SOMMARIO: Il segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer afferma, alla luce dell'esperienza cilena, che un paese non può essere governato neppure con una maggioranza del 51 %. E' quindi necessario l'incontro fra la masse socialiste e comuniste con quelle cattoliche. E' la giustificazione teorica e internazionale al "compromesso storico" e al governo di "unità nazionale" che il Pci propone per l'Italia. Viene così liquidata la prospettiva di una alternativa di sinistra che miri, come per esempio in Francia con Mitterrand, alla alternativa di governo. Commentando i risultati di una riunione della Direzione comunista, nella nota del quotidiano radicale "Liberazione" si afferma che non si è discusso solo sul Medio Oriente ma sono emersi malumori e forse dissensi. Ma nessuno, nemmeno al di fuori del PCI, propone una sentenza diversa da quella che Berlinguer, in polemica con l'esperienza cilena, e con la linea che sta assicurando sempre maggiori successi in Francia, ha riproposto con una serie di
articoli su "Rinascita": nessun programma, nessuna lotta che non sia per la cooptazione al governo. E' la più grave resa che spontaneamente un movimento democratico abbia compiuto.
("Liberazione", quotidiano radicale, del 13 ottobre 1973)
Berlinguer rilancia dunque il "grande compromesso storico" tra "Le forze comuniste, socialiste e cattoliche" più quelle forze marginali che, sul piano politico, non meritano in genere nemmeno una menzione diretta dal segretario politico del PCI.
Il suo "saggio" a tre puntate su "Rinascita" sta destando oltre che attenzione, com'è giusto, anche scalpore. Il giornale della Fiat, oggi, si mobilita per illustrare con rilievo le obiettive "convergenze parallele" che possono esser tratte fra il lavoro di Fanfani, tutto teso a fare della DC un partito duro ed efficiente, e la richiesta di associazione al governo che il PCI avanza oggi formalmente.
Per la verità, Berlinguer non fa che riassumere quanto chiunque ha potuto constatare anche solo seguendo superficialmente la politica comunista in questi ultimi anni. Che oggi imprima qualche colpo d'acceleratore è comprensibile. Ma perfino nella ultima riunione della direzione del PCI, convocata esclusivamente sul Medio Oriente, liquidato con facilità e quasi fretta questo tema, s'è acceso un dibattito sulla politica generale del partito, sugli articoli di Berlinguer. Pajetta è sbottato: "Diciamo diversa opposizione. Ma per i militanti, poi, con la politica che conduciamo, cade la possibilità di opposizione e resta in piedi solo la parola: "diversa".
Lo scontro, perché di scontro si è trattato, è stato breve, ma duro. Scontro di battute, che però ha permesso già di constatare un altro passaggio alle posizioni berlingueriane: quello di Reichlin, che lascia l'opposizione virtuale composta dagli esponenti meridionali del partito, Ingrao e qualche esponente sindacale come Trentin non allineati sulla politica di Lama, oltre che quella, più diretta, del partito.
Ma non sembra davvero che la contestazione della linea e delle ormai precise richieste del segretario del PCI possano per il momento dover fare i conti con una qualsiasi opposizione alternativa. Questa non si trova, per ora, nemmeno fuori del PCI, se si eccettuano quelle dei gruppi extraparlamentari, sempre più dediti, in questo periodo, alla politica internazionale. Nel PSI, dove in passato Lombardi aveva sempre tenuto presente la necessità della "concorrenzialità" fra PSI e PCI per la gestione di una proposta democratica di classe, alternativa alle linee interclassiste, filocorporative e neoconcordatarie, ormai prevalgono sfiducia e timori. La "nuova opposizione" di Mancini non può essere giudicata sul piano strategico, non presenta indicazioni chiare, non autorizza a pensare che il vuoto politico e parlamentare di iniziativa autenticamente democratica (e quindi volta ad assicurare una dialettica quanto meno bipolare, se non bipartitica alla lotta politica) e socialista (e quindi di costruzione di un nuovo
assetto e di una nuova stabilità anche economica attraverso riforme dello stato e della produzione) possa tornare ad essere occupato da forze tradizionali e parlamentari significative.
L'attacco di Berlinguer contro una prospettiva di schieramento di sinistra che miri alla conquista del 51% dei voti nel momento elettorale è attenuato da un inciso: questa conquista sarebbe comunque e innegabilmente un fatto positivo, anche se non si dovrebbe poi pensare ad una prospettiva di governo fondata su questo schieramento e su questa vittoria. E' un po' come la sua portavoce Zanchi, quando, in tema di aborto, riconosce che praticarlo in clinica, sotto controllo medico, con l'assistenza della scienza, sarebbe certo un progresso; ma tale progresso essendo in realtà non ancora soddisfacente, la Zanchi ci rinuncia per optare a favore dell'attuale aborto clandestino di massa. Nel saggio di Berlinguer è anche evidente un attacco all'esperienza cilena, e a quella francese.
Se è già un grave errore pensare di governare con il 51% dei voti in una società politica come la nostra, dove il capitalismo più o meno maturo ha qualche interesse a mantenere in piedi una qualche legittimazione costituzionale, democratica, civile corrispondente al grado di maturità della gente, è evidente che per Berlinguer l'aver tentato di governare, in una società come quella cilena, con un 36% di voti è stato poco meno di una imbecillità criminale.
E non basta: non solo Allende, ma Corvalan sostanzialmente è sotto accusa anche lui: perché solo negli ultimi tempi il partito comunista cileno aveva cominciato a premere energicamente perché si scegliesse a qualsiasi costo una alleanza con la DC di Frei e si rompesse con le forze della sinistra più dura (forse anche una parte degli stessi socialisti) e quella extraparlamentare.
E l'esperienza francese? Lì, Marchais e Mitterrand hanno puntato e puntano tutto sull'alternativa di schieramento e di programma. Per loro è impensabile il dialogo con l'UDR, con l'alibi delle forze popolari che pure numerose (il 29% degli operai, il 38% dei contadini) votano per i gollisti. Puntano sul fattore moltiplicatore che una seria vittoria, che uno schieramento chiaro, non può non provocare proprio fra le classi popolari ed i nuovi ceti che sempre più caratterizzano quel "ceto medio" di una società capitalistica moderna cui allude Berlinguer. Comunque è su concrete proposte programmatiche che l'alternativa socialista e democratica in Francia cerca di affermarsi.
Su questo piano di chiarezza, di ricerca, di studio, di scelta concreta ufficiale degli interessi che si intendono salvaguardare, egemonizzare o colpire è anche possibile condurre in porto nuove politiche di alleanze, anche se costose, se si rivelasse necessario.
Quel che è grave, invece, nella linea di Berlinguer, grave fino al rischio di suicidio di ogni vera proposta o speranza di alternativa e di sinistra in Italia è il suo discorso di puro schieramento populista, senza ancoramenti civili, senza scelte, con da una parte una sorta di pujadismo attivistico per i gonzi, dall'altro un allineamento alla visione corporativa dello stato, una rinuncia alle più caratteristiche rivendicazioni di classe e socialiste: libertà civili, laicità della società, lotte di liberazione delle minoranze o delle maggioranze oppresse, classismo democratico, il massimo di potere alle masse, alle loro organizzazioni. Il suo disarmo ideale, prima ancora che ideologico, se la lotta politica è innanzitutto battaglia per creare nuovi dati oggettivi e strutturali di confronto civile; l'assenza di qualsiasi proposta programmatica articolata e responsabile sulla quale convogliare poi questo o quello schieramento fanno della politica (e del saggio) di Berlinguer la più penosa e pericolosa delle re
se che il movimento democratico abbia mai compiuto spontaneamente in Italia.
Occorre reagire: se si è ancora in tempo è già difficile dirlo.