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Partito radicale - 20 maggio 1974
8 referendum: lettera alle organizzazioni aderenti all'iniziativa
Partito Radicale

SOMMARIO: La sollecitazione ai movimenti di "nuova sinistra" perché mantengano gli impegni nei confronti della proposta di otto referendum promossi dal Partito radicale. Il disimpegno di questi movimenti - si afferma nella lettera - rappresenta un grave errore politico perché la vittoria del 13 maggio 1974 nel referendum sul divorzio ha dimostrato che i diritti civili in italia rappresentano »elementi esplosivi di contraddizione per questo regime e per i suoi equilibri politici e che su questo tipo di lotte la sinistra può »sottrarre all'avversario il consenso di settori importanti dei ceti medi e di quel sottoproletariato che è tradizionalmente un serbatoio delle clientele democristiane o facile preda della demagogia fascista . Ma contro questa vittoria si stanno muovendo le forze di regime che contano di recuperare lo scacco subito con il voto referendario utilizzando nuovi episodi della strategia della tensione e offrendo al Pci nuovi terreni di compromesso politico. »Le forze alternative, se non riescon

o a intervenire subito con adeguate iniziative di massa, rischiano di essere emarginate e tagliate fuori da ogni possibilità di intervento politico; rischiano di farsi richiudere nei piccoli e illusori spazi di libertà che il regime e le istituzioni lasceranno loro .

(PARTITO RADICALE, 13 maggio 1974)

A Lotta Continua

Il Manifesto

P.D.U.P.

Avanguardia Operaia

Movimento Studentesco

e p.c.

Stella Rossa

U.I.L.

F.G.R.

Sinistra Repubblicana

Sinistra Liberale

F.G.E.I.

Federazione Chiese Evangeliche

Cari compagni,

all'indomani della vittoria del 13 maggio vi abbiamo richiesto una scelta chiara e decisioni definitive circa il vostro impegno sugli otto referendum abrogativi promossi, con la vostra adesione, dal Partito Radicale.

Nel luglio scorso subordinammo questa iniziativa politica al vostro impegno. E il vostro impegno, confermato in numerose occasioni, e purtroppo venuto meno proprio nel momento in cui era più necessario: quando cioè doveva cominciarsi la raccolta delle firme. Nel marzo scorso ci avete spiegato che la campagna degli extraparlamentari sul referendum per il divorzio diventava prioritaria rispetto ad ogni altra iniziativa politica. Non ci illudemmo, già allora, che il vostro ritiro potesse non costituire una grave ipoteca al progetto politico degli otto referendum. Tuttavia eravamo ad un punto in cui non potevamo tirarci indietro, per tre buoni motivi:

1) perché non raccogliere le firme nel 1974 significava spostare la possibilità di indire i referendum non di un anno ma di quattro (dal 1973 al 1979);

2) perché non condividevamo il vostro giudizio che l'iniziativa degli otto referendum avrebbe potuto rappresentare un elemento di divisione o peggio di confusione e di equivoco rispetto alla campagna per il divorzio;

3) perché ritenevamo fosse un grave errore circoscrivere il ruolo delle forze politiche di avanguardia a quello sostanzialmente paternalistico di mera propaganda di un tema su cui, da almeno dieci anni ritenevamo il paese e l'elettorato pienamente consapevoli e maturi.

Poichè tuttavia da parte vostra verbalmente o ufficialmente si è detto che il problema sarebbe stato esaminato dopo il 13 maggio, siamo tornati a proporvelo per ottenere una risposta definitiva.

I tempi ormai stringono. Abbiamo davanti soltanto un mese, quello di giugno. Per arrivare all'obiettivo delle cinquecentomila firme occorre superare due difficoltà:

a) rimuovere con l'iniziativa politica le strozzature istituzionali che limitano l'agibilità politica del referendum da parte delle minoranze (e la strozzatura è rappresentata soprattutto dalla impossibilità pratica di trovare un numero sufficiente di autenticatori);

b) energie militanti in numero sufficiente per arrivare ogni giorno almeno 120 punti di raccolta;

c) una campagna politica di mobilitazione nel paese.

Noi sappiamo ormai che, da soli, per insufficienza di militanti, per mancanza di strumenti di informazione e di comunicazione, per mancanza di concreta solidarietà oltre che di concreto impegno da parte vostra, probabilmente non ce la faremo. E non ce la faremo, nonostante l'ottimo lavoro che si è fatto, l'ampio arco di consensi e l'adesione di settori importanti del sindacato, la risonanza che l'iniziativa ha avuto presso l'opinione pubblica, l'adesione popolare che si è registrata anche in termini di firme dovunque si sono potuti organizzare punti di raccolta e dovunque siamo potuti arrivare con la nostra limitata organizzazione.

Anzi, nel caso che le vostre organizzazioni, e le altre aderenti all'iniziativa degli otto referendum garantiscano anche su questo tema un rinnovato impegno, il nostro Comitato centrale ha deciso di iniziare a raccogliere le firme anche su una nona proposta di referendum, sulla legge sul finanziamento pubblico dei partiti parlamentari, per cui nei prossimi giorni presenteremo alla Cassazione la relativa proposizione ufficiale. Riteniamo infatti non solo necessario aprire nel paese uno scontro contro quella che è stata definita la prima delle leggi speciali di questo regime, equivalente alla serrata del Gran Consiglio del Fascismo, ma anche che sarebbe un errore lasciar egemonizzare dalla destra qualunquista lo sdegno popolare che questa legge ha suscitato.

Riteniamo grave la responsabilità che vi siete assunta nel marzo scorso di lasciarci soli in questo compito, nonostante i precedenti impegni e le precedenti adesioni che avevate dato al progetto radicale. Riteniamo ancora più grave un vostro disimpegno oggi.

Ovviamente non andiamo alla ricerca di colpe o responsabilità, nè cerchiamo per noi facili alibi alle nostre inadeguatezze che tuttavia non abbiamo mai ignorato e non vi abbiamo mai nascosto (ed è per questo che avevamo subordinato il progetto alla vostra partecipazione). Quello che ci interessa è chiarire perché riteniamo il vostro disimpegno un grave errore politico.

La vittoria del 13 maggio ha dimostrato almeno quattro cose:

1) che i diritti civili in un paese come l'Italia non costituiscono un elemento sovrastrutturale e quindi necessariamente secondario della lotta politica e della stessa lotta di classe, ma al contrario rappresentano elementi esplosivi di contraddizione per questo regime e per i suoi equilibri politici;

2) che questo tipo di lotte è un terreno fertile di egemonia per la sinistra e la classe operaia, sul quale si possono sottrarre all' avversario il consenso di settori importanti dei ceti medi e di quel sottoproletariato che è tradizionalmente un serbatoio delle clientele democristiane o facile preda della demagogia fascista;

3) che il tipo di problemi umani e civili che queste lotte tendono a risolvere interessano direttamente e in primo luogo le classi oppresse e sfruttate e costituiscono quindi un aspetto necessario e non superabile della politica democratica di classe (la borghesia ha sempre avuto il suo divorzio di classe, ha il suo aborto di classe, ha la sua difesa giudiziaria di classe, le provvidenziali infermiere in carcere, ecc. ecc.);

4) che le battaglie per i diritti civili, ed esse sole. sono in grado di dare uno sbocco politico, anche a livello istituzionale, al potenziale di energia e di lotta che il movimento democratico di classe esprime nei luoghi dello scontro sociale; ed è chiaro, a questo proposito, che dopo il 13 maggio, lo strumento del referendum non potrà mai più essere utilizzato dalla destra, e che esso diventa invece uno strumento pienamente utilizzabile per le forze alternative della sinistra.

Queste cose le diciamo da dieci anni. Da qualche tempo mostrate anche voi in qualche misura di condividerle. Ma basta davvero inserirle nel tassello giusto in una "corretta analisi di classe"? La verifica che la vittoria del 13 maggio ci ha consentito di farne è stata resa possibile da un calcolo sbagliato di Fanfani, della D.C. e della Chiesa. Nessuna "corretta analisi", nessuna polemica e nessun confronto di tipo dialogico con la sinistra istituzionale sarebbero serviti a niente senza questo errore dei nostri avversari. La sinistra istituzionale ha ricevuto in regalo la vittoria del 13 maggio, suo malgrado. Se fosse dipeso dal PCI e dal PSI il referendum non si sarebbe mai fatto. Noi non sottovalutiamo l'importanza che ha avuto la nostra e vostra campagna politica, perché si andasse al referendum, le resistenze che siamo riusciti a creare contro la prospettiva di un compromesso non soltanto nell'opinione pubblica e nelle masse, ma anche nello schieramento parlamentare, almeno in alcuni momenti decisiv

i. Ma sta di fatto che fino all'ultimo momento è contro la strategia della sinistra istituzionale che ci siamo dovuti battere.

Ed ora? Ora riteniamo che la vittoria, pure importantissima del 13 maggio, abbia messo in crisi quella strategia? Ora pensiamo che errori di calcolo così gravi possono essere ripetuti dai nostri avversari e valgano da soli a correggere gli errori dei nostri compagni dei vertici della sinistra istituzionale?

La risposta ci viene dall'attualità politica. Le cose non si muovono - siete voi stesso a dirlo e a denunciarlo nei vostri giornali - nella direzione indicata dal voto del 13 maggio.

Certo quel voto ha un'importanza storica: ha affermato valori alternativi rispetto a una cultura e a una morale tradizionale; ha rilevato trasformazioni di fondo, ideali e sociali, prima che elettorali, che le normali consultazioni politiche ed amministrative nascondevano alla coscienza delle masse. Certo, esso potrà esercitare per qualche tempo una funzione di remora nei confronti della protervia del potere democristiano, come nei confronti dell'ansia di compromesso della sinistra istituzionale. Ma esso non può rallentare i processi istituzionali che sono in corso da mesi, che erano stati messi in moto prima e durante il referendum. Anche qui le nostre analisi tendono ormai a convergere. Esprimiamo sempre di più anche se da differenti prospettive e posizioni politiche (e ideologiche) giudizi analoghi. E' inutile quindi che ci ripetiamo cosa significa l'accordo Agnelli-Cefis, cosa significa l'operazione Messaggero, cosa il funzionamento dei partiti, cosa la amnistia che questo stato di speculatori si ap

presta a concedere a se stesso, cosa la pseudo-riforma della Rai-Tv, ecc. La divergenza, cari compagni, è sempre meno sulle analisi e sui giudizi, e sempre di più, e sempre più grave, sul cosa fare.

Nel 1970, subito dopo l'approvazione della legge sul divorzio da parte del Parlamento, Berlinguer si affrettò a garantire alla DC e alla Chiesa che non avrebbe tollerato altre sorprese da parte di forze extraistituzionali e offrì come terreno di compromesso la revisione del concordato e la riforma del diritto di famiglia. Oggi, con maggiore cautela, il gioco si ripete. Non è Berlinguer ma addirittura De Martino, cioè il segretario del partito a cui appartengono i cinquanta firmatari della legge sull'aborto, a dire su Panorama, pochi giorni dopo il 13 maggio, che sull'aborto non si farà niente. E da ogni parte, sulla testa dei milioni di cattolici del "no", si torna a parlare di revisione, cioè di conferma e di aggiornamento, del concordato fra Stato e Chiesa. Sui problemi sella giustizia, degli altri diritti civili, sui problemi di polizia e di ordine pubblico, ancora una volta la D.C. potrà superare lo svantaggio del 13 maggio, montando e utilizzando i nuovi episodi della strategia della tensione.

L'insieme di questi problemi è e rimane il vero punto critico del compromesso con la D.C. Il vero prezzo politico di questo compromesso e di qualsiasi cogestione subalterna del potere a livello governativo, parlamentare, delle strutture economiche e sociali si paga in termini di concordato, e di libertà politiche e civili. Ed ogni calcolo di questo tipo oltre che errato è un calcolo cinico che gioca sulla pelle della gente, sul milione di donne che ogni anno si sottopongono all'aborto clandestino e di classe, sulle centinaia di migliaia di persone che rimangono anni in attesa di giudizio, spesso privati di qualsiasi diritto alla difesa, sui milioni di cattolici che si vuole rigettare in condizioni di subordinazione rispetto alla gerarchia.

Non possiamo continuare come forze alternative, se davvero abbiamo la pretesa di essere tali, a far conto soltanto sulle lotte e sui processi sociali. Non possiamo far conto soltanto sulle caratteristiche della crisi economica del capitalismo. E soprattutto non possiamo limitarci a costruire i nostri movimenti o partiti, nè limitarci a costruire un fronte ideologico o a darci soltanto strumenti di pressione esterna sulla lotta delle masse.

Noi riteniamo che la gravità del momento, di fronte ai processi in corso, debba essere riconosciuta alla politica. Dobbiamo costruire un fronte politico che ci consenta di confrontarci direttamente con le istituzioni, di confrontarci con le diverse strategie della sinistra istituzionale, di utilizzare i pochi strumenti che sono ancora agibili per le minoranze, di diventare protagonisti diretti della lotta contro questo regime.

Noi abbiamo ritenuto di trovare nello strumento dei referendum abrogativi il mezzo idoneo che consentisse amplia confluenza di forze democratiche e socialiste, riformatrici e rivoluzionarie, unite nella opposizione al regime.

Riteniamo che il tempo lavori contro le minoranze. Le forze alternative, se non riescono a intervenire subito con adeguate iniziative di massa, rischiano di essere emarginate e tagliate fuori da ogni possibilità di intervento politico; rischiano di farsi richiudere nei piccoli e illusori spazi di libertà che il regime e le istituzioni lasceranno loro al di fuori dei rigidi equilibri corporativi. E saranno probabilmente spazi sempre più limitati e sempre più illusori, come dimostrano ad esempio i crescenti e insopportabili costi della stampa alternativa.

Non potete limitarvi a dire no al progetto degli otto referendum, promossi dal Partito Radicale. Avente il dovere, se direte di no, di indicare un'altra iniziativa politica che sia di altrettanto respiro e altrettanto efficace. Altrimenti le denunce puramente agitatorie contro le discriminazioni e le sostanziali messe fuori legge che il regime opera nei confronti dei nostri movimenti, la stessa analisi sulla chiusura sempre più netta e irreversibile del regime, rischiano di degenerare nel vittimismo, o in una sorta di narcisismo culturale ormai puramente masochistico.

 
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