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Teodori Massimo - 1 ottobre 1973
Referendum contro il regime (1) Perché i referendum abrogativi
di Massimo Teodori

SOMMARIO: Il Partito radicale ha deciso d'indire una serie di referendum popolari: per l'abrogazione del Concordato, delle norme fasciste del codice penale (compreso l'aborto), dei tribunali militari e sulla libertà di stampa e di diffusione radiofonica e televisiva. Massimo Teodori afferma, delineando una serie di scenari, che i referendum potranno essere lo strumento per creare una alternativa alla Dc. L'analisi delle possibili alleanze nella sinistra tradizionale, in quella extraparlamentare e nel mondo 'liberale'.

(LA PROVA RADICALE, n.10-11-12 agosto-ottobre 1973)

L'iniziativa di proporre un pacchetto di referendum abrogativi presa dal Partito Radicale può apparire non solo ambiziosa ma velleitaria. Sono note le difficoltà politiche ed organizzative per raccogliere le 500.000 firme necessarie per ogni singolo referendum e l'esperienza insegna che soltanto potenti macchine organizzative come parrocchie e PCI sono in grado di farlo agevolmente. Perché allora questa proposta, questa iniziativa intorno a cui si articolerà la stessa vita politica della minoranza radicale dei prossimi due anni?

Da molto tempo ormai i radicali sostengono che la situazione politica italiana è costituita in regime date le caratteristiche, il ruolo e l'insediamento che la DC è andata assumendo negli oltre venticinque anni di potere. Maggioranza senza ricambio, stretto intreccio tra partito, Stato e strutture parastatali, mancanza di una opposizione che si candidi all'alternanza di governo e di potere, sistema di ricambio filtrato dal partito (vedi l'analisi di Giorgio Galli che segue). E non è soltanto il contenuto ideologico della DC a farne il partito di regime, il suo interclassismo ed il cemento clericale, ma la base stessa del suo potere che ha costruito pazientemente e fittamente con il controllo di tutte le istituzioni, la corporativizzazione della società (vedi l'editoriale di Bandinelli), l'intreccio non più al di fuori ma all'interno dello Stato tra partito e istituzioni pubbliche. Del resto le elezioni che si susseguono a ritmo intenso dimostrano che i piccoli spostamenti dell'ordine del 2% nell'intero

arco politico non consentono confronti e scontri di fondo tra lo stesso partito-regime e gli altri partiti, ormai rassegnati all'attuale equilibrio e con la massima ambizione di espandere di qualche voto la fetta di influenza elettorale. Nessuno ignora che il PCI, per non parlare del PSI o degli altri partiti minori, si presenta all'elettorato non per chiedere di sostituire il partito-regime ma solo per meglio 'condizionarlo ' per meglio 'dialogare' per 'spostare l'asse politico', tutte espressioni che significano la rinunzia ormai storica a prospettive alternative alla dc, quindi all'abbattimento del regime di cui essa è espressione ed interprete. Dopo il '48, quando lo scontro frontale fu tra due ipotesi che riflettevano sul piano interno il mondo manicheo di Yalta, non si è mai verificata la possibilità di una scelta alternativa, tra proposte politiche, classi dirigenti, ipotesi ideali: da cui il consolidamento di uno scetticismo storico di questo paese e la constatazione rassegnata che "tutto rimane semp

re come prima".

Alla pratica comunista, socialista e laica di subordinazione (con maggiore o minore potere elettorale) si aggiunge la particolare situazione del momento. Un PCI teso con Berlinguer al dialogo fanfaniano nonostante le incertezze, le contraddizioni di cui di tanto in tanto si fa portavoce Amendola oggi disponibile ad una nuova 'ricostruzione' nazionale di collaborazione con i ceti medi espressi e rappresentati dalla DC e domani pronto a denunciare l'integralismo del ducetto aretino. De Martino, e con lui purtroppo il PSI, sembrano bearsi dello stagno in cui sonnecchiano non accorgendosi, dietro il logoramento del 'giorno-per-giorno' per acchiappare qualche vicepresidenza di quarto ordine, che il regime li coinvolge e li strangola di ricatto in ricatto 'democratico '.

Ognuno si domanda "che fare?". Sembra che questa situazione debba e possa durare all'infinito, non si scopre all'orizzonte alcun progetto capace di invertire tendenze e neppure nessuna proposta intorno a cui lavorare. Si teme il fascismo ed in nome della sua minaccia si subisce quello della DC. Il Cile è lontano per i carri armati ma vicino per le intenzioni, le vocazioni e le azioni della Democrazia Cristiana. I democratici d'ogni osservanza -- dai 'rivoluzionari' ai 'liberali' -- sembrano abbandonare ogni speranza. I referendum sono un tentativo di dare una risposta e di offrire un punto di riferimento a dimensione e portata di una minoranza 'dinamica' come i radicali: con essi è possibile passare attraverso l'immobilismo dei partiti, non di scavalcarli con intenzioni populistico-poujadistiche, ma di scuoterli dal di dentro e dal di fuori.

Non si riesce ad approvare leggi di un qualche rilievo in un

parlamento proteso a legiferare in maniera pletorica su argomenti marginali e si prospetta un modo diretto di effettuare alcune scelte primarie. Ogni grande decisione è svilita dal patteggiamento partitico, che coinvolge la stessa opposizione parlamentare, e si sottopone a giudizio popolare la decisione se tenere in vita norme autoritarie. L'accesso alla partecipazione politica è filtrata dai partiti che la sottopongono alle regole degli equilibri tra le classi dirigenti, e il ricorso al voto popolare elimina tutte le mediazioni. si evita ogni confronto che a partire da temi specifici comporti scelte politiche di fondo in quanto si vuol sempre più perfezionare questa "democrazia controllata" e i referendum impongono quel tipo di scelta "sì o no" che può contribuire a ricostituire una dialettica non solo politica ma ideale.

I destinatari e gli interlocutori di un tale disegno sono

molteplici; e non solo nelle intenzioni giudicate talvolta 'utopiche' e 'illuministiche' dei proponenti, ma per il senso stesso della storia di questi anni in cui da più settori della sinistra le promesse e le speranze hanno troppo spesso lasciato il posto alle disillusioni per mancanza di volontà nella individuazione degli avversari di classe e della propulsione di movimenti conseguenti.

Una alternativa al regime democristiano nel nostro paese non può che passare attraverso l'impegno e la partecipazione diretta del Partito comunista. Altre strade a breve e media scadenza non sono prevedibili né ipotizzabili: non quelle che nell'arco delle forze tradizionali prescindano da esso né quelle che passano per rotture e crisi sociali di natura rivoluzionaria. La forza del PCI, il suo impianto politico e organizzativo, soprattutto il suo legame sociale con la classe operaia, sono indispensabili a qualsiasi prospettiva alternativa alla DC e al regime che intorno ad essa si è costituito. Questa realtà è innegabile: che il movimento comunista organizzato in Italia possa insieme ad altre forze socialiste svolgere a pieno diritto quella funzione di alternativa nel sistema che altrove nell'Europa centrale e settentrionale è incarnata dalle socialdemocrazie. Ma la politica berlingueriana d'oggi, continuazione e sviluppo della tradizione togliattiana, persegue alacremente il disegno dell'incontro c

on il mondo cattolico organizzato politicamente in quanto tale al fine di una co-partecipazione e divisione del potere (e quindi prima o dopo della stessa maggioranza governativa). Alla alternativa la maggioranza del gruppo dirigente del PCI oppone il dialogo; al confronto e allo scontro, la cogestione. Da questa contraddizione (tra la indispensabilità della forza organizzata comunista per l'alternativa e la non disponibilità del suo gruppo dirigente) deve prender le mosse la costruzione di una strategia di chi persegue come centrale e necessario il rigetto della DC all'opposizione. Con i referendum e il movimento che si intende sviluppare è forse possibile coinvolgere la base comunista (che rappresenta ormai la grande base democratica del paese così poco ideologicamente comunista e neppure troppo legata alle direttive del partito), e al tempo stesso porre la sua classe dirigente di fronte a scelte necessitanti, una volta che il meccanismo delle scelte primarie "sì o no" sui diversi contenuti anti-autoritari

sia stato messo in moto. Nessuno si illude che il PCI sia coinvolto facilmente o si accontenti di rimanere neutrale. La esperienza dei referendum sui reati di opinione (codice Rocco) promosso da Magistratura Democratica nel 1971 (e inglobato nell'attuale pacchetto di referendum abrogativi) stroncato dal PCI nel momento in cui, con oltre 300.000 firme raccolte poteva avere esito positivo, è a questo proposito illuminante. Ma un altro termine di riferimento può far testo nel nostro caso, per tutta l'ambiguità che al PCI deriva dall'amministrazione della sua stessa forza, quello cioè del referendum sul divorzio voluto dagli ultrà clericali che non sappiamo ancora, mentre scriviamo, se si terrà o no. I comunisti hanno fatto (proposta di legge Carrettoni...) e stanno facendo il massimo degli sforzi per non arrivare al confronto con i clericali che vedrebbe con ogni probabilità la parte divorzista e civile del paese vincere su quella antidivorzista. I dirigenti del PCI hanno sostenuto "noi vogliamo ad ogni costo

evitare il referendum, ma se questo dovesse tenersi, getteremmo sulla bilancia tutto il nostro peso". Uno scenario degli eventi futuri si può così ipotizzare su questa base: lotta decisa della dirigenza PCI al nuovo progetto radicale, parziale coinvolgimento di realtà ed elementi alla base del corpo sociale comunista, tentativo di bloccare ad ogni costo il confronto sia per i contenuti proposti che per il metodo dell'appello diretto al paese ed infine, se il movimento progredisce e si dovesse arrivare a mettere in moto il meccanismo della votazione, schieramento dalla parte giusta per la abrogazione delle norme antiautoritarie. D'accordo è solo uno scenario, ma la costruzione di una alternativa per quanto riguarda i comunisti non può certo passare per altra strada che non sia quella della attivazione di lotte, della creazione di movimento che trasformi nella prassi la stessa infrastruttura comunista. Altra strada non esiste, altre possibilità di agire sulla contraddizione di cui parlavamo non sono realistich

e, poiché di fronte alla logica della "sana" amministrazione del potere non v'è dibattito che tenga, non v'è proposta politica che abbia forza e capacità di farsi ascoltare.

Diverso è il discorso sul Partito Socialista e sul movimento socialista, se esiste, che non si identifichi completamente con il partito. Non perché vi sia oggi maggiore disponibilità socialista ad un progetto alternativo o minore coinvolgimento nel regime, che, anzi, come ben sappiamo, la realtà è opposta. Ma in quanto sia il patrimonio ideale e politico sia la stessa debolezza in termini di potere, sia infine una certa vocazione non centralista degli aderenti e votanti del PSI, ne fanno un terreno suscettibile di recepire iniziative e lotte del tipo antiautoritario e 'genuinamente' costituzionale quali quelle dei referendum. La resurrezione (fino a quando?) del centro-sinistra non può certo illudere sulla sua proponibilità come formula storica o sia pure riformistica a breve termine. Questa illusione, crediamo, ormai non può averla più nessuno all'interno stesso del PSI, anche coloro che fino a qualche anno fa erano gli oltranzisti di questa formula di governo. E' troppo evidente che il centro-sin

istra è un tentativo fallito anche per quegli obiettivi che i proponenti socialisti mettevano in prima linea (e non parliamo poi di qualsiasi vera strategia riformatrice, per non dire altro, di tipo socialdemocratico europeo) e che la situazione attuale è una sorta di croce che un PSI avvilito nella palude sonnacchiosa e torbida di De Martino, ha deciso di portare per mancanza di altre proposte, di altre prospettive, per quella inerzia del sotto-sottopotere così intensamente bramato da una classe dirigente cresciuta in dieci anni di quieto vivere (e frustrazioni) governativo. Questa storia e cronaca di impotenze lascia margine all'accoglimento dei referendum sia tra quadri, dirigenti ed esponenti del partito, sia soprattutto alla sua base. Pensiamo a quei deputati che si sono di tanto in tanto fatti promotori di proposte di leggi di moderato rinnovamento civile, alla creazione, non senza contrasti, di un ufficio diritti civili diretto dall'on. Balzamo, alle aperture che nella FGSI e in alcune realtà locali v

engono effettuate nei confronti di iniziative, lotte o prese di posizioni che partono dagli extra-parlamentari, al raggruppamento laico e libertario che Fortuna sta tentando di costituire, non sappiamo con quanto successo, contro la logica delle correnti, ad alcuni spunti che emergono dalle posizioni di Riccardo Lombardi nonostante la sua corrente, alle volontà di opporsi allo strapotere DC di Mancini, pur con metodi troppo simili a quelli che vuol combattere. Ma prima e al di là di ciò, sappiamo che la disgregazione clientelare e notabiliare del PSI ha lasciato un tessuto di socialisti disponibili a movimenti di rinnovamento nel paese che non trovano possibilità di espressione politica all'interno del PSI. Pur nella limitatezza di energie militanti e nella scarsa capacità di mobilitazione, il tessuto sociale del movimento socialista è un interlocutore non solo necessario ma certamente disponibile alla creazione di un movimento nel paese contro il regime, con tutta la contraddizione che nasce dall'appartener

e ad un partito che non solo del regime ma dello stesso governo fa parte. Se mai sarà possibile edificarla, l'alternativa potrà partire dalla ripresa di lotte nel paese e dalla conversione del PSI ad una tale strategia come primo momento di un processo di trasformazione all'interno del sistema partitico che attraverso i socialisti costringa i comunisti ad adeguarsi ad una strategia alla francese di cui si cominciano a vedere gli effetti positivi e, speriamo, ad avere ripercussioni.

Tra gli extraparlamentari si sono verificate fino ad oggi le maggiori adesioni ai referendum. Lotta Continua con deciso impegno, il Manifesto con distacco, Avanguardia Operaia e il Partito comunista (m-l) italiano, accentuando ognuno le caratteristiche proprie del gruppo. Quasi tutti con diffidenza verso la parte laica del progetto (Concordato, sovvenzione scuole e assistenza clericale) rinnovando una tradizionale visione arcaica della lotta a questo regime di cui viene sottovalutata la principale componente agglutinante e il significato liberatorio delle battaglie laiche (vale la pena di ricordare a proposito quel che Francesco Ciafaloni, con la consueta lucidità di analisi da 'nuova sinistra' scrive su "Quaderni Piacentini" n.50 a proposito del PCI, ma trasferibile pari pari ai neo-comunisti: "Ed è indecente che sul divorzio e l'aborto, cose che non modificano certo i rapporti di produzione per sé, ma che sono temi importanti, politici, perché ne dipende lo svilupparsi di una rottura esplicita co

n la peggiore tradizione pretesca, compaiono sull'"Unità" e su "Rinascita" articoli che, con qualche differenza, sostengono che i tempi non sono maturi, che la coscienza popolare non tollererebbe, che la chiesa non permetterebbe..."). Le vicende degli extraparlamentari dal '68 ad oggi sono marcate da una interminabile serie di divisioni, di faide spesso condotte nei confronti del gruppo più vicino e assai raramente dalla partecipazione a momenti di lotta unificati. L'adesione dei principali gruppi, se non si esaurirà in un dato formale e vi sono tutte le premesse che così non sia, indica che è possibile, oggi in Italia, in mezzo al progressivo sbandamento delle nuove forze militanti, trovare dei momenti unitari intorno a progetti precisi, a lotte puntuali. Il dramma che vive in questi anni chi crede ancora in una prospettiva socialista è il constatare l'ascesa di nuove forme di impegno politico a sinistra che smentiscono, se pure ce n'era bisogno, i sostenitori della depoliticizzazione delle società industri

ali avanzate e la 'fine delle ideologie' e, d'altra parte, l'immutabilità del sistema partitico con l'emarginazione o l'assorbimento e svuotamento delle nuove lotte entro i vecchi immutabili schemi di potere. L'area extraparlamentare in Italia, sia pure con molte varianti, riproduce questa traiettoria costante di erompere del nuovo e di difficoltà di una sua organizzazione ed espressione diretta in sostituzione (partito, movimento, forme durature di lotta sociale o istituzionale) del vecchio quadro che finisce per prevalere. La cronaca della nuova sinistra è fatta di frantumazioni basate spesso sullo scontro ideologico e raramente di amalgama in una nuova ricerca (teorica e) politica con sbocchi non soltanto millenaristici. Forse il tipo di piattaforma offerta dal progetto dei referendum -- il tipo in quanto non è certo esauriente delle lotte da condurre -- ed il metodo di non preclusione ideologico e politico ma di verifica sugli obiettivi dello schieramento, sono la via giusta per le stesse forze extraparl

amentari di sottrarsi al destino di isolamento e di disgregazione. Sta di fatto che ad oggi si è potuto guadagnare su questa iniziativa un consenso operativo che non si era mai verificato dianzi a partire dal quale non è avventato prevedere che si sviluppino nuovi modi oltre che nuovi contenuti unificanti.

Un altro settore a cui è rivolta la proposta referendum è quello che abbiamo chiamato degli 'autentici 'liberali o dei dissenzienti dalla inerzia e corresponsabilità di regime in cui sono coinvolti i partiti cosiddetti democratici. Questo settore 'liberale' fa ormai le spese del lungo attaccamento alle regole formali della democrazia occidentale con la continua percezione del tradimento dei suoi stessi valori di fondo. Chi credeva nella Costituzione, la vede ogni giorno disattesa nella forma e nella sostanza; chi rispetta le libertà di stampa, di opinione, di espressione, si accorge del vicolo cieco in cui si è messo questo paese, pur non avendo i colonnelli; chi ha creduto in semplici riforme 'civili' ne constata la durezza con cui sono ostacolate; chi ha considerato sempre le espressioni militanti (e talvolta violente) come una autoesclusione dal gioco democratico, ne deve ammettere la necessità, anzi deve sperare che attraverso di esse qualcosa cambi; chi considerava possibile intervenire nell'a

rena politica attraverso i movimenti di opinione, i dibattiti, la pubblicistica, si accorge di come siano spuntate queste armi di fronte alla brutalità del potere. Da "Il Mondo" degli anni cinquanta in qua passando per il vecchio Partito Radicale estintosi nel 1962, la storia dell'opinione 'liberale ' democratica e progressista (divenuta poi quasi tutta filo-socialista) è storia di impotenze e di sconfitte. Diversamente dal mondo anglosassone e dalla stessa intellettualità impegnata francese, i progressisti italiani non hanno se non raramente cercato di parlare in proprio dandosi 'gambe' e 'braccia'. Non ci riferiamo alla costituzione di nuovi partiti o raggruppamenti, che sappiamo quanto velleitarie siano questo genere di iniziative, ma alla volontà e capacità di promuovere movimenti di opinione organizzati, in grado di calarsi con efficacia nelle lotte del momento (basteranno alcuni esempi: la campagna per il disarmo nucleare in Inghilterra alla fine degli anni '50; i club repubblicani nella opposizione e

xtraparlamentare in Germania particolarmente attivi nella campagna contro le leggi di emergenza; il ruolo antigollista e contro la guerra d'Algeria dei 'comitati ' in Francia; il movimento anti-Nixon in seguito a Watergate capeggiato dalla grande stampa...). Oggi i segni dell'inadeguatezza e futilità del semplice dissenso per influire sul corso delle cose si avvertono anche da noi mentre è ormai del tutto logorato, se mai ci fosse stato bisogno di una conferma, il ruolo degli 'indipendenti' di sinistra o para-sinistra, compagni di strada di operazioni politiche e di potere decise altrove.

Le contraddizioni emerse con prepotenza in questo ultimo anno ne "Il Messaggero" e nel "Corriere della sera", il ruolo di denuncia dello strapotere del regime clericale insieme con l'informazione sui diritti civili svolto da "Panorama", ne sono un significativo indizio. Giornalisti che sul piano delle definizioni statiche non possono che essere definiti moderati e giornali appartenenti alla struttura borghese classica si trovano ad avere obiettivamente una funzione di "sinistra" che, almeno in certi settori, si affianca alla stampa extraparlamentare e scavalca quella comunista. Ci domandiamo e domandiamo se i referendum proposti non siano proprio uno degli strumenti per integrare in un unico movimento (ristretto a temi specifici ma con obiettive capacità di avere effetto dirompente su tutto il sistema di regime) singoli, forze e gruppi così dispersi e non di rado contraddittori. Una possibilità di uscire dalla palude che ci circonda è proprio quello di mettere insieme e far reagire, nella speranza di un

potenziamento reciproco, elementi conflittuali che partono magari da matrici ideologiche e sociali diverse, quando non opposte, individuando gli obbiettivi da perseguire. In linea generale crediamo che fermenti di libertà e di liberazione verso quel socialismo tutto da scoprire nascono da tradizioni liberali come marxiste, cristiane come democratiche e che, volendo al contrario fare degli integralismi ideologici, si finisce per dare forza e perpetuare il vero integralismo che ci sta di fronte, quello del potere nella sua versione italiana attuale, clericale e corporativo, classista e autoritario. Il 'dissenso liberale' espresso dalle scontentezze e dalla rabbia di chi vede tradite le proprie speranze non di una società nuova ma dell'improbabile rinnovamento di quella vecchia può essere organizzato con un lavoro di integrazione di monadi disperse e isolate in un movimento come quello dei referendum.

Gli obiettivi della proposta radicale possono nella attuale situazione politica italiana essere molteplici. In primo luogo l'abrogazione di leggi chiaramente autoritarie sia che provengano dal ventennio fascista (in testa il Concordato e il codice Rocco) sia che rappresentino lo sviluppo e il completamento di esso nel venticinquennio clericale (sovvenzioni a scuole e assistenza, negazione della libertà di stampa con le leggi corporative dell'ordine dei giornalisti...). Non occorre qui ricordare la possibilità e la semplicità di abrogare leggi che ogni giorno hanno una funzione repressiva nei confronti di non pochi cittadini (il codice militare...). Con l'appello diretto sarà possibile portare a compimento (non necessariamente in senso progressista ma può anche darsi con una conferma del paese di una legislazione autoritaria) ciò che per decenni il parlamento e tutti i partiti in esso non hanno voluto o saputo affrontare. Si capisce come dopo aver disatteso l'attuazione per venti anni dell'istituto

del referendum, la classe politica eviti oggi di farlo usare in quanto potrebbe risultare con evidenza il contrasto tra un parlamento inconcludente e una volontà popolare decisa su temi importanti per la vita della società e delle istituzioni. Ma oltre a ciò, altro implica l'iniziativa dei referendum: in gioco sono gli schieramenti, il rapporto tra sinistra tradizionale e il movimento del paese.

Si sostiene non possibile altro schieramento che quello che tenga conto della DC (il PCI la chiama eufemisticamente e mistificatoriamente 'mondo cattolico') e della possibilità di spostarla e condizionarla da sinistra, data la sua natura anche di 'partito popolare'. I referendum antiautoritari, anzi qualsiasi referendum in questo paese di 'bipartitismo imperfetto', impongono necessariamente la semplificazione degli schieramenti verificando su temi e nodi precisi chi è dalla parte della conservazione (politica, culturale, ideale) e chi dalla parte del rinnovamento. Attraverso questo meccanismo, che potrebbe sembrare soltanto un espediente formale-istituzionale ma per il ricorso diretto alla volontà popolare e per il movimento che dovrebbe sottendere acquista ben altro significato e portata, non solo si spingerebbe la sinistra in tutte le sue componenti a passare all'offensiva ma si costringerebbe proprio il 'mondo cattolico' (usiamo ora questa espressione in tutta la sua ambiguità e polivalenza di eccezi

oni) a confrontarsi con scelte di contenuto qualificanti. Si dice, i comunisti e qualche socialista dicono, che ci sono frange della DC a sinistra, che v'è una base popolare, che una parte del partito clericale è nato nell'antifascismo e nella resistenza. Ebbene, dando per buono quello che è un fondamentale errore di valutazione che scambia dati sociologici con espressioni politiche e conati populistici con la presa di coscienza di possibili agenti della trasformazione sociale, i referendum metterebbero alla prova quei democristiani di cui sopra fuori da scelte totalizzanti. Le contraddizioni esistenti nella DC possono essere sfruttate solo con il rifiuto di accordi con la organizzazione che rivendica pretestuosamente l'unica politica dei cattolici e con la proposizione di strategie semplificanti come quella imposta dai referendum. In una tale prospettiva non sarebbero estranei alla integrazione a pieno titolo nella sinistra quelle aree del dissenso cristiano che già per loro conto vanno conducendo una batta

glia densa anche di valenze particolari, contro la Democrazia Cristiana e le altre organizzazioni che nella chiesa e nel tessuto sociale tendono a fare tutte corpo intorno ad una strategia di potere mondano dei clericali.

L'aspetto tuttavia primario che investe un nodo del dibattito tra vecchie e nuove sinistre di questi anni è dato dalle conseguenze nel paese che la iniziativa dei referendum comporta. Prima ancora delle vocazioni subordinate o delle scelte puramente gestionali della sinistra, anzi sicuramente in stretta interdipendenza con esse, ciò che caratterizza i movimenti comunista e socialista organizzati è appunto l'assenza di movimento. Dietro la sinistra istituzionale non c'è quel retroterra di mobilitazione che è la condizione necessaria di rapporti di forza nel paese e nelle istituzioni e premessa di qualsiasi lotta tendente a radicali mutamenti dei rapporti di produzione non meno che dell'assetto di istituzioni che determinano la qualità della vita sociale e il loro grado di democraticità. Sappiamo come la sinistra italiana è staticamente la più forte dei paesi occidentali, che in essa il Partito Comunista ha quel peso che in teoria dovrebbe fare di questo paese il più a sinistra e il più tendenzialmente so

cialista dell'occidente. Invece ad oggi il bilancio è opposto: lotte sociali e tensioni di segno socialista passano al di fuori delle grandi famiglie istituzionali della sinistra e, quando si esprimono, lo fanno nel migliore dei casi loro malgrado e nel peggiore contro di loro. Così per i partiti, così per i sindacati, così per la presenza di 'amministratori' di sinistra in istituzioni e aree sociali in cui la forza complessiva del PCI e del PSI è usata piuttosto per 'normalizzare' che per elevare il potenziale di conflittualità e migliorare il rapporto di forze nello scontro con gli avversari di classe. Ciò a cui inevitabilmente porteranno i referendum e il lungo lavoro di preparazione che dovrà svilupparsi nel corso di due anni prima di arrivare alla prova elettorale, è una non comune mobilitazione indirizzata contro il potere democristiano ed il regime di cui le leggi sottoposte a referendum non sono altro che alcune esemplari manifestazioni. Se il progetto andrà avanti con la partecipazione attiva di par

lamentari ed extraparlamentari, di 'liberali' e di 'rivoluzionari', di gruppi impegnati in lavoro di base lotte sociali e di settori di partiti laici e di sinistra, se tutto questo avverrà, non potrà che realizzarsi con un dibattito e una partecipazione che attraversi il paese nella sua interezza e scuota le classi dirigenti dai loro letarghi o dai loro equilibri. La campagna che sta per essere messa in moto presuppone di per se stessa un processo mobilitante quale che sia il suo esito prima nella raccolta delle firme e poi, se il primo tempo sarà positivo, nella votazione popolare. Infatti, essa si potrà realizzare solo con l'invenzione di strutture organizzative al di fuori di quelle esistenti e con un dibattito concreto che non avrà sedi esclusive e preclusive e si attuerà per la sua stessa natura e per volontà dei proponenti in forme aperte e, in partenza, informali.

Nella storia di questi decenni in Italia non ci sono stati movimenti di popolo (di classe o di opinione) nati a sinistra oltre il sistema partitico e capaci di interpretare esigenze particolari di un determinato momento. E' stata piuttosto la destra che ha saputo di tanto in tanto adeguare le proprie strutture di mobilitazione con una elasticità, una tempestività ed una articolazione capaci di avere efficacia e sbocchi vincenti. Oggi l'incertezza del momento non è data soltanto dalle condizioni obbiettive del paese, ma soprattutto dalla mancanza di prospettive a sinistra, diverse da quelle avvilenti di una sopravvivenza affidata alla gestione di una forza quale che ne sia la qualità e il contenuto. Chi rifiuta ipotesi cosiddette leniniste (quante giustificazioni in nome dei mostri sacri !) di avanguardie rivoluzionarie e chi non accetta il gioco inquinato che il sistema dei partiti offre, può solo contare su quei processi che minoranze democratiche dinamiche possono, salveminianamente, mettere in moto c

on l'ambizione e il possibile obiettivo di costruire movimenti di massa capaci di far fare dei passi avanti nel paese e nelle istituzioni sulla via del rinnovamento democratico e magari tendenzialmente socialista.

 
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