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Mellini Mauro - 15 settembre 1973
Giustizia: LA DISFUNZIONE PER IL REGIME
di Mauro Mellini

SOMMARIO: Secondo l'autore è inadeguato affermare che la giustizia italiana è "di classe" perchè è invece giustizia di un regime che affonda le radici del suo potere soprattutto nel disfacimento delle istituzioni piuttosto che nella creazione di un sistema legislativo efficiente rispondente ai suoi interessi e alle sue concezioni.

(LA PROVA RADICALE, n.10-11-12, agosto-ottobre 1973)

Alcuni episodi paradossali giunti alla ribalta della cronaca giornalistica, hanno prodotto nel paese un'altra ventata di scandalo e di costernazione per lo stato della giustizia e per il ritardo della riforma dei codici, invocata da ogni parte come indilazionabile e sempre rinviata.

Probabilmente una qualche riforma si farà. La politica del rinvio comincia a divenire difficile e costosa anche per gli specialisti del regime democristiano. Ma tutto lascia prevedere che si tratterà di mini riforme e, soprattutto e ancora una volta, di riforme che poco o nulla finiranno per incidere sul meccanismo della giustizia e sul risultato del suo funzionamento, destinate cioè a soddisfare le esigenze dei giuristi, dei legislatori, dei giudici, degli avvocati e persino degli imputati e dei litiganti in grado di giovarsene, ma non quelle dei cittadini in quanto utenti reali o potenziali della giustizia e quelle della società.

Nell'era delle indagini sociologiche, delle rilevazioni scientifiche su base statistica degli effetti di ogni provvedimento dei vari organismi pubblici, dell'economia programmata, sembra che solo il meccanismo della giustizia sia destinato ad essere studiato, discusso, riformato o, come in realtà accade, abbandonato a se stesso, senza la minima preoccupazione per le ripercussioni complesse sul risultato complessivo della funzione giudiziaria e di questo sull'economia e sulla vita sociale e politica del paese.

Non è quindi ingiustificato lo scetticismo di fronte alle riforme che finiranno per essere approvate. Uno scetticismo che può esprimersi in una previsione abbastanza facile: le riforme se ci saranno, serviranno solo a consentire a questa impossibile situazione di protrarsi ancora per anni.

Un giudizio del genere potrà apparire eccessivamente pessimista. Chi è convinto che basti realizzare il solito mitico " largo schieramento " con le forze cattoliche etc.. per avere a portata di mano ogni riforma potrà giudicarlo addirittura sterile e qualunquista. Chi invece non vorrà dimenticare certi schemi dell'ideologia marxista relativi alla giustizia di classe, potrà considerare queste previsioni ovvie e scontate, come giudicherà velleitaria ogni azione diretta a determinare un diverso corso della giustizia nel nostro paese, senza passare attraverso la riforma delle strutture economiche oggi esistenti.

Le forze che più generosamente e efficacemente hanno contribuito a denunciare al paese alcuni degli aspetti sconvolgenti della situazione della giustizia, ritengono infatti che nella giustizia di classe possa essere ricercata la ragione del meccanismo giudiziario sgangherato ed aberrante nel nostro paese.

Che le leggi e la giustizia chiamata ad attuarle e, soprattutto, il risultato ultimo di tale attuazione, abbiano un carattere spiccatamente classista, è ben difficile mettere in dubbio. Né solo a sinistra si è disposti a giungere a questa conclusione.

Certo è però che non basta qualificare classista il nostro meccanismo giudiziario per spiegarne l'aberrante funzionamento e neppure per esaurire gli aspetti propriamente politici e culturali di tale spiegazione.

Una giustizia classista non è necessariamente una giustizia che non attua le leggi stabilite dalla classe che la organizza e la esercita né è necessariamente una giustizia in cui l' inefficienza è istituzionalizzata. Perché nel nostro paese l'inefficienza del meccanismo giudiziario non è affatto un dato meramente tecnico e contingente e neppure la conseguenza dell'incapacità' incapacità di una classe dirigente. E' invece una precisa scelta politica che caratterizza la giustizia di questo regime clericale. Certo si tratta di una scelta maturata e realizzata con gli anni, in mezzo alle tortuosità ed ai compromessi che hanno consentito l'affermarsi del regime clericale, nel nome della continuità della Stato, della democrazia frenata, della Costituzione inattuata, dei diritti civili elusi e frodati.

Se la Democrazia cristiana ha potuto mantenere in piedi una gran parte delle leggi fasciste, ed in particolare il codice penale Rocco, ciò è avvenuto solo grazie alla disapplicazione generalmente praticata delle norme più indecenti in essa contenute. Una disapplicazione che nulla ha a che vedere con una coraggiosa revisione interpretativa, ma che scade nella sistematica pura e semplice dimenticanza di certe norme.

I tribunali, ma soprattutto la Corte di Cassazione, non hanno mai dato mano ad una interpretazione più accettabile del codice penale. Le sentenze della Cassazione, invece, hanno sempre riaffermato una interpretazione rigoristica in fatto di aggravante, hanno sempre ritenuto punibili fatti la cui configurabilità come reati appariva dubbia, hanno escluso attenuanti. Non è certo attraverso le massime della giurisprudenza, che il volto arcigno del codice Rocco ha subito una attenuazione.

A leggere le sentenze della Cassazione si ha l'impressione che nel nostro paese la giustizia penale colpisca duramente ed inesorabilmente ogni violazione. Sono le amnistie ricorrenti, le estinzioni dei processi per prescrizione, il mancato esercizio dell'azione penale, il tutto operante nel meccanismo giudiziario di una lentezza e di una complicazione esasperanti, che danno il risultato di una giustizia tutt'altro che inesorabile, anche se neppure un po' più umana e razionale.

Finora tutte le modifiche apportate alla procedura penale, nell'intento di assicurare all'imputato maggiori garanzie di una difesa meno simbolica ed aleatoria, hanno conseguito il risultato certo per la generalità dei processi dei allungarne la durata e la macchinosità, che già erano inconcepibili. L a punizione di qualsiasi delitto è divenuta così ancor più aleatoria e così lontana dalla commissione del fatto da perdere qualsiasi efficacia. Per colpire la criminalità, piuttosto che la esecuzione delle pene sempre tarda ed incerta, vengono invece usati strumenti concepiti per un fine ben diverso. Il mandato di cattura e la carcerazione preventiva, che dovrebbero servire ad impedire che l'imputato se la batta, diventano il mezzo per anticipare la pena altrimenti troppo lenta a colpire il reato. Nelle carceri italiane i due terzi dei detenuti sono in attesa del giudizio. Si tratta di persone che la legge considera innocenti, finché non intervenga la loro condanna definitiva, che spesso per altro non inter

viene mai, perché sono innocenti e tali vengono alla fine riconosciuti, o perché, magari, interviene una amnistia. La punizione dei reati è dunque affidata, anziché alla certezza della colpevolezza stabilita con una sentenza, alla probabilità della colpevolezza, valutata discrezionalmente da che emette un mandato di cattura preventiva. O, addirittura, in caso di mandato di cattura obbligatorio, la pena preventiva consegue automaticamente ad una qualsiasi accusa.

Così stando le cose, ogni processo è un po' una farsa. La rigorosa verifica delle prove, il confronto sottile delle tesi giuridiche, appaiono scrupoli paradossali ove si consideri che il giudicato ha già scontato la pena in base ad un provvedimento discrezionale, che egli è stato prescelto, più o meno a caso, tra centinaia e migliaia di altre persone che hanno commesso lo stesso fatto senza che nessuno se ne sia troppo curato e che, se condannato, sconterà o meno la pena residua a seconda della tempestività o meno della prossima amnistia.

D'altra parte questo andazzo delle cose della giustizia ha consentito che rimanessero in vigore, se così si può dire, leggi che mai potrebbero essere tollerate se fossero applicate con un'efficienza appena decente. Le norme che puniscono il procurato aborto sono di ciò un esempio classico. Per tenere in galera tutte le donne che in Italia abortiscono, o soltanto una apprezzabile percentuale di esse, occorrerebbe istituire dei campi di concentramento di tipo nazista. D'altra parte se per evitare il carcere esse facessero a meno di abortire, scoppierebbe, anziché i carceri, tutto il Paese, per la conseguente esplosione demografica.

La stessa cosa si potrebbe dire di una serie di altri reati, tra i quali quelli di opinione, di cui per lunghi anni nessuno ha pensato si dovesse reclamare l'abrogazione, perché sembrava si potesse contare sulla pratica disapprovazione delle norme che li prevedono.

A questo punto si impone una prima considerazione: la disfunzione cronica della giustizia penale, la disapplicazione di una quantità di norme incriminatrici e la loro approssimativa ed aleatoria applicazione, non indeboliscono affatto, ma aumentano enormemente il potenziale repressivo del regime, che solo a tale condizione e per tale mezzo può mantenere in vita un armamentario legislativo buono per qualsiasi evenienza, e buono ogni giorno per riaffermare, con un sapiente dosaggio di tale disapplicazione e quindi della saltuaria applicazione, il potere di colpire, spesso anche in direzioni e con finalità diverse da quelle per le quali le norme erano state concepite. Così oggi gli articoli del codice penale che incriminano il procurato aborto non servono più a tutelare la "integrità della stirpe" ed a salvaguardare una politica demografica da allevatori di conigli, ma a mantenere la donna italiana in condizione di abortire con pericolo o vergogna, alla mercé di sfruttatori, e serve a riaffermare, con l'es

trazione a sorte di qualche diecine di disgraziate da condannare ogni anno, la condanna, in realtà, della "eresia" dei sostenitori di tesi diverse da quelle di Paolo VI.

D'altra parte nel guazzabuglio dell'inefficienza giudiziaria, rivivono e si potenziano poteri e privilegi gerarchici all'interno stesso della magistratura che anni di lotte per l'indipendenza dei magistrati, per l'abolizione di ogni loro sudditanza gerarchica, hanno creato l'illusione di aver abolito o almeno attenuato.

E' evidente, infatti, che in questa situazione la selezione dei processi, quelli da far andare in porto e quelli da lasciare impantanare, diventa il potere determinante nell'esercizio della giurisdizione penale. Ed è potere che spetta ai "capi" degli uffici, ai procuratori della repubblica, che, ovviamente, trovano il modo di rendere sempre più incisiva questa loro funzione. Ed ovviamente, l'importanza sempre maggiore che assumono nell'esercizio effettivo della funzione punitiva, anziché in quella loro propria e legittima, provvedimenti discrezionali come quelli relativi alla detenzione preventiva dell'imputato, ingigantisce la preminenza del potere di certi magistrati di prima categoria rispetto a quello dei loro colleghi di seconda o di terza.

Non è lecito dubitare che questa situazione comporti l'accentuazione del privilegio classista, ma è troppo poco, ma forse è troppo dire che questa è una giustizia di classe e soprattutto è erroneo e pericoloso trarre da una affermazione del genere certi corollari, come quello che il miglioramento tecnico, funzionale, il raggiungimento di una certa efficienza di questa giustizia, rappresenterebbero null'altro che un perfezionamento del suo classismo e, più specificamente un potenziamento del potere repressivo del sistema.

Questa giustizia è la giustizia del regime. Un regime che, anche in questo campo, affonda le radici del suo potere soprattutto nel disfacimento delle istituzioni, nella loro corruzione, nella loro inefficienza, piuttosto che nella creazione di istituzioni proprie, di proprie leggi, di un complesso di efficienti meccanismi rispondenti, in quanto tali, ai suoi interessi ed alle sue concezioni.

In realtà il regime non può assolutamente permettersi una giustizia semplicemente efficiente, sia pure nell'applicazione del codice Rocco, perché questo significherebbe dover rinunziare alla politica di dilazione di ogni riforma, in quanto salterebbe la condizione prima su cui si basa la conservazione di tutto l'armamentario della legislazione fascista, quello cioè di una tranquillizzante, pressoché totale, ma tuttavia non casuale disapplicazione di essa ed, in sostanza, in ogni altra norma.

L'inefficienza della giustizia risponde quindi ad una precisa scelta politica e non è quindi un problema soltanto tecnico e nemmeno è soltanto il frutto dell'incapacità di questa classe dirigente di affrontare organicamente il problema.

Dire che cosa ci sia alla base di questa scelta non è certo semplice, perché equivale a dare una risposta ai molti interrogativi circa le radici sociali e culturali di questo regime.

Certo è che ad un quarto di secolo dalla presa del potere, i cattolici vi restano accampati conservando verso lo Stato l'atteggiamento che adottarono all'epoca della loro opposizione allo Stato moderno, unitario e liberale, un atteggiamento caratterizzato dall'attesa del suo disfacimento e dallo sfruttamento di ogni sua situazione critica. Atteggiamento comprensibile in una forza di opposizione e nel momento in cui essa si affaccia al potere, ma certo ben diversamente valutabile in una forza che monopolizza il potere da decenni.

La riprova di queste peculiari caratteristiche della giustizia del regime, di cui sopra abbiamo cercato di delineare i tratti e gli strumenti essenziali, potrebbe essere data dall'analisi dell'uso effettivo che viene fatto dello strapotere che nasce dall'inefficienza.. Un uso sempre più spregiudicato e pericoloso, man mano che certi ambienti e certi esponenti della magistratura, e non soltanto della magistratura, si rendono conto delle possibilità offerte da questa situazione.

In pratica questo regime non potrebbe sopravvivere molti mesi all'instaurazione di una giustizia che non sia questa sua giustizia, provvidenzialmente inefficiente o efficientissima solo a senso unico. Perché questo regime non può darsi le leggi di cui avrebbe bisogno, né, di contro, può permettersi di abrogare quelle che il paese, in sostanza non è disposto a tollerare.

Il regime fascista era riuscito a codificare la violenza che gli aveva consentito, con la complicità degli organismi dello Stato, polizia, carabinieri, esercito, magistratura, di conquistare il potere. Sembra che sia molto più difficile al regime clericale codificare e legalizzare la corruzione, il peculato, lo sfruttamento dell'assistenza, etc. etc., con cui riesce ad imporsi ed a vanificare ogni opposizione. Di qui la sua aberrante e paradossale caratteristica di regime permanentemente fuori legge, che proprio in quanto tale ha bisogno di una giustizia dalle maglie assai larghe, caratterizzata da una inefficienza, nelle cui pieghe possano concretarsi obbiettive complicità o almeno facili scappatoie.

Esistono regimi borghesi e classisti in cui la inflessibilità delle leggi che la borghesia si è data rappresentano un dato di forza del regime stesso, cui questo non sarebbe disposto a rinunziare per esigenze quotidiane e contingenti del potere. La giustizia in essi funzionante, sarà certamente ispirata e condizionata da dati culturali e politici della classe dominante, ma non avrà bisogno di non poter funzionare per essere omogenea al regime ed alla classe che esprime.

Una battaglia per la giustizia da parte delle forze della sinistra non può dunque prescindere da questa realtà. Contraddizioni violente, assurdità intollerabili caratterizzano la situazione voluta dal regime. Non è solo il contrasto tra le leggi in vigore e la costituzione della repubblica, ma anche la contraddizione tra la conservazione di norme repressive e la prassi della loro concreta disapplicazione, tra la proclamazione sempre ripetuta dell'indipendenza della magistratura e dei magistrati e la creazione tra loro di una specie di stato maggiore onnipotente. Ma soprattutto è la contraddizione tra le sempre invocate esigenze di difesa sociale e dell'"ordine" e la crescente inefficienza di tutto il meccanismo giudiziario, compromesso per assicurare la salvaguardia di esigenze repressive particolari, sempre più chiaramente identificabili.

La lotta contro questa giustizia e per una giustizia diversa non può quindi essere condotta presupponendo gli schemi della giustizia di classe, come dato sovrastrutturale, da abbattere con le strutture economiche di cui essa è espressione. Si può essere marxisti ortodossi senza dover riconoscere che nel nostro paese il regime ha assunto ancora una volta, caratteristiche del tutto particolari, non solo esteriormente, ma nelle sue stesse strutture e negli strumenti di potere, con i quali puntella equilibri sociali e politici precari ed equivoci.

La lotta contro questa giustizia di classe, rappresenta quindi una grossa limitazione dei mezzi politici e delle stesse possibilità di convergenza di forze per condurre la battaglia.

Attribuire l'etichetta pura e semplice di giustizia di classe a quella che abbiamo nel nostro paese, significa, del resto, nobilitarla e contribuire a creare intorno ad essa anche solidarietà anche sul piano culturale cui essa non potrebbe altrimenti aspirare. Certo è che lo scempio che il regime fa della giustizia comincia ad intaccare interessi che non possono essere considerati marginali. La diffusione della consapevolezza del dato politico e di potere del regime cui la crisi è legata, rappresenterà certamente una prima grossa vittoria delle forze autenticamente democratiche.

Ma il successo della battaglia non sarà possibile se non si raggiungerà il convincimento che il "sistema" in Italia si esprime non casualmente in questo regime e che questo regime non può sorreggersi senza affondare le sue radici e senza creare strumenti di potere nel disfacimento di istituzioni come quella della giustizia.

D'altra parte, finora, le responsabilità per questo stato di cose si sono estese ben al di là della DC e dei suoi alleati di governo.

Se a sinistra le lamentazioni per la paralisi giudiziaria, le carcerazioni preventive, i processi lampo per i reati di opinione, per taluni fatti di piazza, per i furti di meloni, le discriminazione tra i magistrati sono state continue ed accese, è mancata tuttavia una visione organica del problema e, soprattutto, una precisa volontà di cominciare ad intaccare concretamente elementi essenziali di questo meccanismo. E' mancata soprattutto la convinzione che su una questione del genere fosse possibile ed opportuna una vera battaglia politica. Così si è preferito far degradare l'indignazione che nel paese è estremamente diffusa per questo stato di cose in una specie di rassegnata mormorazione sostanzialmente qualunquista, che consente oggi al Presidente della Repubblica di dichiarare che la giustizia è capace solo di colpire i deboli, senza che tali parole assumano il significato di una precisa presa di posizione politica e di condanna della classe dirigente del partito al potere da un quarto di secolo

.

Il boicottaggio dei partiti di sinistra, ed in particolare del PCI, al tentativo di sottoporre a referendum almeno le norme più fasciste del codice Rocco, promosso da Magistratura Democratica, è al riguardo sintomatico.

Anche in questo campo, ormai, quando si parla di regime non si può non tener conto di quella componente di esso costituita dalle burocrazie quietiste dei partiti di sinistra.

La solita giustificazione della necessità di evitare fratture e scontri drammatici che rischierebbero di incrinare anche l'unità della classe lavoratrice, mostra proprio a questo proposito, tutta la sua inconsistenza. Senza scontri e fratture non si intacca certo questo, come nessun altro strumento di potere del regime. La frattura, del resto, già esiste. Si tratta di vedere se deve continuare a separare dai magistrati democratici, dai digiunatori radicali, dai detenuti in rivolta, dalle minoranze che si battono per i diritti civili, la massa dei cittadini riuniti in un "vasto schieramento", che catturi anche forze autenticamente democratiche ma disarmate dalla mancanza di orientamento e di organizzazione politica al riguardo; oppure se debba passare tra il regime e le forze ad esso omogenee e coloro che quotidianamente subiscono, in maniera diretta o indiretta o potenziale, il danno e la sopraffazione di questo sistema.

Per anni la battaglia contro queste leggi e contro questo tipo di giustizia è stata condotta quasi esclusivamente nelle aule giudiziarie, portando alla Corte Costituzionale un certo numero di norme marcatamente fasciste. Ed alla Corte Costituzionale, anziché al Parlamento, va il merito di aver realizzato quel poco che è stato ottenuto per l'adeguamento della legislazione ordinaria ai principi della Costituzione. Conquiste certo importantissime che, oltre tutto, hanno costituito un punto di riferimento per quanti hanno voluto continuare a battersi su questo fronte; ma che tuttavia non hanno potuto intaccare seriamente gli strumenti di forza del regime, congegnati, appunto, per vanificare ogni garanzia legale del cittadino attraverso la vanificazione di ogni pratica possibilità di rendere giustizia.

Occorre quindi un'azione più vasta ed organica, l'attacco frontale contro almeno uno dei pilastri della giustizia del regime, quello che può essere smantellato con un provvedimento di soppressione. Occorre riprendere su più vasto fronte, con forze meglio articolate ed organizzate, il tentativo di Magistratura Democratica, portando al successo il referendum popolare abrogativo del blocco delle norme fasciste del codice, conservate e custodite dal regime clericale. Ed è forse perché questa ipotesi comincia a preoccupare sul serio gli uomini del regime, più di quanto essi vogliano lasciar apparire, che avremo al fine la miniriforma da loro ammannita. Una miniriforma che bisognerà avere il coraggio di respingere e combattere, dopo aver inseguito per anni ogni pur modesto successo in fatto di conquiste dei diritti civili, perché ormai non si tratta più di combattere questa o quella norma autoritaria e disumana, ma di dare un colpo al regime ed alla truffa della sua giustizia.

 
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