre mantenendo sgombro il terreno per il preventivato, tenacemente voluto accordo con la Democrazia Cristiana. E' secondario, in definitiva, sapere, come oggi sappiamo,
che tale accordo lo si voleva raggiungere attorno al nome e alla posizione di un uomo ritenuto disponibile per un confronto diverso (la cosiddetta »caduta della delimitazione della maggioranza ) con le sinistre, e cioè l'on. Moro. Quel che importa è che le sinistre, protese verso quello che a loro sembrava successo tale da dovergli sacrificare ogni altra considerazione, non valutarono mai, nell'arco di un lunghissimo anno, il pieno significato di avvenimenti che venivano marcando la cronaca politica: la ripresa della offensiva clericale sul divorzio, la nuova virulenza di fenomeni eversivi che godevano dell'evidente avallo e del sostegno di settori importanti del mondo clericale e all'interno dell'apparato statale e delle istituzioni; la crisi del riformismo, che aveva svuotato di incisività la legge della casa, affossato quella sulla riforma sanitaria, avvilito e impaludato quella universitaria; e soprattutto la decisione, ogni giorno più evidente, della DC di utilizzare, fomentandola e dosandola, la rinas
cita fascista, per trovarvi giustificazione nella "propria" svolta a destra, il "proprio" ritorno a prospettive diverse di potere e di governo, dopo l'esperienza di centro-sinistra.
La battaglia presidenziale si aprì in un clima di equivoci e di incertezze, nel quale restarono saldi solo due punti fermi: da una parte la candidatura dell'on. De Martino, una candidatura di sbarramento intorno alla quale si sarebbe, volendolo, potuto costruire un diverso disegno politico; dall'altra l'irrigidimento sempre più marcato della DC. Il significato di questo irrigidimento, ancora una volta, non fu tempestivamente compreso. Ci si affidò fino all'ultimo ad una sortita delle sinistre democristiane, o ad una sottile manovra di Forlani o del gruppo dirigente del partito di maggioranza, che facessero evolvere la situazione nella direzione sperata, e lungamente preparata. A questa prospettiva, rivelatasi poi fallimentare, fu sacrificato tutto, scartando ogni altra possibilità, fra quante, durante il lungo scontro, pure emersero: dalla tempestiva presentazione della candidatura Nenni, ad una elezione assembleare dell'on. Pertini, a quella infine - non impossibile - dello stesso Saragat.
A rendere vincente il gioco della DC si prestarono poi, certamente, Malagodi, La Malfa, e la pattuglia degli "ultras" socialdemocratici. Ma questo, in definitiva, conta poco. Quel che va rilevato è che le sinistre, le forze laiche, hanno dimostrato in questa occasione di non avere nessuna valida strategia, nessuna volontà di autonomia e di alternativa di fronte alle pretese e al disegno egemonico del partito clericale. Riusciva così eletto il candidato del blocco d'ordine, il senatore Giovanni Leone.
Al nuovo presidente, anche da sinistra, sono venute manifestazioni di ossequio e attestati di imparzialità e di probità. Lo stesso onorevole Amendola si era pronunciato, in anticipo, favorevole ad una candidatura Leone, come punto di incontro tra le forze dell'»arco costituzionale . Ma Leone non ha posto tempo di mezzo, per chiarire quali siano i suoi intendimenti e su quali direttive egli intenda muoversi durante il settennato. Nel messaggio presidenziale, i riferimenti all'ordine pubblico, alla vita produttiva e ai rapporti tra Stato e Chiesa (...»non si tratta solo di osservare i precetti dell'art. 7 della Costituzione, che fanno il giusto posto alla indipendenza e alla sovranità dello Stato e della Chiesa Cattolica, ciascuno nel suo ordine; "si tratta di mantenere un clima che renda impossibile ogni anacronistico steccato"... ) non lasciando adito a dubbi. E, ancora più grave, vi è stato poi il comportamento assunto nel corso della crisi politica e parlamentare che ha portato allo scioglimento delle came
re e alle elezioni anticipate.
La caduta del governo Colombo al di fuori di un qualsiasi dibattito parlamentare può apparire continuazione di una prassi deteriore, ma comunque sopportabile, anche se il ricordo del precedente della IV repubblica francese, nella quale tali prassi era ugualmente di "routine", dovrebbe fare riflettere. Certamente, però, neppure le più sofisticate elucubrazioni giuridiche e costituzionali potranno fare passare per legittimo un governo, quello dell'on. Andreotti, costituito con l'inaudito proposito di uscire battuto dal dibattito parlamentare per poter poi essere investito - da chi? - dell'autorità necessaria a gestire un momento così delicato della vita politica quale è il momento elettorale; con elezioni, per giunta, anticipate. Il Partito Socialista Italiano ha sollevato qualche dubbio sulla legittimità della situazione istituzionale venutasi a creare. E' spiacevole che il gesto, serio e corretto, non sia stato seguito da altri, più definitivi e concreti passi. Ma il presidente Giovanni Leone (quest'uomo di
cui è stato detto che non ha mai goduto di larghi, effettivi poteri, ma si è sempre dimostrato sensibile ai poteri costituiti) non ha esitato un istante ad avallare questo che il Partito Radicale ha denunciato come un »gravissimo precedente , ricordando che, per molto meno, l'allora presidente del senato francese, Gaston Monnerville, poté pubblicamente accusare il presidente della Repubblica De Gaulle per »forfaiture , per impostura.
Queste elezioni si svolgono dunque sotto il segno egemonico della Democrazia Cristiana. Essa ha tenuto a rivendicare anche in questa occasione la sua origine antifascista, il suo carattere popolare e democratico, di partito erede - continuamente lo ripete Andreotti - della misura e del senso di equilibrio di De Gasperi. Pare quasi che il presidente del consiglio voglia preparare il terreno ad una candidatura della DC ad un neocentrismo di tipo scelbiano, quando la collaborazione dei partiti »laici era nulla più che una copertura dinanzi al paese. Se ripeteremo quella esperienza, pare dica Andreotti, state tranquilli, non prevaricheremo. Ma, a parte il fatto che ben miserabile ed incerta è quella democrazia che deve poggiare sul »senso di equilibrio dell'uno o dell'altro, e non sulla certezza del diritto e dei suoi meccanismi istituzionali, tra i quali vi è, e deve esservi, anche la possibilità delle alternanze, delle alternative, come dimenticare che non poche delle crisi politiche autoritarie e antidemocr
atiche di questo secolo ebbero a loro protagonisti anche »antifascisti , veri, sinceri, »democratici ? L'esempio della Francia è calzante: De Gaulle è stato l'eroe della Resistenza, e con lui molti esponenti dell'attuale regime. Né può essere dimenticato un richiamo alla genesi del fascismo italiano, quando il calcolo giolittiano di assorbimento e ridimensionamento del pericolo squadrista era condiviso da larga parte della classe dirigente »democratica e »liberale , che non lesinò neppure appoggi al nuovo movimento. Né l'invito del re a Mussolini per la costituzione del governo fu certo più cruento dell'investitura ad Andreotti (con una menzione, a rafforzare analogie e sospetti, per il clima »eccezionale che si sta instaurando in Italia a seguito della spinta terroristica e col pretesto del »disordine sociale ).
Se questo tipo di riflessione apparirà gratuito e forzato, ne saremo, noi stessi per primi, ben lieti. Ma non crediamo che una palinodia sia necessaria o possibile. Siamo, come radicali, forti di un'analisi che ci ha guidato e sorretto in tutti questi anni. Il problema del fascismo va ormai posto ed analizzato in modo diverso che non cinquanta anni fa. Ad una società economicamente sviluppata, all'ottava potenza industriale del mondo non può essere applicato più né il modello fascista del 1932, né quello dei colonnelli greci. Qualunque scelta autoritaria e di regime presuppone oggi, in questo paese, la permanenza di alcune »libertà formali, di una superficiale veste democratica che non potranno essere garantite dal personale politico come i Pino Rauti. Il fascismo del neocapitalismo non è il fascismo del capitalismo di mezzo secolo fa. Un regime autoritario che garantisca tutto questo, l'autoritarismo sostanziale e un minimo di equilibri formali non è però lontano, né invisibile.
E' il regime che la DC, il clericalismo, è venuto costruendo in venticinque anni, un regime del consenso di masse e ceti importanti, legati assieme da antiche miserie e nuove incertezze, da una condizione perenne di necessità e di dipendenza rispetto alle immense ed onnipotenti strutture corporative »assistenziali , e parassitarie di origine fascista che la DC ha evitato accuratamente di smantellare in questi anni (si veda la difesa a spada tratta fatta da Donat Cattin delle mutue, investite dalla critica e dalla riforma sanitaria ed assistenziale del socialista Mariotti), e sulle quali anzi essa ha creato e consolidato le sue fortune. Lo svuotamento delle funzioni del parlamento, l'accentramento di importanti poteri direzionali e politici nelle strutture dell'industria pubblica (e non è stata, anche essa, creazione e costruzione di »antifascisti ?), l'avallo e la copertura forniti ai grandi corpi dello stato da un potere politico "sempre" ed "essenzialmente" clericale - la magistratura, le burocrazie ed il
sottogoverno della scuola, l'esercito, il parastato, ecc. - costituiscono tappe e conquiste di questo potere, l'amalgama entro il quale lo si è reso assoluto ed egemonico, non partecipabile dalle sinistre se non a prezzo dell'abbandono della pregiudiziale liberale e libertaria e di una passiva acquiescenza alla sua logica corporativa, antistituzionale e di classe. Il manganello, in questa struttura, è l'accessorio, il consenso può essere, ed è, raggiunto attraverso l'uso regolato della struttura stessa.
Se questa è la realtà profonda del paese, non è neppure più ormai lecito rivendicare - a riconoscere da sinistra - alla DC una funzione antifascista (tale è il senso, dichiarato, del suo sforzo elettorale di »recupero a destra ) minacciando o sventolando il pericolo della rivolta »fascista del sud, di Avola, Battipaglia, Reggio Calabria o L'Aquila, con la minaccia della rottura "disordinata" degli equilibri che questi avvenimenti hanno pur determinato; o con il riflusso a destra di larghi settori dell'elettorato agrario siciliano. Per molte ragioni. In primo luogo, varrà pure la pena di osservare - e non è stato fatto - che di analoghe fughe a destra il sud è stato in questo dopoguerra terreno fertile; dal persistere del fenomeno monarchico e laurino al rigurgito qualunquista, questa è la forma tradizionale della rivolta del sud alle inadempienze dello stato. E tuttavia, l'una come l'altra »eversione di destra "non" hanno portato al fascismo: da quelle forze eversive, da quelle spinte disordinate e dirompe
nti sono poi cresciute, anzi, forza e consensi per la sinistra, quando essa - ed è accaduto - ha saputo parlare un linguaggio riformatore e dare corpo più adeguato a speranze e a rabbie inconsulte. E altrimenti, questi ceti e nuclei sottoproletari e sfruttati, che cosa erano in precedenza, se non la grande massa dei frustrati del regime, succeduto nella sua forma più moderna e valida - clericale e democristiana, cioè - al folklore laurino o all'inconsistenza qualunquista? La attuale rivolta è sfiducia nei confronti della impotenza delle sinistre, ma soprattutto della ferrea ed ineluttabile legge del potere della classe dirigente democristiana, divenuta essa stessa clientelistica e corrotta, dopo il riassorbimento della variante laurina o qualunquista, e responsabile di una fallimentare politica di cattedrali nel deserto e di sottogoverno della Cassa, di emigrazione e di sottoimpiego, di mafia edilizia e dei mercati: non lo dimentichiamo, in prima persona. Se oggi la rivolta di destra rompe e spazza questo cl
ima di pauroso ed impaurito silenzio, di depressione sociale e civile, di disperazione impotente e di fatalismo con i fuochi »fascisti di Ciccio Franco, questo rappresenta sì una rottura di equilibri, ma anche una fuga, uno scossone, rispetto ad un equivoco, che sarebbe "criminale" rimpiangere; perché, ripetiamo, nel fondo, e guardando all'esperienza passata, essa potrà rappresentare una nuova occasione di crescita per la sinistra, se essa saprà coglierne il significato e fornire precise indicazioni di lotta civile e democratica ai rivoltosi di oggi.
Certamente, comunque, questa volta, per quanto drammatica possa essere, non avrebbe e non potrà avere la capacità, la duttilità e la forza di imporre al paese scelte diverse, una classe politica diversa, capace in sostanza di mobilitare le piazze al sud e di reggere insieme un paese ad alto potenziale industriale, inserito nell'economia europea e mondiale. Ad una democrazia cristiana che oggi mette in mostra ed amplifica questi dati di crisi, e chiede comprensione ed aiuto per la sua operazione di recupero »antifascista a destra, occorre ricordare incessantemente che solo le sue responsabilità, le responsabilità della sua gestione sociale, civile e politica hanno portato a questo risultato: vi è una esperienza, quella del centro-sinistra siciliano, che vale per molti discorsi. Se errori ed incapacità delle sinistre hanno consentito che la rottura degli equilibri avvenisse sulla destra è un problema diverso: ma non deve, questo fatto, diventare alibi e copertura per una operazione di avallo alla gestione cla
ssista della DC. Come invece si sta verificando.
La campagna elettorale delle sinistre mostra del resto altre, e gravi, ambiguità nella identificazione dell'avversario che le masse popolari dovrebbero, con il voto del 7 maggio, battere e ricacciare indietro. Ancor più nel PCI - partito di opposizione - che non nel PSI, partito della sinistra di governo. Ancora una volta, il PCI ha riproposto, nella relazione con cui Enrico Berlinguer ha aperto il XIII congresso e la campagna elettorale, il vecchio, ritualistico slogan della »svolta democratica , da conseguirsi attraverso l'incontro parlamentare e di governo delle tre grandi componenti della società italiana, le »masse comuniste, socialiste e cattoliche . L'obiettivo dell'incontro sarebbe, in definitiva, quello di battere il risorgente fascismo; ma poi, inspiegabilmente, lo stesso segretario del PCI afferma che per ottenere questo grande, storico risultato, occorre battere la Democrazia Cristiana, colpevole di aver impedito, con i suoi riconoscimenti a mezza bocca della legittimità del referendum, »una solu
zione democratica della crisi di governo , e quindi di una vera e propria »sterzata a destra , realizzata in mezzo e per mezzo di »intrighi torbidi e inconfessabili . Dove sono, allora, le masse cattoliche con le quali si dovrà costituire il nuovo blocco storico, rivoluzionario e antifascista? E' stato subito osservato: il PCI condanna e combatte, in nome dell'antifascismo, quel partito insieme con il quale, ancora in nome dell'antifascismo, vuole andare al governo. Vi è, in questa contraddizione, qualcosa di più che una incertezza tattica; vi è assoluta mancanza di strategia, di lucidità politica.
Ma, a queste mancanze, che ripetono, in modo sempre più inadeguato e stanco le indicazioni togliattiane, occorre oggi aggiungere qualche altro appunto, ancora più grave. In realtà le sinistre, di governo come di opposizione, sono da anni impotenti a fare scelte diverse: in misura differente, ma per vie molto simili, sono partecipi tutte della stessa responsabilità, di aver consentito alla democrazia cristiana, attraverso la loro partecipazione, "diretta" o "indiretta", al potere, di instaurare, nella società come nelle istituzioni, il suo regime, clericale e di classe. Di esempi potremmo averne a iosa; dalla politica, divenuta sempre più necessaria e soffocante, di sottogoverno e di finanziamenti pubblici (si vedano i consigli di amministrazione degli enti assistenziali, ospedali, eccetera, come caso deteriore), al monopolio della informazione pubblica, gestito con il sistema della ripartizione della torta, e discusso "solo" e "nella misura" in cui la spartizione non sembri rispettare i patti furfanteschi. I
n queste elezioni, crediamo per la prima volta, non sarà ad esempio consentito l'accesso alla informazione televisiva di quei partiti o movimenti che, pur presentandosi in tutte le circoscrizioni, o già essendo rappresentati nel paese e magari anche in Parlamento, non siano espressi da un gruppo parlamentare già esistente e costituito. La modifica del regolamento televisivo in questi scandalosi termini è avvenuta nel massimo silenzio, con la connivenza, certamente, di tutti i partiti rappresentati negli organismi di vigilanza, o senza una loro protesta. Ed essa è diretta, con solare evidenza, ad impedire che ad esempio il Movimento Politico dei Lavoratori di Labor (che si presenta con liste proprie in tutta Italia) o il "Manifesto" (che pure gestisce un giornale ed ha cinque rappresentanti in Parlamento) possano parlare ai milioni di telespettatori che invece dovranno sorbirsi il balletto grottesco e assolutamente innocuo delle "Tribune Politiche" montate con perfetta regia dai manipolatori della informazion
e di regime, e nelle quali, nulla mai, succede, dal 1963 ad oggi. E potremmo aggiungere altro: dalle ipotesi di sovvenzionamento pubblico e controllato dei giornali (dal quale, c'è da essere sicuri, il "Manifesto" o la stampa radicale non riceveranno un soldo), a quella, davvero incredibile, del finanziamento dei partiti, naturalmente già riconosciuti e rappresentati in Parlamento. Se queste non sono responsabilità di regime, questa parola davvero non ha oggi alcun valore.
Crediamo di poter affermare senza possibilità di smentita che il prezzo che si intende pagare, a sinistra, per questa partecipazione al regime insieme alla DC, è il divorzio. La politica delle sinistre si dimostra così subalterna negli obiettivi oltreché negli strumenti e nei metodi. Subalterna perché si propone di consegnare al clericalismo italiano, al Vaticano e alla Sacra Rota l'unica "conquista" laica di ventisette anni di storia, l'unica conquista che, per i "metodi" come per il "significato", ha rappresentato un dato di rottura rispetto al regime clericale, alle strutture controriformiste che il paese si trascina appresso da secoli.
La sinistra non ha, in quest'anno, fatto nulla per impedire che il referendum pendesse come arma di riscatto sul paese. Un referendum, lo ripetiamo, che la Chiesa per prima, il Vaticano, non vogliono sia mai tenuto, perché consapevole l'una e l'altro che esso rappresenterebbe per loro una sconfitta di proporzioni storiche. La sinistra non ha mai voluto, ostentatamente, credere alle denunce della LID, quando i suoi militanti di giorno in giorno sono venuti mostrando "come e dove" si stavano raccogliendo le firme necessarie, con quali complicità e ricatti morali e sostanziali, in chiese, scuole private, ospedali, gerontocomi e monasteri, su pressione di vescovi e di preti; non ha raccolto gli esposti alla Corte Costituzionale, la campagna politica, la spinta radicale e divorzista; ha ignorato l'inchiesta della "Demoskopea" che pure indicava una larga maggioranza già esistente nel paese a favore della legge Fortuna; ha infine fatto presentare, da una »dipendente di sinistra, la senatrice Carettoni, una legge-t
ruffa che servisse da "culla, come ha rilevato l'on. Fortuna, alla nascita di altri mostri e pateracchi. Ha infine affermato che dinanzi alla prospettiva del referendum era meglio si andasse ad elezioni anticipate.
Siamo alle elezioni anticipate: ma il referendum è ancora lì, una trappola pronta a scattare. C'è da giurare, anzi, che scatterà. E delle due l'una: o la DC sarà uscita vittoriosa dalle elezioni, ed allora imporrà ai suoi volenterosi alleati un alto prezzo, in termini di laicità e di paralisi dell'istituto del divorzio, a tutto vantaggio della vergognosa ed illegale prassi rotale; o, se verrà battuta ed avrà perduto consensi e voti, ed allora implorerà perché non le venga inflitta un'ulteriore mortificazione che le costerebbe troppo in termini di credibilità, impedendole di assolvere a quel ruolo di partito-perno dell'equilibrio istituzionale che tutti, a gara, le attribuiscono.
In queste condizioni, è chiaro come i divorzisti siano costretti a fare della loro forzata e subìta emarginazione un rigoroso motivo di dissenso e di rifiuto al consenso coatto per la cerimonia elettorale. E dovranno assumere questa linea di condotta anche radicali ed antimilitaristi, libertari e democratici che hanno visto deperire la loro fiducia non nelle istituzioni ma nella loro gestione. Proprio in questi giorni otto giovani, radicali, antimilitaristi, libertari e pacifisti, hanno scelto (per la seconda volta in questi anni) la strada del carcere come risposta ad una delle forme più alienanti in cui si manifesta e si esplica il regime autoritario: il servizio di leva. Obiettori di coscienza non per motivazioni umanitarie, ma per chiaro convincimento politico, essi, rifiutando il servizio militare e dichiarandosi obiettori, hanno voluto compiere un democratico atto di partecipazione e di presenza civile che consenta alla classe politica di prendere coscienza del problema, e di portare avanti, migliorand
olo nei suoi elementi di fondo, il progetto di legge per il riconoscimento della obiezione di coscienza che, votato in Senato, è stato poi insabbiato e liquidato alla Camera. Quel progetto era stato definito, ed era, una »legge-truffa . Ma poteva e doveva costituire un punto di partenza verso più avanzati obiettivi, nella prospettiva di un socialismo aperto e libertario. La democrazia cristiana, per la quale il rispetto della chiesa è solo veicolo di clericalismo, e non esita a disattendere persino il Concilio Vaticano II quando contrasti con i suoi disegni di potere e la sua vocazione autoritaria, ha rifiutato anche su questo argomento ogni colloquio, imponendo scelte incredibili (nel disegno di legge in questione, l'obiezione di coscienza non è riconosciuta, ma - incredibile a dirsi - "punita"), e non facendo mistero della piena coincidenza dei suoi obiettivi con quelli del peggior militarismo italiano, il militarismo dei Birindelli, per intenderci. Ma è grave che ancora una volta le sinistre abbiano cedut
o alle sue imposizioni. Il PSI, spiace osservarlo, perché costrettovi dalla sua condizione di partecipe del governo, anche se dobbiamo riconoscere che all'interno di questo partito molte voci chiare e aperte sono venute a sostegno della battaglia pacifista; il PCI per più radicata scelta strategica. Lo ha ricordato Berlinguer, ancora una volta, al XIII congresso del partito: noi non siamo - ha detto - per le teorie »libertarie , quelle che ammettono, per intenderci, la disubbidienza civile alla iniquità di stato. Anche questi giovani saranno per il »no alle elezioni-truffa. E certamente assai scarsa sarà la fiducia nelle possibilità di qualche cambiamento democratico attraverso queste elezioni in quanti, magistrati o partigiani dell'ANPI o sindacalisti o sindaci dei paesi delle Puglie diedero, l'estate scorsa, il loro entusiastico assenso e la loro opera disinteressata al successo della iniziativa di referendum per l'abrogazione dei reati di opinione e sindacali che, ancora una volta, le burocrazie di parti
to hanno affossato quando mancavano poche decine di migliaia di firme per garantirne il successo.
In questi anni, la battaglia radicale è stata una battaglia perché nella lotta politica italiana emergessero sempre più, e fossero vittoriosi, elementi di rottura e di chiarificazione rispetto alle chiusure corporative, di regime, autoritarie, che il paese si trascina appresso come conseguenza non eliminata, anzi profondamente radicata, dell'esperienza fascista.
I documenti che questo numero della rivista raccoglie sono una documentazione efficace, anche se necessariamente non completa, di una lunga lotta, che - riteniamo - si collega strettamente con una vecchia tradizione liberale napoletana, tra le maggiori della nostra storia. Non possiamo sapere se sia per essere una battaglia vincente, oppure se ancora una volta fermenti liberatori dovranno soccombere alla violenza di un nuovo, più pericoloso, fascismo. Durante l'ultimo congresso, tenutosi a Roma nel novembre scorso - un congresso che aveva come indicazione: »"senza il `partito laico' non si costruisce né l'alternativa di sinistra, né una società socialista e libertaria - il Partito Radicale fu posto dinanzi alla proposta di scioglimento, motivata dalla impossibilità di poter portare avanti, nelle condizioni attuali di energie e di disponibilità anche finanziarie, battaglie essenziali e difficilissime come quelle che aveva gestito nell'ultimo anno. La proposta venne respinta con la condizione che il prossimo
congresso nazionale, che si terrà a Torino il novembre prossimo, dovrà verificare una crescita, organizzativa, di militanti e di forza, tale da garantire il necessario apporto a quelle che devono ancora essere combattute. A questo punto la risposta non dipende più da quanti hanno partecipato a questa esperienza; ma dagli altri, dai democratici, da quella »gente comune cui i radicali si sono sempre rivolti con fiducia nel passato. A partire, ci sia consentito, dai lettori di questa affrettata nota e di questa rivista.