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Bandinelli Angiolo - 31 gennaio 1972
Industria di Stato e PCI
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: L'autore giudica perdente la posizione di una sinistra che ha teorizzato l'industria pubblica come elemento di contraddizione del sistema ed invece nei fatti l'ha accettata e la subisce al tempo stesso come essenziale veicolo per la marcia verso il regime e come propria interna grave contraddizione. Esamina poi l'azione del Ministero delle Partecipazioni Statali che sfugge ad ogni logica imprenditoriale rispetto alle vertenze sindacali.

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

Mai come nel 1971 l'industria di Stato ha occupato la cronaca non solo economica ma anche politica. Mai si era giunti a scrivere in modo così scoperto - come hanno fatto l'"Espresso", "Il Mondo", "Panorama" e il "Manifesto" - che quest'industria giocava un preciso ruolo, omogeneo e complementare, e non subordinato, a quello del grande capitale privato interpretato e diretto da ambienti FIAT, per una svolta efficientistico-autoritaria, per una soluzione presidenzialistica facente perno sulla candidatura di Fanfani.

Mai prima d'ora, d'altronde, un ministro delle Partecipazioni Statali aveva, come Piccoli, in così larga misura usato di quest'area di potere per farla rispondere ai suoi obbiettivi strategici interni ed esterni alla DC - anche coll'assumersi la "leadership" di un deciso irrigidimento nei confronti del movimento operaio - e per collocare ed esaltare a presidenze e direzioni i suoi fidi a garanzia di un futuro ancora democristiano, generosamente ripagando col lasciare ampia libertà nell'agire più propriamente economico dell'IRI e dell'ENI.

E mai come ora si è dimostrata perdente la posizione di una sinistra che ha teorizzato l'industria pubblica come elemento di contraddizione del sistema e invece nei fatti l'ha accettata e la subisce al tempo stesso come essenziale veicolo per la marcia verso il regime e come propria interna grave contraddizione; una sinistra ancora incapace di trarre le conseguenze dovute dall'evoluzione del sistema negli anni '60, anni in cui l'espansione di questa industria, lungi »dal portare ad un piano più elevato di lotta per il socialismo , è stata soltanto una faccia della via italiana - di una società debole e un po' stracciona nelle sue strutture civili, amministrative ed economiche - al neocapitalismo.

Non sappiamo che tipo di frutti daranno le recenti numerose sortite sull'argomento: di La Malfa, che dice necessaria una riconsiderazione della politica economica delle Partecipazioni Statali; di Saragat, che ha denunciato l'eccessivo potere della DC in quest'area, così affiancandosi e concorrenziando su questa linea il PSI che, con alcune dichiarazioni di Mancini e con un certo clamore sollevato intorno alle cariche dell'ENI, aveva anticipato la polemica. Più decifrabile è la posizione del PCI, che ha rotto il suo silenzio addirittura presentando un disegno di legge sul tema, illustrandolo a più riprese su "Rinascita", e inserendolo nel dibattito interno del partito.

Progetto che suscita più di un interrogativo. Ci si sarebbe attesi, da un partito così impegnato a svelare la sostanza che si cela sotto la forma delle cose, un pregiudiziale chiarimento al dubbio che l'industria di Stato - fatta di società per azioni, statutariamente caratterizzate da una logica di profitto, moltissime con azionisti privati e quotate in borsa, con un personale dirigente pienamente intercambiabile per valori professati e per comportamento con quello dell'industria privata - sia oggi strutturalmente adatta a realizzare una politica tanto diversa da quella sinora praticata dalle società giuridicamente private. Se non è adatta, bisognerebbe preliminarmente riformarla, eliminando dalla sua struttura quei connotati privatistici che ne impediscono una utilizzazione sociale e ne alimentano il carattere repressivo. Se invece è ritenuta adatta, e tale sembra al PCI che nel suo progetto accetta gli enti di Stato per quello che oggi sono, vuol dire che lo strumento della società per azioni (e in partic

olare il suo frutto giù moderno, il grande gruppo industriale) ha sufficiente elasticità per raggiungere obiettivi socialmente e democraticamente positivi nella salvaguardia di una logica di profitto, per cui non si comprende perché si debba fare un discorso distinto per l'industria di Stato e per quella privata. E' di fatto un non senso separare i criteri di giudizio e le condotte politiche all'interno di quell'unico fenomeno che è ormai la grande industria italiana, proprio quando attraverso Cefis e la Montedison si sta avviando un processo di »democristianizzazione della Confindustria, destinato a stabilire anche a livello di potere politico quella interconnessione tra lato pubblico e lato privato già irrimediabilmente sancita con mille intrecci azionari e a livello di strategia di sviluppo di interi settori; ed è quindi un non senso o, peggio una mistificazione insistere ancora sulla »subordinazione dell'impresa pubblica agli interessi dei gruppi privati e privilegiati come fa il comunista D'Alema ("Ri

nascita", 14-1-72).

D'altra parte la separazione di criteri di giudizio finisce di ritorcersi contro il movimento operaio: i sindacati metalmeccanici, scrive Fabrizio D'Agostini su "Rinascita" del 21 gennaio, »hanno rilevato come il comportamento delle Partecipazioni Statali sfugga ad ogni logica imprenditoriale rispetto a vertenze sindacali. Si ricorda in proposito la lotta alla FIAT nell'estate scorsa: durò due mesi, ma alla fine Agnelli preferì evidentemente fare un calcolo dei costi che derivavano dagli scioperi e di quelli determinati dai circa 20.000 passaggi di qualifica che chiedevano i sindacati e fu costretto a fare l'accordo. L'IRI, al contrario, sembra essere dotato di riserve senza fondo per resistere agli operai. I sindacati esprimono questa situazione con un paradosso: le Partecipazioni Statali in realtà fanno una politica diversa dalla Confindustria, infatti esse, proprio perché sono finanziate dallo Stato, cioè da tutti i cittadini, si permettono nelle lotte sindacali un atteggiamento che non sarebbe possibile

a nessun imprenditore privato . Per inciso, è buffa la parola »paradosso nella penna di un militante di un Partito che sostiene, o sosteneva, che lo Stato non è neutro, ma, appunto, al servizio di una classe.

Sta di fatto che non solo la sinistra, ma anche la Confindustria e le Partecipazioni Statali hanno sempre concordato che i criteri di giudizio debbano essere diversi; ma hanno anche sempre discordato sul contenuto di questi criteri. La Confindustria, per il passato, ha eletto l'industria pubblica come il luogo in cui scaricare le deficienze dell'industria privata facendone strumento di socializzazione delle perdite e ha finito di buon grado di accettare che divenisse formalmente oggetto privilegiato della politica economica del Governo ottenendo per questa via e con questa copertura una libertà d'azione e un grado di irresponsabilità nei confronti delle esigenze collettive altrimenti insperabile. La sinistra l'ha prescelta come anello debole della catena padronale nella contrattazione sindacale, come mezzo che avrebbe dovuto portare a compimento un'accozzaglia incoerente di iniziative e di riforme vanificantisi l'una con l'altra e a sede di operazioni di potere e di sottogoverno. In una cornice così contradd

ittoria le Partecipazioni Statali, sfruttando la possibilità di spostare continuamente e a piacimento il metro di giudizio sul proprio operato, si sono guadagnate una larghissima discrezionalità di manovra e hanno potuto coprire operazioni di potere, deficienze e scelte imprenditoriali che hanno molto di speculativo e nulla di pubblico.

In una situazione in cui il movimento operaio, non solo italiano, non ha ancora maturato operanti modelli di conduzione dell'impresa alternativi a quelli attuali in termini di democrazia, quale potrebbe essere quello fondato sull'autogestione (benché le rivendicazioni dell'autunno caldo ne con tenessero più di un segno), i lavoratori, le loro organizzazioni, in generale la sinistra, avrebbe tutto da guadagnare da una riacquisizione - negli istituti, nelle leggi, e nella prassi - di un indirizzo univoco nei confronti di un fenomeno, come quello dell'industria, che è unitario nella sostanza e nelle motivazioni di fondo; tutto da guadagnare dal recupero di una propria politica economica.

Non mancano, in un'ipotesi non eversiva del sistema (qual è quella propria della nostra sinistra parlamentare) strumenti, oggi inoperanti o operanti in modo distorto, ed altri che si potrebbe conquistare lottando contro gli interessi costituiti: gli incentivi e i disincentivi (questi ancora mai applicati) agli insediamenti industriali, collegati ad una politica di pianificazione territoriale e urbanistica; la manovra del credito; una legislazione antimonopolistica; una riforma delle società per azioni per aumentare i poteri di conoscenza, di controllo e di limitazione della concentrazione del potere economico in poche mani, pubbliche e private. Alcuni di questi strumenti appartenevano alla piattaforma riformatrice che all'inizio degli anni cinquanta, socialisti e cosiddetta sinistra democratica intendevano travasare nei programmi del centro-sinistra e che non a caso hanno incontrato l'insuperabile ostilità della DC. Come non è un caso che questo partito e la sua classe dirigente non si siano mai opposti e an

zi siano stati i promotori dell'ampliamento dell'area economica cosiddetta pubblica.

Queste ed altre simili misure sarebbero di per sé sufficienti, se unitariamente formulate ed usate, e non abbandonate alla incredibile dispersione e frammentarietà odierna per fare dello Stato e innanzitutto del Parlamento un luogo di effettivo indirizzo e controllo della politica economica. Misure possibili se accompagnate dal risanamento e dalla riforma di quella vasta area pubblica marcescente creata dal fascismo e ampliata dalla DC con l'avvallo dei suoi alleati di governo. Area dove prosperano 60.000 enti pubblici e ii cui si disgrega, gonfiandosi di persone svuotandosi di compiti, la pubblica amministrazione; luogo di appropriazione indebita di plus-valore creato da chi lavora in attività produttive, che copre un'inefficienza che è già discriminazione di classe, che sottrae risorse al processo di accumulazione, crea e alimenta un ceto piccolo borghese parassitario e forzatamente connivente con questo tipo di potere.

La sinistra lascia invece cadere i vecchi obiettivi di riforma, e così accade - come è avvenuto con le vicende Montedison e con quelle della fusione della Bastogi - che il potere politico e il potere dell'imprenditoria pubblica, con l'avallo e sotto il patrocinio della Banca d'Italia, si approprino dei vecchi armamentari di cui per un secolo si sono serviti i padroni della finanza e della economia italiana. Nulla muta ai fini del controllo pubblico dell'economia e dell'interesse generale, ma le forze del regime si sono arricchite di nuovi strumenti.

Cosa fa invece la sinistra? Si propone di accrescere i rapporti e di istituzionalizzare i luoghi di incontro con il nuovo potere economico del regime, fuori dell'attività legislativa e della dimensione conflittuale propria del movimento operaio, secondo un metodo e una prassi che ha nulla a che fare con la lotta di classe, ma molto di corporativo e di municipalistico: questo è il giudizio che si può dare della proposta del progetto di legge comunista ("L'Unità" 15-1-'72; articolo di Colajanni su "Rinascita" 21-1-'72). Esso vorrebbe: conferenze regionali annuali con la partecipazione dei sindacati e delle altre organizzazioni economiche per discutere con ruolo consultivo l'attuazione dei programmi dell'industria pubblica; una conferenza annuale dei delegati dei lavoratori delle singole imprese di Stato per discutere l'andamento produttivo e i problemi organizzativi dell'azienda e per eleggere comitati consultivi permanenti con diritto di informazione su tutte le questioni legate alla produzione. In base a que

ste conferenze il Parlamento dovrebbe approvare i programmi delle Partecipazioni statali ed essere dotato degli strumenti per controllarne l'attività; al Parlamento dovrebbe anche essere dato conto delle nomine dei gruppi dirigenti dell'industria pubblica e attribuita la facoltà di revocare gli amministratori degli enti.

Ora, che attendersi dall'istituzionalizzazione di 19 conferenze regionali se non lo scatenamento di faide e diatribe a non finire? E quale legge oggi vieta di organizzare da parte dei sindacati (che già lo fanno) e dei partiti conferenze nazionali, interregionali, regionali sul tema dell'industria privata e pubblica? Cosa impedisce ai lavoratori di riunirsi e apprestare iniziative? E quali informazioni suppletive pensano di poter ottenere per legge, se non quelle poche che la logica imprenditoriale e di mercato, rispettata dal PCI, permette di dare? E al PCI chi vieta oggi di usare i suoi trecento parlamentari per chiedere e ottenere dibattiti sull'industria privata e pubblica, per portare, cosa che non fa, dal chiuso delle commissioni all'aula del Parlamento, ove il pubblico è ammesso, la discussione e il voto sugli aumenti dei fondi di dotazione? Cosa ostacolò il PCI - battiamo ancora questo chiodo - a chiedere nel 1964 un'inchiesta sulle documentate denunce radicali sull'ENI, che erano anche prova della s

trategia di accordo con i monopoli internazionali? L'unica cosa condivisibile del progetto è l'intervento del Parlamento nella nomina e revoca dei dirigenti, che per tale via sarebbero probabilmente uomini meno di fazione e giudicati in base a una competenza provata; senza illudersi, con ciò, di veder designate delle persone intese ad accrescere »le contraddizioni del sistema .

Il progetto, così poco efficace nella sua liturgia rispetto agli assunti dichiarati, può portare anche ad un diverso risultato, quello di creare una condizione in cui il PCI si pone a livello regionale e locale come elemento di condizionamento e di guida dell'attività sindacale e, forte del suo centralismo e del suo apparato, come l'unico partito in grado di mediare e unificare, sia pure a basso livello, le spinte centrifughe settoriali e locali che la stessa proposta comunista alimenta; come l'unica forza, rispetto ai sindacati e ai partiti, che in Parlamento e fuori può garantire, a condizioni da definirsi, all'industria e alla DC una certa regolarità del processo produttivo e il rispetto di una data configurazione di potere.

Per contro il rovesciamento del rapporto imprenditoria pubblica - potere politico democristiano che è avvenuto gradualmente dalla morte di Mattei ad oggi e che si è ormai definitivamente realizzato con l'assunzione del ministero delle Partecipazioni Statali da parte di uomini come Forlani prima e Piccoli oggi, e fenomeni del tutto nuovi nel campo dell'intervento finanziario dello Stato, come le operazioni di Cefis alla Montedison, rimangono da parte della sinistra senza risposta.

All'epoca del ministro Bo si invocava illuministicamente la restaurazione del potere governativo sulle baronie dell'industria pubblica. Oggi questa presa del potere si è verificata ma a fini di controllo politico di regime. Tutto lascia pensare che l'area di libertà di lotta contro il capitalismo per le istituzioni (partiti e sindacati) del movimento operaio si restringa anziché allargarsi. In definitiva, dietro la politica del PCI, si cela più di un'illusione, derivante dalla sottovalutazione dei fenomeni in atto e dalla sottovalutazione di quelli che dovrebbero pur sempre essere (ma non sono più trattati alla stregua) di avversari di classe.

 
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