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Spadaccia Gianfranco - 31 gennaio 1972
Le elezioni presidenziali
di Gianfranco Spadaccia

SOMMARIO: E' stata l'inerzia delle sinistre italiane a portare all'elezione di Leone alla Presidenza della Repubblica. Socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali hanno dimostrato ancora una volta la loro mancanza di autonomia rispetto alla DC. Il risultato è un Presidente clericale che rafforzerà l'egemonia clericale sul Paese.

(LA PROVA RADICALE N.2, BENIAMINO CARUCCI EDITORE, Inverno 1972)

L'elezione di Leone alla Presidenza della Repubblica è stato il risultato di gravissimi errori della sinistra italiana. Vale in questo caso il vecchio detto »si raccoglie ciò che si è seminato .

Per oltre un anno si era rinunciato ad ogni lotta e ad ogni scontro con il partito di regime in cambio di modeste concessioni: uno stentato avvio dell'ordinamento regionale, il dialogo (ma che dialogo?) con i sindacati. Il successo conseguito nella prima metà del 1970 con la temporanea sconfitta del »partito della crisi è stato presto annullato da una politica compromissoria e neo-concordataria, seguita dai vertici del PCI e del PSI, alla ricerca affannosa di un accordo con la Chiesa e la Democrazia Cristiana. Per oltre un anno non è stata presa nessuna iniziativa politica, parlamentare e di massa, che non rispondesse a calcoli di potere. Rimanevano così senza risposta fatti gravi, di chiaro segno reazionario, che si manifestavano nel paese: l'offensiva clericale scatenata dopo l'approvazione del divorzio; alcuni fenomeni eversivi che trovavano alimento proprio nel mondo clericale, in alcuni settori del partito di regime e all'interno stesso delle istituzioni. Dietro ognuno di questi fenomeni eversivi - dai

fatti di Reggio Calabria, alle "maggioranze silenziose", alle iniziative delle associazioni d'arma, alle campagne contro la criminalità che strumentalizzavano l'indignazione dell'opinione pubblica - non era difficile individuare precise responsabilità della classe dirigente democristiana. Di fronte a questi fatti la sinistra rinunciava al suo ruolo di opposizione. Le parrocchie si mobilitavano contro il divorzio e la sinistra offriva alla DC e alla Chiesa la revisione, cioè la conferma e il potenziamento, dei Patti Lateranensi, e quando neppure questa offerta era sufficiente a fermare il referendum essa stessa prendeva l'iniziativa di snaturare e affossare l'unica conquista civile strappata al partito clericale. La politica delle riforme, che aveva avuto una ripresa dopo la grande ondata sindacale dell'ottobre '69 e dopo le elezioni regionali del '70, diventava una misera cosa e produceva, quando li produceva, simulacri di riforme con l'avallo e l'appoggio del Partito Comunista che accettava di buon grado l

a caduta della delimitazione della maggioranza. Tecnicamente scadenti, frutto di compromessi che li rendevano inefficaci, non sostenuti da alcuna volontà politica, i provvedimenti di riforma non modificavano nulla nelle strutture dello Stato e non portavano alcun reale beneficio sociale ma provocavano la reazione dei ceti moderati che, a torto o a ragione, se ne sentivano colpiti. La politica dell'»arco costituzionale , cioè dell'unità fra le forze »che si riconoscono nella costituzione , dal PCI fino alla DC e al PLI, e le campagne di unità anti-fascista erano il grande alibi, la grande mistificazione che doveva servire a mascherare la rinuncia alla lotta e la ricerca dei compromessi. Almirante non ha torto quando afferma che il successo elettorale della primavera del 1971 non è merito del MSI: quel successo è stato preparato e voluto dai settori della DC che volevano spostare a destra l'asse politico, e facilitato e consentito dall'immobilismo della sinistra. Ma non è questo l'unico guasto prodotto da una

politica basata sul compromesso e sulla rinuncia alla lotta. Essa ha finito per coinvolgere anche i sindacati, rendendoli corresponsabili di una inesistente politica delle riforme, e trasformando la stessa unità sindacale in una specie di supporto organizzativo di massa della politica dell'»arco costituzionale .

Viva il partito di Gramsci-Togliatti-Longo e Berlinguer , scandivano i giovani della FGCI alla grande manifestazione antifascista tenuta a Roma pochi giorni prima dell'elezione presidenziale. Ed era certo emblematico vedere le masse del »partito di Berlinguer raccolte a Roma ad ascoltare dallo stesso palco le parole del partigiano Boldrini e quelle del fanfaniano Darida, che deve come Petrucci le sue fortune elettorali al "racket" clericale dell'assistenza pubblica. Se nel PCI la scelta dei "leaders" dipendesse dal dibattito politico e ideologico, da una corretta analisi della situazione, dal successo o dall'insuccesso di una linea politica, e non dipendesse invece ormai esclusivamente dal controllo dell'apparato, non c'è dubbio che questo gentiluomo »di nobile famiglia sarda, iscrittosi giovanissimo alla direzione del PCI , sarebbe spazzato via al prossimo Congresso prima ancora che dalla base dalle esigenze di autodifesa del gruppo dirigente, e spedito a dirigere, come in passato accadde a Longo e Secchia

, qualche federazione regionale, o destinato, come accadde a Ingrao, a incarichi marginali. Ma queste erano cose che avvenivano nel Partito di Gramsci di Togliatti e di Longo, è improbabile che avvengano in un partito che sembra rassegnarsi a diventare la brutta copia, a misura brezhneviana, di ciò che era stato nella resistenza e nel dopoguerra, come Berlinguer è una brutta scolastica copia di Togliatti. Perché il risultato delle elezioni presidenziali ha una firma d'autore: quella del vice segretario del PCI. La politica dell'»arco costituzionale ha portato a un Presidente eletto da uno schieramento di »blocco d'ordine , con l'aggiunta determinante di voti fascisti. Il rifiuto accanito di ogni prospettiva di »fronte laico , anche soltanto come carta di riserva, ed anche ai soli fini dell'elezione presidenziale, ha portato, come era giusto oltre che logico, alla elezione di un Presidente clericale.

A sconfitta avvenuta, si è affermato che la vicenda presidenziale aveva clamorosamente smentito le accuse di compromessi di vertice e di patteggiamenti segreti fra il segretario della DC e il vice segretario del PCI collegati alle trattative sul referendum e sul divorzio. Non diciamo sciocchezze. Non si persegue un disegno di accordo concordatario con la Chiesa e con la DC della portata di quello che per alcuni mesi ha perseguito Berlinguer senza coinvolgere e compromettere oggettivamente, indipendentemente da negoziazioni e patteggiamenti, ogni aspetto dell'azione politica d'un partito. E non c'era bisogno, per capire quale grado di slabbramento questa strategia di potere avesse prodotto nella politica comunista, di aspettare l'indiscrezione pubblicata sulle colonne del "Paese Sera" da una giornalista comunista secondo la quale l'illusione di Forlani di poter catturare i voti del PCI a favore del Presidente del Senato sarebbe stata determinata da un colloquio fra due giornalisti che sono rispettivamente dir

etti collaboratori di Forlani e di Berlinguer: i due non si sarebbero capiti bene! Come non c'era bisogno di attendere la candida confessione di Amendola per sapere che si era puntato tutto sulla politica dell'arco costituzionale e sulle trattative per evitare il referendum. La verità è che questa strategia, come ogni disegno che è soltanto di vertice e di potere, non aveva fatto i conti con alcuni fattori che poi dovevano rivelarsi determinanti: aveva trascurato di considerare che la DC, impegnata a ricuperare a destra i voti andati ad Almirante, non poteva spingersi troppo avanti nel colloquio con il PCI; aveva sottovalutato la forza della opposizione della LID, del Partito Radicale di gran parte dei parlamentari e della base socialista al pateracchio anti-divorzista, come aveva sottovalutato l'influenza della campagna contro il "fanfascimo" condotta dai gruppi extraparlamentari e le forti resistenze presenti nella base comunista e in parte negli stessi gruppi parlamentari del PCI: non aveva infine previst

o la volontà del gruppo dirigente del PSI di non farsi scavalcare e il significato reale della candidatura socialista che era destinata a diventare durante tutta la vicenda presidenziale una insuperabile candidatura di sbarramento.

Proprio questi fattori avrebbero però dovuto consentire di riparare i guasti della politica errata dei mesi precedenti, solo che al momento delle elezioni presidenziali se ne fosse voluto tener conto, invece di subirli passivamente. Fallita la strategia di Berlinguer, non bastava richiamare Longo dalla sua villa di Genzano impegnandolo per la prima volta dopo più di un anno di assenza nei colloqui politici con gli altri partiti, era necessario cambiare rotta. La compattezza del blocco delle sinistre, all'interno del quale era stata isolata la pattuglia di transfughi fanfaniani che si annida nel gruppo della "sinistra indipendente", e la conclusione positiva del lungo braccio di ferro con Fanfani, avevano infatti creato le condizioni per un diverso esito delle elezioni presidenziali. E invece, nella seconda fase conclusiva del confronto, la sinistra è rimasta inerte in attesa della sortita delle sinistre democristiane e di un impossibile successo di Moro. A quest'unica prospettiva è stata sacrificata ogni alt

ra possibilità, dalla tempestiva presentazione di Nenni come candidato laico, alla possibilità di una candidatura assembleare del Presidente della Camera, alla stessa ipotesi di una riconferma di Saragat. Per questo stesso motivo è stata anche lasciata cadere l'opportunità di reinserirsi nel gioco che era stata offerta dalla lettera con cui il Presidente uscente annunciava la rinuncia alla propria candidatura. Ma forse era troppo pretendere un improvviso cambiamento di linea da chi per mesi aveva coltivato altre ambizioni e perseguito diversi disegni. Meno comprensibile appare invece l'inerzia altrettanto paralizzante del Partito Socialista.

Se questo è stato il comportamento della sinistra, socialdemocratici e repubblicani si sono ancora una volta confermati come forze sostanzialmente subalterne della Democrazia Cristiana, per non parlare di Malagodi che fin dal primo momento si è posto a disposizione del partito di regime, pronto a dare i voti liberali a qualsiasi candidato - a Fanfani, a Leone e perfino a Moro - purché si trattasse di un clericale. La polemica che si è aperta, dopo l'elezione di Leone fra lo schieramento di sinistra da una parte e PSDI e PRI dall'altra, serve solo ad alzare un gran polverone per nascondere la totale mancanza di una valida strategia e la totale mancanza di autonomia nei confronti dell'egemonia clericale che ha accomunato in questa prova entrambi gli schieramenti del mancato fronte laico. Per dire quanto queste polemiche siano artificiose basterà ricordare che fu lo stesso Amendola a prendere in considerazione la possibilità di una candidatura Leone come punto di incontro tra le forze dell'»arco costituzionale

. Del resto le polemiche reazioni contro lo schieramento che aveva espresso il nuovo Presidente sono state immediatamente smentite dagli atti d'ossequio rivolti a Leone da alcuni dei maggiori esponenti della sinistra.

Saragat, in una sua dichiarazione, ha insistito sullo scrupolo costituzionale del nuovo capo dello Stato, e intendeva forse dire che, per essere sempre stato un notabile non invischiato nella lotta delle correnti, Leone dovrebbe essere considerato »al di sopra di ogni sospetto . In parole povere non si servirà, come fecero Gronchi e Segni, della sua »alta funzione per influire sugli schieramenti parlamentari e sull'indirizzo politico dei governi e dei partiti. Questa è tuttavia una strana concezione della democrazia. Uno Stato democratico vive e funziona proprio sul presupposto della lotta e del confronto fra le parti politiche. In una democrazia, quindi, non esistono uomini al di sopra delle parti e, se pretendono di assumere questo ruolo, si pongono in realtà non al di sopra ma al di sotto del livello della lotta politica democratica. Una Repubblica che deve eleggere un notabile alla massima carica dello Stato si fonda evidentemente su una democrazia non funzionante. Ma l'errore di Saragat, che è del rest

o comune a tutte le forze laiche, è quello di considerare il Capo dello Stato in funzione soltanto degli equilibri e degli schieramenti politico-parlamentari del paese, trascurando il ruolo fondamentale che la Costituzione e venticinque anni di esperienza repubblicana assegnano, nella vita delle istituzioni, al Presidente della Repubblica: dalla nomina di un terzo dei giudici della Corte Costituzionale, alla possibilità di influire, non solo indirettamente, su tutti i corpi dello Stato. Ciò che si può dire di Leone, sulla base della sua precedente esperienza politica, è che è sempre stato un uomo che non ha avuto potere, ma che è stato ossequiente al potere. Se questo giudizio è valido non c'è da attendersi che l'influenza del nuovo Presidente sullo smisurato potere dei corpi dello Stato (magistratura, forze armate, polizia, servizi segreti ecc.) possa rivelarsi positiva. Quanto alla sua dottrina politica, se mai ne ha avuta una, essa è stata già espressa nel messaggio alle Camere. Ed erano certamente signif

icativi, in quel messaggio, per le concezioni che esprimevano, i riferimenti all'ordine pubblico, alla vita produttiva e ai rapporti fra Stato e Chiesa. In ultima analisi la sinistra italiana e con essa le forze laiche ha dimostrato di continuare a subordinare ogni valutazione di fondo, riguardante la vita delle istituzioni, le strutture dello Stato e i rapporti di potere, a contingenti operazioni tattiche.

Con l'elezione di Giovanni Leone alla presidenza della Repubblica si rafforza l'egemonia clericale sul paese. Manca ora solo, perché questa egemonia sia completa, l'elezione di un altro democristiano alla segreteria generale della futura confederazione unitaria dei lavoratori. Ma - c'è da scommetterlo - è solo questione di mesi.

 
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