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Camera dei deputati - 12 luglio 1975
ABORTO: Referendum per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, 550, 551, 553, 554 e 555 codice penale - Aborto e altri delitti - Titolo X codice penale

SOMMARIO: Scheda sul referendum per la depenalizzazione dell'aborto, promosso dalla legge XII maggio, dal settimanale l'Espresso e dal Partito radicale. Ordinanze della Corte di cassazione, sentenze della Corte costituzionale e ricorso dei promotori contro l'ordinanza della Corte di cassazione.

(IL REFERENDUM ABROGATIVO IN ITALIA: LE NORME, LE SENTENZE, LE PROPOSTE DI MODIFICA - CAMERA DEI DEPUTATI - QUADERNI DI DOCUMENTAZIONE DEL SERVIZIO STUDI, Roma 1981)

"12 luglio 1975": presentazione della richiesta

"7 novembre 1975": ordinanza Ufficio centrale Cassazione che dichiara legittima la richiesta

"18 dicembre 1975": sentenza n. 251 Corte costituzionale che dichiara ammissibile la richiesta

"7 gennaio 1976": ordinanza Ufficio centrale Cassazione che dichiara cessate le operazioni referendarie per l'articolo 553 c.p. (dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con sentenza 24 marzo 1971, n. 49)

"15 aprile 1976": D.P.R. di indizione del "referendum"

"1· maggio 1976": D.P.R. di scioglimento anticipato delle Camere

"20-21 giugno 1976": elezioni per il rinnovo delle Camere

"14 aprile 1978": D.P.R. di fissazione della data del "referendum"

"Legge 22 maggio 1978, n. 194" »Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza

"26 maggio 1978": ordinanza Ufficio centrale Cassazione che dichiara cessate le operazioni referendarie

"23 ottobre 1978": ricorso dei promotori del "referendum" contro l'ordinanza del 26 maggio 1978 per conflitto fra poteri

"8 gennaio 1979": ordinanza n. 1 Corte costituzionale che dichiara ammissibile il ricorso in sede di sommaria delibazione

"20 marzo 1980": sentenza n. 30 Corte costituzionale che, decidendo in via definitiva, dichiara inammissibile il ricorso

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Corte di cassazione - Ufficio centrale per il "referendum"

Ordinanza del 7 novembre 1975

Sulle seguenti richieste di "referendum" di cui all'articolo 75 della Costituzione, depositate ai sensi degli articoli 28 e seguenti della legge 25 maggio 1970 n. 352 nel periodo 1· gennaio-30 settembre 1975:

A) Richiesta di "referendum" abrogativo della legge 2 maggio 1974 n. 195 »Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici , presentata ad opera dei promotori il giorno 15 maggio 1975;

B) Richiesta di "referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549 comma 2, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930 n. 1398), presentata ad opera dei promotori il 12 luglio 1975.

"Ritenuto in fatto e in diritto"

- che con verbale del 30 gennaio 1975 della cancelleria di questa Suprema Corte, undici cittadini italiani, iscritti nelle liste elettorali del Comune di Roma, dichiararono di voler promuovere - ai sensi dell'articolo 75 della Costituzione, in relazione agli articoli 27 e 7 della legge 25 maggio 1970 n. 352 - la raccolta di almeno 500.000 firme di elettori per la richiesta di un "referendum" popolare avente ad oggetto l'abrogazione totale della legge n. 195 del 1974 in epigrafe indicata;

- che con verbale del 5 febbraio 1975 della cancelleria di questa Suprema Corte, dodici cittadini italiani, muniti dei requisiti prescritti dalla legge, dichiararono di voler promuovere analoga iniziativa per la richiesta di un "referendum" popolare avente ad oggetto l'abrogazione delle norme del codice penale anch'esse in epigrafe indicate;

- che della prima iniziativa fu dato annuncio nella "Gazzetta Ufficiale" n. 30 del 31 gennaio 1975 e della seconda nella "Gazzetta Ufficiale" n. 35 del 6 febbraio 1975;

- che con verbale 15 maggio 1975, del cancelliere di questa Corte, i Sigg. Quaglietta Vito, Gabrielli Dina, Ibrido Giuseppe e Mancini Cesare, iscritti - giusta verbale sopra indicato del 30 gennaio 1975 - rispettivamente ai nn. 1, 4, 6 e 10 dei promotori, presentarono formale richiesta di "referendum" relativo alla legge n. 195 del 1974, depositando ai sensi dell'articolo 28 della citata legge n. 352 del 1970, n. 98 pacchi e n. 2 buste in cui dichiararono racchiusi fogli per oltre 600.000 firme di cittadini italiani elettori per la Camera dei Deputati;

- che, con verbale 12 luglio 1975 del Cancelliere di questa Corte, i signori Pannella Giacinto Marco, Zanetti Livio e Galli Maria Luisa, iscritti - giusta verbale sopra indicato del 5 febbraio 1975 - rispettivamente ai nn. 2, 7, 12 dei promotori presentarono altra formale richiesta relativa alla seconda delle iniziative depositando n. 60 scatole-pacchi nelle quali dichiararono racchiusi fogli contenenti circa 750.000 firme di cittadini italiani elettori per la Camera dei Deputati;

- che questo Ufficio centrale, in vista della complessità delle operazioni per ottenere la maggiore precisione possibile del controllo - fino a stabilire la eventuale - ripetizione di firme - e dei calcoli da effettuarsi, chiese di essere autorizzato dal Sig. Primo Presidente ad avvalersi della collaborazione del Centro Elettronico di Documentazione, esistente presso l'Ufficio del Massimario e del Ruolo di questa Corte Suprema di Cassazione, oltre che dei magistrati appartenenti all'Ufficio suddetto;

- che l'autorizzazione fu concessa con decreto del Primo Presidente, il quale mise, altresì, a disposizione dell'Ufficio centrale i magistrati richiesti;

- che, per l'espletamento delle predette operazioni fu predisposto dal Centro Elettronico di Documentazione, d'accordo con il Presidente dell'Ufficio, un apposito programma di lavoro, sottoposto all'esame dell'Ufficio centrale, e da questo approvato nella seduta del 29 settembre 1975;

- che con tale progetto si disponeva, tra l'altro, a completamento dell'operazione di verifica della regolarità dei fogli e delle firme, una fase di elaborazione e trascrizione dei dati su appositi supporti, da inserirsi nell'elaboratore elettronico successivamente alle fasi della complessa operazione di verifica che dovevano essere svolte dall'Ufficio centrale coadiuvato, nella sua attività, dai Magistrati sopra indicati, da funzionari di cancelleria, coadiutori giudiziari e da personale esecutivo, tutti assunti nell'ambito dell'ufficio, in qualità di personale ausiliario;

- che il 30 settembre 1975 fu iniziata da parte dell'Ufficio e progressivamente svolta l'apertura dei plichi relativi alle due richieste depositate con la identificazione, mediante timbratura numerica, dei fogli;

- che per la richiesta relativa al "referendum" abrogativo della legge 2 maggio 1974 n. 195, l'Ufficio ha proceduto, con l'ausilio del personale e dei mezzi anzidetti, ad un duplice esame preliminare delle sottoscrizioni, i cui dati, elaborati dal Centro Elettronico, sono così specificati:

1) numero dei fogli contenenti le sottoscrizioni: 13.306;

2) numero delle sottoscrizioni comunque esistenti: 470.534;

3) numero delle sottoscrizioni autenticate: 468.584;

4) numero delle sottoscrizioni munite dei certificati elettorali: 429.692;

5) altri certificati elettorali non allegati alle sottoscrizioni: 3.101;

- che tali risultati sono stati comunicati ai promotori attraverso la notificazione dell'ordinanza 14 ottobre 1975 di questo Ufficio, emessa ai sensi del terzo comma dell'articolo 32 della legge n. 352 del 1970, per la eventuale presentazione di memorie dirette a contestare l'esistenza dell'accertata carenza del numero di sottoscrizioni stabilito dalla legge a corredo della richiesta di "referendum";

- che i promotori della richiesta di "referendum" abrogativo della legge 2 maggio 1974, n. 195 hanno presentato, nel termine ad essi assegnato, memoria con la quale hanno chiesto: »...che la Corte Suprema di Cassazione:

a) ritenuta non manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità dell'articolo 31 della legge 25 maggio 1970, n. 352 in relazione all'articolo 75 della Costituzione; nonché dell'articolo 8 comma terzo della legge 25 maggio 1970, n. 352 in relazione agli articoli 75 e 3 della Costituzione (e precisamente nella seguente formulazione: »... da un notaio, o da un Cancelliere della pretura o del Tribunale nella cui circoscrizione è compreso il comune dove è iscritto nelle liste elettorali, l'elettore la cui firma è autenticata, ovvero dal Giudice conciliatore o dal Segretario di detto comune ); voglia sospendere l'esame degli atti e provvedere a rimettere con ordinanza ad hoc gli atti medesimi alla Corte Costituzionale, per la dichiarazione del caso;

b) rilevata la duplice ed antitetica certificazione elettorale rilasciata da alcuni Comuni (fra i quali Roma), nonché il divario esistente fra le firme autenticate e quelle munite di certificazione elettorale, secondo i dati desunti dai tabulati della Corte medesima, trasmettere gli atti all'ufficio della Procura della Repubblica territorialmente competente, perché - ove si ravvisino nel fatti su esposti estremi di reato - si proceda penalmente a carico degli operatori elettorali eventualmente responsabili;

- che la richiesta sub a) non può comunque essere accolta stante il manifesto difetto di rilevanza delle questioni proposte in quanto, come riconosciuto dagli stessi promotori, è incontestabile l'accertamento dell'Ufficio in ordine alla mancata presentazione delle sottoscrizioni, comunque apposte, nel numero previsto dalla legge;

- che la richiesta sub b) può essere accolta nel senso che la memoria del comitato promotore del "referendum" sia trasmessa, a cura della Segreteria di questo Ufficio, alla Procura della Repubblica di Roma - unica città espressamente indicata - per ogni eventuale iniziativa in merito ai fatti denunciati, come da contestuale verbale;

- che pertanto la richiesta di "referendum" per l'abrogazione della legge 2 maggio 1974, n. 195 deve dichiararsi illegittima perché non corredata da 500.000 sottoscrizioni;

- che riguardo alla seconda richiesta di "referendum" di cui in epigrafe l'Ufficio, in 22 sedute, tenute di regola di mattina e di pomeriggio sino alla data del 14 ottobre 1975, ha aperto i 60 plichi depositati i quali risultarono contenenti n. 24.915 fogli, che, progressivamente numerati, furono sottoposti ad un triplice controllo da parte dei magistrati dell'Ufficio stesso al fine di identificare la regolarità o meno di tutte le sottoscrizioni in essi contenute;

- che le sottoscrizioni così verificate vennero via via memorizzate ed elaborate in via definitiva dopo collazione dei tabulati a mezzo programmi elettronici ed a mano;

- che tale elaborazione dei dati non è stata più proseguita una volta accertato che il quorum previsto dalla legge per la dichiarazione della legittimità della richiesta di "referendum" era stato ampiamente raggiunto;

- che risultano completamente elaborati i dati relativi a numero 602.414 sottoscrizioni delle quali numero 557.677 regolari, numero 40.736 irregolari e numero 4.001 replicate (per coincidenza di generalità e data di nascita), comprese quelle contenenti anche irregolarità;

- che non risulta quindi necessario decidere sulle istanze di revoca delle sottoscrizioni presentate da due firmatari;

- che in particolare le irregolarità accertate per le sottoscrizioni elaborate risultano così ripartite:

n. 60 per irregolarità del foglio;

n. 5 per mancata o parziale vidimazione;

n. 44 per vidimazione di fogli da parte di pubblici ufficiali appartenenti ad uffici diversi da quelli previsti dalla legge;

n. 38 per irregolarità della data di vidimazione del foglio;

n. 435 per mancata o parziale autenticazione collettiva;

n. 872 per numero di firme maggiore di quelle autenticate;

n. 168 per incompetenza territoriale del pubblico ufficiale autenticante (cancellieri, segretari comunali, conciliatori);

n. 104 per mancanza completa di firma (alla quale si è equiparata la presenza di manifestazioni grafiche di evidente analfabetismo);

n. 20 per mancanza del cognome;

n. 149 per totale mancanza del nome;

n. 143 per divergenza tra nominativo indicato e firma;

n. 37.320 per mancanza del certificato elettorale;

n. 567 per irregolarità del certificato elettorale;

n. 86 per mancanza di dati richiesti;

n. 315 per divergenza tra i dati richiesti e quelli risultanti dal certificato elettorale;

n. 203 per mancanza o parziale autenticazione di una o più firme e per mancata attestazione della dichiarazione di volontà di elettore analfabeta o impedito;

n. 382 per autenticazione di una o più firme individualmente considerate, da parte di pubblici ufficiali diversi da quelli indicati dalla legge;

n. 748 per altre irregolarità;

- che in conseguenza del raggiungimento del numero di firme regolari necessarie per la richiesta - che priva di ogni interesse giuridico i richiedenti al fine della relativa contestazione delle accertate irregolarità - l'Ufficio centrale ha ritenuto superfluo emettere l'ordinanza preliminare di cui all'articolo 32 comma terzo della legge 25 maggio 1970, n. 352;

- che pertanto l'operazione può dichiararsi chiusa, ogni ulteriore adempimento comportando un'attività che si presenta del tutto superflua;

- che, in conclusione,

a) la richiesta è stata preceduta dall'attività di promozione conforme ai requisiti di legge;

b) che essa è stata presentata da soggetti che vi erano legittimati, perché facenti parte del numero dei promotori;

c) che il deposito è avvenuto nel termine di tre mesi dalla data di timbratura dei fogli regolari;

d) che la richiesta di abrogazione degli articoli del codice penale sopra indicati è stata regolarmente formulata e trascritta nella facciata, contenente le firme di ciascun foglio;

e) che il numero definitivo delle firme valide esaminate è di 557.677 e supera il numero di 500.000 voluto dalla legge;

Per questi motivi, letti gli articoli 75 della Costituzione, 8, 9, 27 e 31 della legge 25 maggio 1970, n. 352, l'Ufficio centrale per il "referendum" dichiara:

A) illegittima, per mancanza del numero di sottoscrizioni necessarie, la richiesta di "referendum" popolare per l'abrogazione della legge 2 maggio 1974, n. 195 »Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici ;

B) legittima la richiesta di "referendum" popolare per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549 secondo comma, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale (R.D .19 ottobre 1930, n. 1398).

Dichiara cessate le operazioni di sua competenza relative a questa fase della procedura prevista dalle norme citate.

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Corte costituzionale

Sentenza 18 dicembre 1975, n. 251

La Corte costituzionale ha pronunciato la seguente sentenza nel giudizio sull'ammissibilità, ai sensi dell'articolo 75, Comma secondo, della Costituzione, della richiesta di "referendum" popolare per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale, approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398.

Udito nella camera di consiglio dell'11 dicembre 1975 il Giudice relatore Antonino De Stefano.

"Ritenuto in fatto":

Con ordinanza del 7 novembre 1975, depositata in pari data, l'Ufficio centrale per il "referendum", costituito presso la Corte di cassazione, esaminata la richiesta di "referendum" popolare per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, presentata il 12 luglio 1975 da tre dei promotori, e precisamente, dai signori Pannella Giacinto Marco, Zanetti Livio e Galli Maria Luisa, ai sensi dell'articolo 28 della legge 25 maggio 1970, n. 352, ed accertato il numero definitivo delle firme valide esaminate in 557.677, superiore quindi al numero di 500.000 voluto dalla Costituzione, ha dichiarato legittima la richiesta anzidetta.

Ricevuta comunicazione dell'ordinanza, il Presidente di questa Corte, in ottemperanza all'articolo 33 della citata legge n. 352 del 1970, ha fissato per la conseguenziale deliberazione il giorno 11 dicembre 1975, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta e al Presidente del Consiglio dei ministri: né gli uni né l'altro si sono avvalsi della facoltà di depositare memorie.

"Considerato in diritto":

1. - Nel complesso procedimento instaurato dalla legge 25 maggio 1970, n. 352, al fine di determinare le modalità di attuazione del "referendum" popolare per l'abrogazione di una legge o di un atto avente valore di legge, previsto dall'articolo 75 della Costituzione, assumono precipuo rilievo le funzioni demandate all'Ufficio centrale per il "referendum", costituito presso la Corte di cassazione a norma dell'articolo 12 della citata legge. Tale Ufficio è, infatti, chiamato, dal successivo articolo 32, ad accertare che la richiesta di "referendum" sia conforme alle norme di legge, rilevando con ordinanza le eventuali irregolarità e decidendo, con ordinanza definitiva, sulla legittimità della richiesta medesima. Una volta poi espletate le operazioni di votazione e di scrutinio, è lo stesso Ufficio che, ricevuti i verbali e i relativi allegati procede all'accertamento delle condizioni prescritte dal penultimo comma dell'articolo 75 della Costituzione, e alla conseguente proclamazione dei risultati del "referend

um" (art. 36 legge cit.). Infine, all'Ufficio anzidetto compete dichiarare che le operazioni non hanno più corso, se, prima della data dello svolgimento del "referendum", la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni cui il "referendum" si riferisce, siano stati abrogati (art. 39 legge cit.).

Al controllo di legittimità demandato all'apposito Ufficio è preclusa soltanto la cognizione dell'ammissibilità del "referendum", ai sensi del secondo comma dell'articolo 75 della Costituzione (art. 32, comma secondo, legge cit.). Per l'articolo 2 della legge cost. 11 marzo 1953, n. 1, spetta, infatti, alla Corte costituzionale giudicare se le richieste di "referendum" abrogativo presentate a norma dell'articolo 75 della Costituzione, siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell'articolo stesso. E le modalità di tale giudizio - in conformità a quanto previsto dal richiamato articolo 2 della legge cost. n. 1 del 1953 - sono state appunto stabilite dalla citata legge n. 352 del 1970, precisamente all'articolo 33.

Trattasi, dunque, di una competenza che si è aggiunta a quelle demandate alla Corte dall'articolo 134 della Costituzione; ed il relativo giudizio, per il limitato oggetto (sentenza di questa Corte n. 10 del 1972), per la sua inserzione in un procedimento unitario che si articola in più fasi consecutive e conseguenziali, per la sua peculiare funzione di controllo in ordine ad un atto del procedimento di abrogazione in corso, si atteggia con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge.

2. - Alla stregua di tali premesse, si dà atto che l'Ufficio centrale per il "referendum", con l'ordinanza del 7 novembre 1975, ha dichiarato legittima la richiesta di "referendum" popolare per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale. Ne consegue per la Corte, nella sede attuale, il compito di verificare se tali disposizioni appartengano o meno alle categorie di leggi sottratte al "referendum" abrogativo dal secondo comma dell'articolo 75 della Costituzione (leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali).

3. - Gli articoli dianzi indicati - tutti collocati sotto il Titolo X, Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe, del Libro II del codice penale - concernono un complesso di ipotesi delittuose, e precisamente l'aborto di donna consenziente (art. 546), l'aborto procuratosi dalla donna (art. 547), l'istigazione all'aborto (art. 548), la morte o lesione della donna derivate dal fatto preveduto dall'articolo 546 (art. 549, comma secondo), gli atti abortivi su donna ritenuta incinta (art. 550), la procurata impotenza alla procreazione (art. 552), l'incitamento a pratiche contro la procreazione (art. 553), il contagio di sifilide o di blenorragia (art. 554); inoltre, l'articolo 551 contempla una riduzione delle pene stabilite dagli articoli da 546 a 550, dianzi indicati, e dall'articolo 545 (del quale non è proposta l'abrogazione), se alcuno dei fatti ivi preveduti è commesso per causa di onore; e l'articolo 555 prevede un aumento della pena, e nel caso di recidiva la interdizione perpetua dalla pro

fessione sanitaria, se il colpevole di uno dei delitti preveduti dall'articolo 545, dalla prima parte e dal secondo capoverso dell'articolo 546, dagli articoli 548, 549, 550, dalla prima parte dell'articolo 552 e dall'articolo 553, è persona che esercita una professione sanitaria. Appare evidente che tali disposizioni non rientrano tra quelle eccettuate dall'articolo 75, comma secondo, della Costituzione, e pertanto è ammissibile la richiesta di "referendum" popolare per la loro abrogazione, una volta che ne è stata dichiarata la legittimità a mente dell'articolo 32 della citata legge n. 352 del 1970.

4. - Così precisati i limiti della sua competenza, la Corte non può non rilevare che, con sua sentenza n. 49 del 10 marzo 1971, pubblicata in G. U. n. 74 del 24 marzo 1971, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'articolo 553 cod. pen. (incitamento a pratiche contro la procreazione), del quale ora il promosso "referendum" intende conseguire l'abrogazione; e che detto articolo, pertanto, ha cessato di avere efficacia, ai sensi dell'articolo 136 della Costituzione, fin dal giorno successivo alla pubblicazione della richiamata sentenza, né può, da tale data, aver più applicazione (art. 30, comma terzo legge 11 marzo 1953, n. 87), con ciò risultando assorbita la finalità cui istituzionalmente è preordinato il "referendum" abrogativo.

Rileva, altresì, la Corte che, con sua sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 pubblicata in G. U. n. 55 del 26 febbraio 1975, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'articolo 546 cod. pen. (aborto di donna consenziente), »nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile per la salute della madre ; e che tale pronuncia è intervenuta in data posteriore a quella (5 febbraio 1975) in cui - come rilevasi dalla motivazione dell'ordinanza dell'Ufficio centrale presso la Corte di cassazione - i promotori avevano reso nota, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 7 della citata legge n. 352 del 1970, la loro iniziativa per la richiesta di un "referendum abrogativo", tra gli altri, del menzionato articolo 546, dando così avvio al relativo procedimento.

La Corte si arresta a tali constatazioni, senza inoltrarsi nelle loro implicazioni: non appartiene, infatti, al presente giudizio la cognizione della problematica che si profila in conseguenza di quanto rilevato, potendo essa investire - riferita che sia all'intero complesso normativo o ai soli due articoli sopra menzionati o ad uno solo di essi - tanto la conformità a legge della richiesta di referendum, quanto l'ulteriore svolgimento delle operazioni (art. 39 legge n. 352 del 1970). Come si è innanzi ricordato, ai relativi controlli, ed alla soluzione delle pertinenti questioni, è preposto l'Ufficio centrale per il "referendum", al quale questa sentenza va comunicata, in ottemperanza al disposto dell'ultimo comma dell'articolo 33 della citata legge.

Per questi motivi la Corte costituzionale

dichiara ammissibile la richiesta di "referendum" popolare, presentata il 12 luglio 1975, per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo; 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale, approvato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, e dichiarata legittima dall'ordinanza 7 novembre 1975 dell'Ufficio centrale per il "referendum", costituito presso la Corte di cassazione.

Corte di cassazione - Ufficio centrale per il referendum Ordinanza del 7 gennaio 1976

Letta la sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 22 dicembre 1975 con la quale è stata dichiarata ammissibile la richiesta di "referendum" popolare presentata il 12 luglio 1975, per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 553, 554, 555 del codice penale e dichiarata legittima dalla ordinanza 7 novembre 1975 di questo Ufficio Centrale per il "Referendum";

premesso che nella parte motiva di detta sentenza, al punto 4, la Corte Costituzionale ha dichiarato di non poter non rilevare che con sua precedente sentenza n. 49 del 10 marzo 1971, pubblicata in "Gazzetta Ufficiale" n. 74 del 24 marzo 1971, fu dichiarata la illegittimità costituzionale dell'articolo 553 cod. pen. (incitamento a pratiche contro la procreazione) »del quale ora il promosso "referendum" intende conseguire l'abrogazione ; e che detto articolo, pertanto, ha cessato di avere efficacia, ai sensi dell'articolo 136 della Costituzione, fin dal giorno successivo alla pubblicazione della richiamata sentenza »né può, da tale data, avere più applicazione (art. 30, comma terzo, legge 11 marzo 1953, n. 87), con ciò risultando assorbita la finalità cui istituzionalmente è preordinato il "referendum" abrogativo ;

premesso inoltre che, sempre al punto 4 della parte motiva della sentenza n. 251 del 22 dicembre 1975, la Corte Costituzionale ha pure rilevato che con altra sua sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975, pubblicata in "Gazzetta Ufficiale" n. 55 del 26 febbraio 1975, è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'articolo 546 cod. pen. (aborto di donna consenziente) »nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venire interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile per la salute della madre ; e che tale pronuncia è intervenuta in data posteriore a quella (5 febbraio 1975) in cui i promotori avevano resa nota, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 7 della citata legge n. 352 del 1970, la loro iniziativa per la richiesta di un "referendum" abrogativo, tra gli altri, del menzionato articolo 546 dando così avvio al relativo procedimento;

premesso infine che, nella ripetuta sentenza n. 251 del 22 dicembre 1975, la Corte Costituzionale ha testualmente dato atto di arrestarsi »a tali constatazioni, senza inoltrarsi nelle loro implicazioni ; e ciò in quanto »non appartiene al presente giudizio la cognizione della problematica che si profila in conseguenza di quanto rilevato, potendo essa investire - riferita che sia all'intero complesso normativo o ai soli due articoli sopra menzionati o ad uno solo di essi - tanto la conformità a legge della richiesta di "referendum" quanto l'ulteriore svolgimento delle operazioni (art. 39 legge n. 352 del 1970) ; ed ha soggiunto, al riguardo, che, come innanzi ricordato, ai relativi controlli ed alla soluzione delle pertinenti questioni è preposto l'Ufficio Centrale per il "Referendum";

osserva che con riferimento alla problematica, cui accenna la Corte Costituzionale nella sua sentenza più volte menzionata n. 251 del 1975, ai sensi e per gli effetti di cui all'articolo 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352, è da tener per fermo che nessuna delle due precedenti sentenze della stessa Corte Costituzionale n. 49 del 10 marzo 1971 e n. 27 del 18 febbraio 1975 coinvolge l'intero complesso normativo, racchiudendo la vigente disciplina penale dell'aborto, attesa la sostanziale autonomia e la diversità delle ipotesi previste e sanzionate negli articoli del codice penale relativamente ai quali è stata formulata la richiesta di "referendum" popolare abrogativo: autonomia e diversità che non cessano, com'è ovvio, di sussistere nonostante la pur palese analogia di materia;

che occorre invece constatare e dichiarare - in considerazione degli effetti ablativi, e sostanzialmente abrogativi, sulle norme cui esse si riferiscono, delle pronuncie di illegittimità costituzionale - che per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale dell'articolo 553 cod. pen. (incitamento a pratiche contro la procreazione), contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 10 marzo 1971, l'articolo 553 citato ha cessato, in toto, di avere vigore; e pertanto, in relazione ad esso articolo, deve dichiararsi, in applicazione dell'articolo 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352, che le operazioni per il "Referendum" non possono più avere corso;

che, relativamente infine alla richiesta di "referendum" popolare abrogativo dell'articolo 546 cod. pen. (aborto di donna consenziente), occorre tenere ben presente che la Corte Costituzionale con l'altra sua sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 si è limitata ad una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma soltanto parziale, come palesemente si desume dal dispositivo ove è detto: »La Corte ... dichiara la illegittimità costituzionale dell'articolo 546 cod. pen. nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venire interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile per la salute della madre .

Orbene, anche in presenza della ricordata declaratoria di parziale illegittimità dell'articolo 546 cod. pen., le operazioni per il "referendum" in ordine all'articolo citato debbono ugualmente avere corso permanendo pur sempre nella richiesta relativa i prescritti caratteri di legittimità. E ciò per due concorrenti ragioni, entrambe determinanti.

La prima ragione è che, sulla parte residua dell'articolo 546 cod. pen. - la parte cioè non invalidata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975 - ben può sussistere sia nei promotori della iniziativa, sia nei sottoscrittori della richiesta sia nel corpo elettorale (nel suo complesso) la volontà che si faccia luogo al "referendum" abrogativo relativamente alla norma citata ancorché nel ridotto suo contenuto. La seconda concorrente ragione è che i promotori del "referendum" effettuarono il deposito dei fogli contenenti le sottoscrizioni dei cittadini elettori nella Cancelleria della Corte di Cassazione il 15 luglio 1975, come da relativo verbale, successivamente cioè alla pubblicazione nella "Gazzetta Ufficiale" della sentenza n. 27 del 1975 della Corte Costituzionale: sicché è d'uopo ritenere che la richiesta di "referendum" abbia avuto, ed abbia, come suo oggetto, fra gli altri, anche l'articolo 546 cod. pen. quale risulta ormai modificato in forza della declaratoria di parziale illegittimità

costituzionale contenuta nella ripetuta sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1975.

E' da ultimo opportuno sottolineare che le conclusioni qui raggiunte lasciano ovviamente impregiudicati eventuali futuri interventi e ulteriori determinazioni di questo Ufficio Centrale ove si rendessero, per avventura, necessari, ai sensi e per gli effetti dell'articolo 39 legge 25 maggio 1970, n. 352, in dipendenza della eventuale sopravvenienza di fatti nuovi rientranti nel novero della previsione di cui all'articolo 39 citato.

Per questi motivi l'Ufficio Centrale per il "referendum"

Vista ]a precedente propria ordinanza in data 7 novembre 1975 relativa alla legittimità della richiesta del "referendum" popolare di cui in premessa e vista la sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 22 dicembre 1975;

visto anche e applicato l'articolo 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352.

Dichiara che le operazioni relative al detto "referendum" non hanno più corso limitatamente all'articolo 55 3 cod. pen. (incitamento a pratiche contro la procreazione);

che non sussistono - allo stato - ragioni ostative allo svolgimento delle operazioni per il medesimo "referendum" relativamente alle altre norme del codice penale specificamente indicate nel quesito formulato dai promotori;

ordina che la presente ordinanza sia comunicata al Presidente della Repubblica, ai presidenti delle Camere, al presidente del Consiglio dei Ministri e al presidente della Corte Costituzionale nonché - per notizia - ai presentatori della richiesta di "referendum" signori Giacinto Marco Pannella, Livio Zanetti e Maria Luisa Galli, tutti elett. domiciliati in Roma - Via di Torre Argentina 18 presso il Partito Radicale.

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Corte di Cassazione - Ufficio centrale per il referendum Ordinanza 26 maggio 1978

Sulla richiesta di "referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549 comma 2 (se dal fatto preveduto dall'art. 546 deriva la morte della donna, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni; se deriva una lesione personale è della reclusione da tre a otto anni), 550, 551, 552, 554, 555 c.p. emanato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398.

Vista la precedente ordinanza dell'Ufficio in data 7 novembre 1975, relativa alla legittimità della richiesta di "referendum" popolare presentata il 12 luglio 1975 per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549 comma 2, 550, 551, 552, 553, 554, 555 c.p., e quella in data 7 gennaio 1976 con la quale, in applicazione dell'articolo 39 legge 25 maggio 1970, n. 352, è stato dichiarato che le operazioni referendarie non hanno più corso limitatamente all'articolo 553 c.p. (incitamento a pratiche contro la procreazione) essendo intervenuta la sentenza della Corte cost. n. 49 del 10 marzo 1971 che l'ha dichiarato illegittimo, mentre si è stabilito che le operazioni continuassero ad aver corso rispetto all'articolo 516 c.p. (aborto di donna consenziente), di cui la Corte cost. con sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975 aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale;

vista la sentenza della Corte costituzionale 22 dicembre 1975 n. 251 che ha dichiarato ammissibile le relative richieste;

visto l'articolo 39 legge 25 maggio 1970, n. 352, nel testo risultante dalla sentenza della Corte cost. 17 maggio 1978 n. 68, che lo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo »limitatamente alla parte in cui non prevede che se l'abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il "referendum" venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente, né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il "referendum" si effettui sulle nuove disposizioni legislative ;

lette le deduzioni presentate dai promotori in data 23 maggio 1978 ed illustrate oralmente nella seduta odierna dagli Avv. Corrado De Martini e Mauro Mellini;

ritenuto che posteriormente alla emanazione della citata ordinanza 7 gennaio 1976 è stata promulgata la legge 22 maggio 1978 n. 194 »Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza (pubblicata in Gazzetta Ufficiale 22 maggio 1978 n. 140), la quale ha abrogato tutte le disposizioni del titolo X del libro II c.p., ivi comprese quelle di cui alla richiesta referendaria in esame, adottando, peraltro, negli articoli dal 17 al 22 una disciplina penale sostitutiva;

che, per effetto della sopravvenuta normativa in vigore dal 6 giugno 1978, alla scadenza della normale "vacatio", anteriormente alla data della consultazione popolare si verifica, con riferimento a tale data, l'ipotesi contemplata dalla citata sentenza della Corte costituzionale del 1978 di abrogazione sostituiva;

che di tale abrogazione occorre valutare gli effetti sulle operazioni referendarie;

ritenuto che sono state sollevate, da parte dei promotori del "referendum" due distinte questioni di legittimità costituzionale, riguardanti, l'una, la mancata previsione nell'articolo 39 legge n. 352 del 1970, di limiti temporali all'esercizio del potere legislativo sulle materie oggetto di "referendum", quanto meno nel periodo successivo alla indizione dei comizi elettorali, e, l'altra, la incostituzionalità della legge 22 maggio 1978, n. 194, abrogativa di quella sottoposta a "referendum", in quanto mossa dall'intento di impedire l'espressione della sovranità popolare;

considerato che quest'Ufficio è legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale;

che l'accesso alla Corte costituzionale comporta la previa deliberazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della sollevata questione; che sussiste la rilevanza, dovendosi il giudizio sulla cessazione o meno delle operazioni referendarie svolgere alla stregua del denunziato articolo 39, e potendo, in tesi, la eventuale incostituzionalità dell'intera legge abrogativa incidere sulla idoneità della stessa o produrre l'effetto da cui consegue la cessazione delle operazioni referendarie;

che, però, entrambe le questioni sono manifestamente infondate; che, invero, quanto alla prima, la stessa Corte cost. nella sentenza n. 68 del 1978, ha affermato che »le Camere conservano la propria permanente potestà legislativa... (anche)... successivamente alla stessa indizione di "referendum" abrogativo , e, quanto alla seconda, la denunzia concerne un eccesso di potere del legislatore, non riconducibile - sotto l'aspetto qui profilato - nell'ambito del giudizio di legittimità delle leggi;

considerato che la Corte costituzionale - dopo aver premesso che ogni vicenda abrogativa, comunque attuata esclude che il "referendum" possa avere ad oggetto le disposizioni abrogate - ha precisato che, quando l'abrogazione sia accompagnata da altra disciplina della stessa materia, per stabilire i criteri di distinzione fra l'ipotesi in cui le operazioni referendarie non debbono avere più corso (in tutto o in parte) e quella in cui il "referendum" si trasferisce (o si estende) alle nuove disposizioni, occorre separare il caso della richiesta riguardante una legge (o atto equiparato) nella sua interezza o un organico insieme di disposizioni altrimenti individuate dal legislatore, da quello della proposta diretta soltanto alla abrogazione di disposizioni specifiche; che, alla stregua dei criteri ricavabili da detta sentenza, nel primo caso la cessazione totale delle operazioni referendarie consegue alla modificazione, comunque attuata, dei principi informatori della complessiva disciplina legislativa preesiste

nte e la cessazione parziale alla non riconducibilità a quei principi delle singole disposizioni modificative (altrimenti il "referendum" si trasferisce o si estende alle nuove disposizioni) e nel secondo caso il "referendum" non deve aver più corso quando siano stati modificati i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti;

considerato che, sulla base di tali criteri, la disciplina introdotta dalla legge 22 maggio 1978 n. 194 comporta la totale cessazione delle operazioni referendarie aventi ad oggetto gli articoli del codice penale già indicati;

considerato che ricorre, invero, il primo dei casi sopra enucleati, in quanto, pur essendo formalmente oggetto della richiesta singoli articoli del codice penale, tuttavia essa, nella sua originaria formulazione, investiva l'intero titolo X del libro II del codice stesso, con la sola, ovvia, eccezione dell'aborto di donna non consenziente, figura criminosa nettamente differenziata rispetto alle altre del titolo per la sua peculiarità consistente nell'offesa al diritto alla maternità, conseguente alla mancanza di consenso;

che, pertanto a prescindere dal confronto fra le singole disposizioni delle due normative, occorre raffrontare i principi complessivamente ispiratori dell'una e dell'altra disciplina;

che le norme penali contenute negli articoli dal 17 al 22 della legge n. 194 - tra le quali non sono riprodotte alcune precedenti previsioni (ad esempio quelle di cui agli artt. 550, 552 e 554 c.p.) mentre figurano ipotesi criminose nuove (artt. 17 e 21) - vanno valutate nel quadro della diversa impostazione della materia, caratterizzata dalla legalizzazione, se pur entro ben precisi limiti, dell'aborto e dall'esigenza di tutelare la vita umana sin dall'inizio, nel contempo garantendo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile e riconoscendo il valore della maternità;

che di tale nuovo regime rappresenta fondamentale espressione la disciplina dell'aborto di donna consenziente (art. 19 legge n. 194 del 1978), la cui punibilità è stata ridotta in un ambito ben più ristretto di quello risultante dall'abrogato articolo 546 c.p. nel contenuto derivante dalla sentenza n. 27 del 1975 della Corte cost., in quanto, soprattutto nei primi novanta giorni, l'interruzione della gravidanza è ora consentita in un numero maggiore di ipotesi che, d'altra parte, non può dubitarsi dell'intervenuta abrogazione del suddetto articolo 516 c.p. richiamandosi alla norma transitoria contenuta nell'articolo 22 comma 3, legge n. 194 del 1978, la quale, lungi dal negarla, la presuppone e la conferma, mirando a consentire l'applicazione della nuova disciplina più favorevole anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, sulla base di un accertamento da parte del giudice delle condizioni legittimanti l'aborto in sostituzione di adempimenti impossibili perché relativi a fatti pregressi;

che il suddetto regime corrisponde ad una "ratio" del tutto differente da quella da cui muoveva il legislatore del 1930 con le precisioni contenute nel titolo X del c.p., ispirate all'intento precipuo di salvaguardare l'interesse demografico della nazione;

che, pertanto, complessivamente la nuova disciplina, pur nella sopravvivenza di taluni contenuti normativi presenti nell'ordinamento abrogato, si informa a principi sostanzialmente diversi da quelli della precedente;

ritenuto che, in conclusione, le operazioni referendarie devono dichiararsi cessate.

Per questi motivi, l'Ufficio centrale per il "referendum"

dichiara che le operazioni di cui alla richiesta di "referendum" popolare presentata il 12 luglio 1975 per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548 549 comma 2, 553, 554, 555 c.p. già dichiarate cessate limitatamente all'articolo 553 c.p. con ordinanza 7 gennaio 1975, non hanno più corso;

dispone che la presente ordinanza sia comunicata: all'on. Presidente della Repubblica; agli onn. Presidenti delle Camere, all'on. Presidente del Consiglio dei Ministri; al sig. Presidente della Corte costituzionale.

Dispone che essa venga notificata a mezzo di ufficiali giudiziari ai presentatori della richiesta signori Pannella Giacinto Marco, Zanetti Livio, Galli Maria Luisa.

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Ricorso dei promotori del "referendum" alla Corte costituzionale contro l'ordinanza del 26 maggio 1978 dell'Ufficio centrale della Corte di cassazione

Ricorso dei signori Maria Luisa Galli, Maria Luisa Zardini, Esperia Volpe tutti domiciliati in Roma ed elettivamente in Via della Scrofa 117, presso l'avv. Corrado De Martini che li rappresenta ed assiste nella qualità di componenti e rappresentanti del Comitato Promotore del "Referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549 comma 2, 550, 551, 552, 554, 555 c.p. emanato con r.d. 19 ottobre 1930 n. 1398 quale rappresentante dei firmatari della relativa richiesta, per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sorto a seguito della ordinanza dell'Ufficio Centrale per il "referendum" - depositata nella Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione il 26 maggio 1978 - con la quale l'Ufficio Centrale ha »dichiarato che le operazioni, di cui alla richiesta di "referendum" popolare presentata il 12 luglio 1975 per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548 comma 2, 553, 554, 555 c.p. non hanno più corso .

Premessa. - E' noto alla Corte Ecc.ma che l'ordinanza del 26 maggio 1978 dell'Ufficio Centrale per il "Referendum" presso la Corte di cassazione è stato l'atto finale di una vicenda nella quale la stessa Corte costituzionale ha avuto occasione di intervenire più volte.

In data 12 luglio 1975 veniva presentata una richiesta di "referendum" popolare per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 549 comma 2, 550, 551, 552, 554, 555 c.p.

Con ordinanza resa in data 7 novembre 1975 l'Ufficio Centrale per il "referendum" dichiarava legittima la richiesta di "referendum", che veniva successivamente dichiarata ammissibile dalla Corte costituzionale con sentenza 18 dicembre 1975 n. 251.

La Corte costituzionale, peraltro, con la sua sentenza, rilevava che con sua precedente sentenza (10 marzo 1971 n. 49) era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'artico]o 553 c.p., e che con altra sentenza (18 febbraio 1975 n. 27) era stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell'articolo 546 c.p, ed invitava pertanto l'Ufficio Centrale a risolvere le questioni poste da tali pronuncie in relazione alla richiesta di "referendum".

Con ordinanza in data 7 gennaio 1976 l'Ufficio Centrale per il "referendum", accogliendo l'invito della Corte, e sciogliendo le questioni poste, dichiarava che le operazioni referendarie non dovevano aver più corso limitatamente all'articolo 553, c.p., mentre non sussistevano ragioni ostative all'ulteriore svolgimento delle operazioni referendarie, riguardanti le altre norme del codice penale.

Il "referendum" non veniva indetto nell'anno 1976, né nell'anno 1977 in virtù dell'infelice disposto dall'articolo 34 legge 25 maggio 1970 n. 352.

In data 30 giugno 1977 venivano presentate otto richieste di "referendum" (per l'abrogazione delle seguenti leggi: 97 articoli del codice penale; legge 22 maggio 1975 n. 152 recante disposizioni a tutela dell'ordine pubblico, n. 13 articoli della legge 25 gennaio 1962 n. 20 recante norme sui procedimenti a giudizi di accusa; r.d. 20 febbraio 1941 n. 303 c.p.m.p.; r.d. 9 settembre 1941 n. 1022 ordinamento giudiziario militare; legge 27 maggio 1929 n. 810 di esecuzione al trattato ed al Concordato tra l'Italia e la Santa Sede; legge 2 maggio 1974 n. 195 recante disposizioni sul finanziamento pubblico dei partiti la legge 14 febbraio 1904 n. 36 recante disposizioni sui manicomi e sugli alienati).

Con ordinanze rese in data 6 dicembre 1977, l'Ufficio Centrale per il "Referendum" dichiarava legittime le otto richieste di "referendum" come proposte, ad eccezione di quella riguardante la legge 22 maggio 1975 n. 152: il relativo quesito veniva infatti modificato nel senso di escludere dalla richiesta referendaria l'articolo 5 della legge, perché sostituito dall'articolo 2 legge 8 agosto 1977 n. 533.

Con sentenza resa in data 7 febbraio 1978 n. 16 la Corte costituzionale dichiarava ammissibili quattro delle otto richieste referendarie: per l'esattezza quelle relative a 13 articoli della legge 25 gennaio 1962 n. 20, alla legge 2 maggio 1974 n. 195; alla legge 14 febbraio 1904 n 36 ed alla legge 22 maggio 1975 n. 152 (con il quesito come modificato dall'Ufficio Centrale per il "referendum"). La Corte invece negava l'ammissibilità alle altre richieste.

In data 7 gennaio 1978 i signori Calderisi, Pallicca e Pietroletti in nome e per conto del Comitato Promotore del "referendum" abrogativo della legge 22 maggio 1975 n. 152, quale rappresentante dei firmatari della relativa richiesta proponevano ricorso innanzi questa Ecc.ma Corte per conflitto di attribuzioni in riferimento all'ordinanza dell'Ufficio Centrale 6 dicembre 1977 con la quale era stato modificato il quesito, escludendo dallo stesso l'artico]o 5 legge 22 maggio 1975 n. 152.

Affermavano i ricorrenti che la »manipolazione del contenuto precettivo dell'articolo 5, operata dall'articolo 2 legge 8 agosto 1977 n. 533, non costituiva una sostanziale abrogazione di esso articolo 5, ma ne costituiva una mera sostituzione di carattere puramente formale, mentre ne aveva lasciati inalterati i contenuti.

Affermavano anche i ricorrenti che l'articolo 39 legge n. 352 del 1970 conferisce il potere all'Ufficio Centrale di dichiarare cessate le operazioni relative al "referendum" quando le disposizioni di legge oggetto del "referendum" stesso siano state abrogate, ma ciò solo nell'ipotesi di caducazione sostanziale del contenuto precettivo, e non anche nell'ipotesi di eliminazione formale, con contestuale reintroduzione delle stesse norme nell'ordinamento.

Ritenevano perciò i ricorrenti che l'Ufficio Centrale nel dare automatica applicazione dell'articolo 39 legge n. 352 del 1970, anche in presenza di una mera sostituzione formale, e senza neppure sollevare questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo 39 (così consentendo al Parlamento di aggirare una richiesta referendaria, con irrimediabile lesione degli interessi dei firmatari) avesse invaso la sfera di competenza costituzionale dei firmatari la richiesta referendaria e avessero violato il loro interesse costituzionalmente protetto a sottoporre a "referendum" tutti i contenuti normativi della legge n. 152 del 1975.

Con ordinanza n. 17 del 3 marzo 1978 la Corte costituzionale dichiarava, in sede di prima deliberazione, l'ammissibilità del conflitto.

Nel corso del successivo giudizio, la Corte costituzionale, con ordinanza n. 44 del 12 aprile 1978, ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'articolo 39 legge 25 maggio 1970 n. 352, in riferimento all'articolo 75 Cost.

Con sentenza n. 68 del 17 maggio 1978 la Corte nel decidere tale questione incidentale affermava che la presentazione di una richiesta referendaria non paralizza la funzione legislativa del Parlamento che è potenzialmente inesauribile, sicché il Parlamento può come abrogare puramente e semplicemente le norme sottoposte a "referendum", così costituirla con altre e diverse.

Peraltro è da escludere che uno dei tipici mezzi di esercizio della sovranità popolare possa essere sottoposto a vicende risolutive che rimangono affidate alla piena ed insindacabile disponibilità del legislatore ordinario, cui verrebbe consentito di bloccare il "referendum" adottando una qualsiasi disciplina sostitutiva.

Pertanto - affermava la Corte - l'articolo 39 legge n. 352 del 1970, ove interpretato nel senso che qualsiasi abrogazione, anche se accompagnata da una sostituzione puramente formale, potesse dar luogo alla cessazione delle operazioni referendarie, deve ritenere costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'articolo 75 Cost.

La Corte si è così posto il problema dei limiti entro cui può legittimamente verificarsi il blocco delle operazioni referendarie, individuandone la chiave di risoluzione nella »intenzione del legislatore : se »l'intenzione del legislatore - obiettivamente nella nuova disciplina - si dimostra fondamentalmente diversa e peculiare, la nuova legislazione non è più ricollegabile alla precedente iniziativa referendaria e questa può essere bloccata; se invece »la intenzione del legislatore rimane sostanzialmente identica, nonostante modifiche formali e di dettaglio l'iniziativa referendaria non può essere bloccata, ed il "referendum" »si trasferisce alla legislazione sopravvenuta. La Corte peraltro non affrontava "ex progresso" il problema dei limiti temporali entro cui l'intervento del legislatore ordinario deve ritenersi legittimo.

Con queste premesse, la Corte affermava che l'Ufficio Centrale per il "referendum", in caso di nuova sopraggiunta disciplina, è chiamato a valutare, ove sia stata sottoposta a "referendum" un'intera legge e la nuova disciplina la sostituisca integralmente, se i principi ispiratori della nuova legge siano o meno mutati rispetto alla precedente - dichiarando cessate le operazioni referendarie soltanto in questa seconda ipotesi; ed ove la richiesta concerna singole disposizioni, se i contenuti normativi essenziali delle nuove disposizioni siano o meno mutati - dichiarando cessate le operazioni soltanto in questo caso.

Sulla base di questa decisione, il giudizio per conflitto di attribuzioni è stato definito (con sentenza n. 69 del 23 maggio 1978) accogliendo il ricorso.

Ma la sentenza n. 68 del 1978 ha spiegato effetti ben al di là del caso specifico.

Ed infatti, il Parlamento nel frattempo aveva abrogato l'intero titolo X del Libro II c.p. con l'articolo 22 legge 22 maggio 1978 n. 194 »Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interpretazione volontaria della gravidanza .

Sicché l'Ufficio Centrale - chiamato, ai sensi dell'articolo 39 legge n. 352 del 1970, a valutare se le operazioni relative al "referendum" abrogativo delle disposizioni di cui agli articoli da 546 a 555 c.p. dovessero essere dichiarate cessate in conseguenza di tale abrogazione - nel corso di tale giudizio si è formalmente richiamato al contenuto precettivo della sentenza n. 68 del 1978.

A giudizio dei ricorrenti, peraltro, l'Ufficio Centrale per il "Referendum" ha male interpretato e peggio applicato i principi e le indicazioni che la Corte costituzionale ha dato con la citata sentenza: in tal modo violando l'interesse costituzionalmente protetto dei firmatari della richiesta referendaria di sottoporre a "referendum" agli articoli 546, 547, 548 comma 2, 550, 551, 552, 554, 555 c.p o/e anche, secondo le indicazioni della Corte costituzionale, le nuove disposizioni di cui alla legge 22 maggio 1978 n. 194.

Presupposti soggettivi. - Le pregresse vicende ci esimono dal diffonderci sui profili di ammissibilità del presente ricorso per conflitto di attribuzioni.

Sarà sufficiente a questo fine richiamare il precedente specifico dall'ordinanza n. 17 del 1978 della Corte costituzionale.

La legittimazione attiva dei ricorrenti appare fondata da un lato sul riconoscimento - effettuato dall'articolo 75 Cost. - che la frazione del corpo elettorale, non inferiore a 500.000 elettori, firmatari di una richiesta referendaria è titolare dell'esercizio di una pubblica funzione costituzionalmente rilevante e garantita; ossia che quale »struttura organizzativa del corpo elettorale titolare di un autonomo potere di volontà , è un "soggetto" di rilevanza costituzionale, dotato di autonoma competenza; dall'altro lato, dalla considerazione che la competenza a dichiarare la volontà di tale »potere spetta certamente ai promotori, come è reso evidente dal fatto che la legge n 352 del 1970 attribuisce e riconosce sempre e soltanto ai promotori i poteri di iniziativa, intervento e difesa degli interessi dei sottoscrittori in relazione alla richiesta di "referendum" (cfr. artt. 28, 32, 33).

La legittimazione passiva dell'Ufficio Centrale per il "Referendum" appare fondata sull'assorbente considerazione che ad esso solo compete di decidere definitivamente sulla legittimità delle richieste (art. 32 legge n. 352 del 1970).

Presupposto oggettivo. - I ricorrenti lamentano che l'Ufficio Centrale per il "referendum" abbia illegittimamente dichiarato le operazioni relative al "referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549, comma 2, 550 551, 552, 554, 555 c.p. in conseguenza dell'entrata in vigore della legge 22 maggio 1978 n. 194 male interpretando e peggio applicando - per i motivi che appresso indichiamo - l'articolo 39 legge 25 maggio 1970 n. 352 anche nella »lettura datagli dalla sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 1978; e che in tal modo ha violato l'interesse costituzionalmente protetto dei promotori del "referendum", incidendo ed invadendo la sfera di poteri a questi riservati.

Oggetti e motivi. - 1. L'Ufficio Centrale ha condotto il raffronto fra la disciplina complessiva dettata nel titolo X del libro II c.p. e gli articoli da 17 a 22 legge 22 maggio 1978 n. 194, al fine di accertare se vi sia stata una modificazione dei principi ispiratori; ed ha ritenuto che tale modificazione sussiste, poiché la disciplina già dettata nel codice penale sarebbe ispirata all'intento di salvaguardare l'interesse demografico della nazione, mentre la nuova disciplina sarebbe caratterizzata dalla legalizzazione entro certi limiti dell'aborto.

Correttamente, poi, è sceso all'esame specifico del trattamento - nelle due discipline - dell'aborto su donna consenziente.

Sia la normativa contenuta nelle norme abrogate dal codice penale, sia quella della legge n. 194 del 1978 ruotano infatti attorno al problema dell'aborto su donna consenziente, che per la sua preminenza concettuale e politico-criminale costituisce senz'altro il dato fondamentale e l'elemento più precipuamente caratterizzante delle due discipline; senza tener conto che la richiesta di "referendum" si appuntava essenzialmente, se non esclusivamente su tale questione.

Orbene, secondo l'Ufficio Centrale, il problema dell'aborto su donna consenziente ha ricevuto nella nuova normativa un trattamento ed una disciplina sostanzialmente nuovi e diversi dai precedenti.

Per una corretta impostazione del problema occorre tener presente che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1975, aveva ritenuto la illegittimità dell'articolo 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza possa essere interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.

Con tale sentenza è stato così modificata non solo la lettera dell'articolo 546 c.p. - introducendovi distinzioni e limitazioni che prima non sussistevano - ma si è in realtà modificato lo stesso angolo visuale del legislatore, sono mutati gli stessi principi che reggevano l'intera materia.

Come lo stesso Ufficio Centrale ebbe ad affermare con l'ordinanza 7 novembre 1975 la richiesta di "referendum" investiva non già la disciplina dell'aborto originariamente dettata, ma bensì quella che risultava dall'intervento modificativo della Corte costituzionale.

Sicché, il raffronto fra vecchia e nuova disciplina andava condotto non tanto fra le norme del codice penale e quelle della legge n. 194 del 1978, quanto fra queste e le norme del codice penale quali risultanti dall'intervento della Corte sia dal punto di vista precettivo che dei principi ispiratori.

Se così avesse fatto, l'Ufficio Centrale non avrebbe potuto non rilevare che i principi ispiratori sia della vecchia disciplina che della nuova sono in realtà omologhi, se non identici: in ambedue le discipline, ricorre il reato ogni qual volta si procede alla interruzione della gravidanza su donna consenziente per sola libera scelta, sia che non ricorrano i pericoli di danno enunciati nella sentenza n. 27 del 1975, sia che tali circostanze recriminanti non risultino da accertamento medico.

In ambedue i casi, l'aborto su donna consenziente è considerato reato, e gli elementi costitutivi di esso sono identici sia per la vecchia che per la nuova disciplina.

Al riguardo non si può d'altro canto tacere il fatto che tutti i lavori preparatori della nuova normativa sono improntati, oltreché alla realizzazione dell'intento di »scongiurare il "referendum", finalità che certo non è utile al fine di determinare la natura e la portata della legge, alla realizzazione del proposito di attuazione e regolamentazione dei concetti e dei principi statuiti dalla Corte costituzionale, proposito riaffermato da tutte le parti politiche sostenitrici della proposta di legge.

Che poi, per la donna consenziente sia prevista una pena diversa da quella prevista per chi opera l'aborto che anche per questi la pena sia stata ridotta nella previsione edittale, nulla immuta rispetto alla configurazione del reato e alla sussistenza di identica fattispecie legale obiettiva.

2. Un ulteriore argomento a sostegno della tesi della sostanziale uniformità dei principi ispiratori delle due discipline è desumibile dalla disposizione transitoria di cui all'articolo 22 legge n. 194 del 1978 secondo la quale, salvo che sia pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente, chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della presente legge, "se il giudice accerta che sussistono le condizioni previste dagli articoli 4 e 6".

Appare con tutta evidenza, ove la norma di cui all'articolo 546, nella parte vigente dopo la sentenza della Corte costituzionale fosse stata abrogata, la norma transitoria non avrebbe ragion d'essere (ed infatti non è stata posta per le altre disposizioni penali contenute nel titolo X) in quanto si sarebbe applicata la disposizione generale di cui all'articolo 2, I cpv. c.p. (successione di leggi penali) in virtù della quale nessuno può essere punito per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce reato.

Dobbiamo allora concludere che l'articolo 546 c.p. non è stato abrogato ed è tutt'ora vigente anche formalmente almeno in relazione a tutti gli eventi anteriori all'entrata in vigore della nuova legge, mentre per quanto riguarda i fatti successivi all'entrata in vigore della nuova normativa, esso viene ad essere sostituito da disposizioni che ne riproducono il contenuto e gli effetti così come essi dovranno intendersi vigenti all'atto della sottoposizione a "referendum" della norma stessa con le interpretazioni e i limiti di applicabilità determinati dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale. Almeno sotto questo profilo non può negarsi che la richiesta referendaria conservi una sua perdurante efficacia.

Né può sostenersi che quest'ultima argomentazione è rilevante soltanto nell'ottica di un confronto fra contenuti precettivi, mentre nella specie il confronto deve essere sviluppato sui principi ispiratori.

In realtà, infatti, le due discipline prese in esame, a parte questioni di marginale rilevanza, vertono proprio e pressoché esclusivamente sui problemi dell'aborto di donna non consenziente e dell'aborto di donna consenziente.

3. Da ultimo va rilevato che l'Ufficio Centrale ha liquidato con motivazione addirittura semplicistica le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai ricorrenti, sia pure riconoscendone la indubbia rilevanza.

4. Alla luce di tali considerazioni e deduzioni, appare evidente che l'Ufficio Centrale - anziché dichiarare cessate le operazioni referendarie - avrebbe dovuto dichiarare che queste dovevano proseguire, modificando il quesito e trasferendolo all'articolo 19 legge 22 maggio 1978 n. 194 ed all'articolo 22 stessa legge in relazione all'articolo 546 c.p.

Per questi motivi il Comitato Promotore della richiesta di "referendum" sugli articoli 546, 547, 548, 549 comma 2, 550, 551, 552, 554, 555 c.p., in persona e rappresentato come in atti;

chiede che la Ecc.ma Corte costituzionale, in accoglimento del presente ricorso voglia dichiarare che all'Ufficio Centrale per il "referendum" presso la Corte suprema di Cassazione non è attribuito il potere di dichiarare cessate le operazioni di cui alla richiesta di "referendum" popolare riguardante gli articoli 546, 547, 548, 549 comma 2, 550, 551, 552, 554 e 555 c.p., nei limiti e per i motivi enunciati, e voglia conseguentemente annullare l'ordinanza dell'Ufficio Centrale per il "referendum" depositata in data 26 maggio 1978.

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Corte costituzionale

Ordinanza 8 gennaio 1979, n. 1

La Corte costituzionale ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da Maria Luisa Galli, Maria Luisa Zardini, Esperia Volpe, in nome e per conto del comitato promotore del »"referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554, 555 del codice penale, emanato con R.D. 10 ottobre 1930, n. 1398 , quale rappresentante dei firmatari della relativa richiesta, pervenuto in cancelleria il 23 ottobre 1978 ed iscritto al n. 14 del registro a.r. 1978, per conflitto di attribuzioni sorto a seguito dell'ordinanza dell'Ufficio centrale per il "referendum" presso la Corte di cassazione, depositata nella cancelleria della Corte di cassazione il 26 maggio 1978, con la quale si dichiara che »le operazioni di cui alla richiesta di "referendum" popolare, presentata il 12 luglio 1975 per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, secondo comma, 553, 554, 555 codice penale non hanno più corso .

Udito nella camera di consiglio del 20 novembre 1978 il Giudice relatore Antonio La Pergola.

Ritenuto che il Comitato promotore del "referendum" abrogativo ha, in rappresentanza dei firmatari della relativa richiesta, sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dell'Ufficio centrale per il "referendum" presso la Corte di cassazione, deducendo, con ricorso in data 23 ottobre 1978: che, nel corso della procedura conseguente alla presentazione della anzidetta richiesta di "referendum", il Parlamento ha, con l'articolo 22 della legge 25 maggio 1978, n. 194 - »Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza - abrogato l'intero titolo X del codice penale, in cui si trovano tutte le norme, delle quali era stata chiesta l'abrogazione popolare; che nella specie vengono in considerazione i criteri enunciati da questa Corte nelle sentenze nn. 68 e 69 del 1978: e precisamente, vertendo la richiesta di "referendum" sull'abrogazione di un organico complesso di norme, che l'Ufficio centrale era tenuto, prima di dichiarare cessate le relative operazioni ai sensi de

ll'articolo 39 della legge n. 352 del 1970, a valutare se la nuova disciplina lasciasse sostanzialmente inalterati i principi informatori della preesistente legislazione oggetto del quesito referendario, ed in questa evenienza a disporre che il "referendum" fosse trasferito alla normazione sopravvenuta, che l'Ufficio centrale avrebbe erroneamente applicato l'articolo 39 della legge n. 352 del 1970 al caso in esame, ritenendo che la legge 25 maggio 1978 abbia modificato i principi informatori delle norme contemplate dalla richiesta di abrogazione popolare, laddove, alla stregua dei canoni ermeneutici indicati nelle citate sentenze di questa Corte, esso avrebbe dovuto ritenere il contrario; che pertanto l'ordinanza dell'Ufficio centrale, depositata il 26 maggio 1978, avrebbe col dichiarare cessate le operazioni referendarie, violato l'interesse costituzionalmente protetto dei promotori del "referendum", ed invaso la sfera a questi riservata.

Ritenuto che dai ricorrenti viene chiesto a questa Corte di dichiarare che all'Ufficio centrale non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni di cui alla richiesta di "referendum" riguardante gli articoli 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554 e 555 del codice penale, e di annullare conseguentemente l'ordinanza dell'Ufficio centrale del "referendum" depositata in data 26 maggio 1978.

Considerato che a norma dell'articolo 37, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953, la Corte è in questa fase chiamata a deliberare senza contraddittorio se il ricorso sia ammissibile, in quanto esista »la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza , rimanendo impregiudicata, ove la pronuncia sia di ammissibilità, la facoltà delle parti di proporre, nel corso ulteriore del giudizio, anche su questo punto, istanze ed eccezioni.

Che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per determinare se vi sia materia di conflitto deve accertarsi unicamente, in via di prima deliberazione la concorrenza dei requisiti di ordine soggettivo ed oggettivo prescritti dal primo comma dell'articolo 37 della legge n. 87 del 1953, e cioè se il conflitto sorga fra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, e per la delimitazione della sfera di attribuzioni, determinata, per i vari poteri, da norme costituzionali.

Che, dal punto di vista soggettivo - come questa Corte ha in altre pronunzie affermato (ordinanza n. 17 e sentenza n. 69 del 1978) - la frazione del corpo elettorale, identificata dall'articolo 75 della Costituzione in almeno cinquecentomila elettori firmatari di una richiesta di "referendum" abrogativo, è, in virtù delle funzioni ad essa attribuite e garantite, assimilabile ad un potere dello Stato, e così legittimata a sollevare conflitto di attribuzione ai sensi dell'articolo 134 Cost. e 37 della legge 87 del 1953; che competenti a dichiarare in questa sede le volontà dei firmatari della richiesta devono considerarsi i promotori ed, in quanto sono anche i promotori, i presentatori della richiesta stessa; che d'altra parte sussiste la legittimazione passiva dell'Ufficio centrale presso la Corte di cassazione; in quanto organo investito, in via esclusiva e definitiva, del potere sia di decidere sulla legittimità delle richieste di "referendum" abrogativo, sia di disporre la cessazione delle relative operazi

oni, nei limiti previsti, secondo la sentenza n. 68 del 1978, nell'articolo 39 della legge 352 del 1970.

Che, sotto il profilo oggettivo, il conflitto sollevato attiene alla sfera di applicazione dell'istituto del "referendum" abrogativo configurato dal testo costituzionale, essendo stato dedotto dai ricorrenti che l'Ufficio centrale non aveva il potere di disporre la cessazione delle operazioni relative al "referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554, 555 codice penale: e cioè sull'assunto che ai promotori del "referendum" è garantita la funzione di provocare lo svolgimento della consultazione popolare anche con riguardo alle norme sopravvenute nelle more della procedura, le quali risultino ispirate agli stessi principi informatori delle norme inizialmente indicate nella richiesta di "referendum".

Per questi motivi la Corte costituzionale

riservato ogni definitivo giudizio circa l'ammissibilità e circa il merito del ricorso;

dichiara ammissibile, ai sensi dell'articolo 37 della legge n. 87 del 1953 il ricorso per conflitto di attribuzione di cui in epigrafe.

Dispone:

a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione al comitato ricorrente, nelle persone di tutti i suoi componenti come indicato in ricorso, della presente ordinanza;

b) che, a cura del comitato ricorrente il ricorso e la presente ordinanza siano notificati all'Ufficio centrale per il "referendum" presso la Corte di cassazione, entro 20 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione di cui sopra.

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Corte costituzionale

Sentenza 20 marzo 1980, n. 30

La Corte costituzionale ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da Galli Maria Luisa, Zardini Maria Luisa e Volpe Esperia in nome e per conto del Comitato promotore del "referendum" abrogativo degli articoli 546 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554 e 555 del codice penale, ricorso depositato in Cancelleria il 31 gennaio 1979 ed iscritto al n. 3 del registro 1979, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell'ordinanza 24 maggio 1978 dell'Ufficio centrale per il "referendum" presso la Corte di cassazione, che ha dichiarato non aver più corso le operazioni di cui alla richiesta di "referendum" popolare presentata il 12 luglio 1975, riguardante i suddetti articoli del codice penale.

Vista l'ordinanza n. 1 dell'8 gennaio 1979, con la quale questa Corte ha dichiarato ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione di cui sopra;

udito nell'udienza pubblica del 6 aprile 1979 il Giudice relatore Antonio La Pergola;

uditi gli avvocati Corrado De Martini e Mauro Mellini per Galli Maria Luisa, Zardini Maria Luisa e Volpe Esperia.

"Ritenuto in fatto":

1. - Il presente conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato è sollevato da Maria Luisa Galli, Maria Luisa Zardini ed Esperia Volpe, in rappresentanza dei promotori del "referendum" per l'abrogazione popolare degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 554, e 555 del codice penale.`

2. - La richiesta del detto "referendum" era stata presentata il 12 luglio 1975: l'Ufficio centrale, con ordinanza 7 novembre 1975, e la Corte con sentenza 18 dicembre 1975, ne dichiaravano, rispettivamente, ai sensi dell'articolo 32 legge n. 352 del 25 maggio 1970 e 33 della stessa legge e dell'articolo 2 l. cost. 11 marzo 1953, n. 1, la legittimità e la ammissibilità; questa Corte rilevava peraltro di avere con precedenti pronunzie dichiarato la illegittimità costituzionale dell'articolo 553, comma primo, (sentenza n. 49 del 1971) e la illegittimità costituzionale parziale dell'articolo 546 del codice penale, l'una e l'altra di queste norme figurando fra quelle per le quali era stata promossa la consultazione elettorale; l'Ufficio centrale, riesaminate in conseguenza le richieste dei promotori, disponeva con ordinanza 7 gennaio 1976, la cessazione delle operazioni referendarie, limitatamente all'articolo 553 c.p.

3 - Essendo sopravvenuto lo scioglimento anticipato delle camere, il "referendum" sulle rimanenti disposizioni del codice penale doveva essere rinviato fino al compimento del termine - in punto di fatto scaduto nel 1978 - quale è appositamente previsto dall'articolo 34, commi secondo e terzo della legge n. 352 del 1970. Il 30 giugno 1977 venivano intanto presentate altre otto richieste di abrogazione popolare. Di esse tutte l'Ufficio centrale dichiarava successivamente la legittimità, con la sola eccezione della richiesta riguardante l'articolo 5 legge 22 maggio 1975, n. 152, che veniva escluso dal "referendum", in quanto sostituito dall'articolo 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533. Dal canto suo, con sentenza n. 16 del 1978, la Corte dichiarava ammissibili quattro delle otto richieste referendarie sopra menzionate, incluse quelle concernenti la legge n 152 del 1975: dal quesito referendario rimaneva tuttavia eccettuato l'articolo 5 di quest'ultima legge, come aveva disposto la citata ordinanza dell'Ufficio

centrale. In riferimento a tale ordinanza, i promotori del "referendum" abrogativo della legge n. 152 del 1975, proponevano quindi, il 7 gennaio 1978, ricorso per conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato; il conflitto era da questa Corte dichiarato ammissibile con ordinanza n. 17 del 1978. Nel corso del giudizio così instaurato, la Corte sollevava d'ufficio, con ordinanza n. 44 del 1978, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 39 della legge n. 352 del 1970, per possibile contrasto con l'articolo 75 Cost.; la questione veniva successivamente decisa con sentenza n. 68 del 1978. Tale pronunzia dichiara l'illegittimità dell'articolo 39, in quanto esso dispone che l'abrogazione delle leggi degli atti legislativi, delle singole disposizioni, a cui si riferisce il "referendum", implichi in ogni caso la cessazione delle relative operazioni. Nella stessa decisione sono enunciati i criteri discretivi che soccorrono l'Ufficio centrale nell'applicare il disposto della norma in questione; criteri

che il legislatore aveva, appunto, mancato di stabilire. Lo svolgimento della consultazione popolare resta necessariamente precluso - è stato affermato in quel giudizio - soltanto quando le norme contemplate dalla richiesta referendaria siano state espressamente abrogate, e l'abrogazione non venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia. Diversamente, l'Ufficio centrale è tenuto ad accertare, prima di dichiarare cessate le operazioni in corso, che la nuova normativa abbia modificato i principi ispiratori della legge dell'atto avente forza di legge, (comunque, dell'intero ed organico corpo) della disciplina preesistente, ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare. Dove non ricorrano siffatti estremi, si rende necessaria una diversa soluzione. I principi costituzionali - è stato al riguardo precisato - esigono da un canto che l'abrogazione non possa non dispiegare i suoi effetti, dall'altro che non vada frustrata l'iniziat

iva assunta dai promotori del "referendum" con riguardo alla legislazione preesistente. L'Ufficio centrale dovrà, allora, trasferire dalla normazione anteriore a quella sopravvenuta il quesito referendario che è sottoposto agli elettori.

Il conflitto di attribuzione instaurato dai promotori del "referendum" veniva conseguentemente deciso con sentenza n. 69 del 1978: l'Ufficio centrale, ha statuito la Corte, non è costituzionalmente investito del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie senza prima aver accertato, secondo i criteri sopra descritti, se le leggi, gli atti legislativi o le singole disposizioni, cui il "referendum" si riferisce, risultino o no sostanzialmente modificati dalla normazione "medio tempore" intervenuta.

4. - Nel ricorso introduttivo del presente giudizio, i promotori del "referendum" deducono che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato alla specie i canoni ermeneutici indicati nelle suddette pronunzie della Corte. L'organo decidente avrebbe, altresì, erroneamente assunto che la legge n. 194 del 1978 sull'interruzione volontaria della gravidanza abbia spiegato, nei confronti della preesistente disciplina dell'aborto di donna consenziente dettata dal codice penale - e per la quale era stato richiesto il "referendum" - quell'effetto abrogativo che è necessario presupposto dall'ulteriore effetto preclusivo del "referendum", qual è previsto nell'articolo 39 legge n. 352 del 1970. A tale erroneo procedimento interpretativo sarebbe conseguita l'ordinanza che è impugnata con il ricorso per asserita invasione della sfera dei promotori. Il conflitto prospettato alla Corte sorgerebbe dunque, con riguardo alla sfera di applicazione del "referendum", fra la frazione del corpo elettorale, che ha promosso il "referen

dum" e l'Ufficio centrale, che ha disposto la cessazione delle relative operazioni. Con ordinanza n. 1 del 1979 questa Corte ha in via di prima e sommaria deliberazione dichiarata l'ammissibilità del ricorso proposto. I ricorrenti hanno curato gli adempimenti di rito.

5. - In successive memorie, e all'udienza pubblica del 6 aprile 1979, la difesa dei promotori del "referendum" ha insistito nelle conclusioni già prese per dedurre l'ammissibilità e la fondatezza del ricorso. I ricorrenti eccepiscono altresì in via pregiudiziale l'incostituzionalità, vuoi dell'intera legge n. 194 del 1978, per presunto contrasto con gli articoli 1, comma secondo, e 75 Cost. vuoi - in riferimento, oltre che ai citati precetti all'articolo 48 Cost. - dell'articolo 39 legge n. 32 del 1970. L'una e l'altra questione di legittimità costituzionale sono prospettate sul presupposto che, una volta indetto il "referendum", il potere di abrogare o modificare le norme, investite dalla relativa richiesta, sia sottratta al monopolio del parlamento e restituita al popolo: al quale, si dice, sarebbe così garantito il concreto e diretto esercizio della sovranità che ad esso costituzionalmente appartiene, non importa se in contrasto con gli orientamenti espressi dalla maggioranza parlamentare. La potestà altr

imenti devoluta all'organo legislativo incontrerebbe qui un limite di ordine temporale; la legge n. 194 del 1978 - in quanto emanata in ispregio a tal limite dopo che il "referendum" sulle norme da essa poste era stato indetto, e allo scopo prevalente di precluderne lo svolgimento - risulterebbe viziata da eccesso di potere e frode alla Costituzione. Nel merito, si afferma che la disciplina dell'aborto di donna consenziente, posta dal codice penale, così come modificata dalla sentenza della Corte, con la quale ne è stata dichiarata l'illegittimità parziale (sentenza n. 27 del 1975) rispondeva già, sostanzialmente, agli stessi principi che hanno più di recente informato la legge sull'interruzione volontaria della gravidanza. Si osserva, inoltre, che quest'ultima legge dispone per un verso - con l'articolo 22, comma primo - l'abrogazione dell'intero titolo decimo del codice penale, ma per l'altro contiene, all'articolo 22, ultimo comma, un'espressa statuizione, in forza della quale deve ritenersi che l'articol

o 546 c.p. »aborto di donna consenziente e l'articolo 549 »morte o lesione della donna siano mantenuti in vigore con riguardo ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della nuova legge. L'articolo 22, ultimo comma, è infatti così testualmente formulato: »Salvo che sia stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per reato di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell'entrata in vigore della nuova legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli articoli 4 e 6 (della legge n. 194) . Ove invece si ritenesse - proseguono i ricorrenti - che la disposizione testé citata configuri altro illecito penale, distinto dai reati previsti sia dall'articolo 546 del codice penale, sia dall'articolo 19 della legge n. 194, ne seguirebbe che, in base ad essa, vengono penalmente sanzionati fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge che li considera come reati: e allora la Corte dovrebbe sollevare innanzi a se stessa la questione di

legittimità costituzionale di detta norma, in riferimento a, disposto dell'articolo 25 Cost. I ricorrenti deducono dunque che il "referendum", del quale l'Ufficio centrale avrebbe indebitamente impedito lo svolgimento, debba invece avere luogo con riguardo all'articolo 19 della legge n. 194 del 1978. Nel relativo quesito andrebbero incluse le norme del codice penale 546 e 549, comma secondo, delle quali si assume la permanenza in vigore, nonché l'articolo 22, comma terzo, della legge n. 194, da cui si fa appunto discendere la perdurante efficacia delle prime. Ciò sempre sull'assunto che la norma della nuova legge la quale sanziona penalmente l'interruzione volontaria della gravidanza, lasci sostanzialmente inalterati i principi ispiratori delle norme incriminatrici dell'aborto di donna consenziente, contenute nel codice penale.

Alla Corte è pertanto chiesto di: »in via preliminare ritenere l'illegittimità costituzionale della legge 22 maggio 1978 n. 194 perché viziata per eccesso di potere, frode costituzionale, e comunque per contrasto con gli articoli 1, secondo comma, e 75 Cost.; nel merito, dichiarare che all'Ufficio centrale per il "referendum" presso la Corte di Cassazione non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni del "referendum" abrogativo degli articoli 546, 547, 548, 549, secondo comma, 550, 551, 552, 554, 555 del codice penale r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398, dichiarando al tempo stesso - previa declaratoria di illegittimità costituzionale dell'articolo 22 legge 22 maggio 1978, n. 194, per contrasto con l'articolo 25, secondo comma, Cost. - che la richiesta di "referendum" deve essere limitata agli articoli 546 e 549, secondo comma, codice penale ed estesa all'articolo 19 legge 22 maggio 1978, n. 194; ovvero in subordine dichiarando che la richiesta di "referendum" deve essere limitata agli arti

coli 546 e 549, secondo comma, codice penale ed estesa agli articoli 19 e 22 legge 22 maggio 1978, n. 194; in ogni caso, annullando conseguentemente l'ordinanza dell'Ufficio centrale in data 26 maggio 1978 , (Impugnata con il ricorso).

"Considerato in diritto":

1. - Con il ricorso in epigrafe tre dei promotori del "referendum" per l'abrogazione degli articoli 546, 547, 548, 549, comma secondo, 550, 551, 552, 554 e 555 del codice penale, hanno, in rappresentanza dei sottoscrittori della relativa richiesta, sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dell'Ufficio centrale per il "referendum" presso la Corte di cassazione. I ricorrenti impugnano l'ordinanza con la quale quell'Ufficio ex articolo 39 della legge n. 35, del 1970, aveva disposto la cessazione delle operazioni connesse con detta richiesta. Con ordinanza n. 1 del 1979, la Corte ha ritenuto la concorrenza dei requisiti prescritti dal primo comma dell'articolo 37 della legge n. 87 del 1953 perché possa aversi conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Tale pronunzia è stata resa, tuttavia, in linea di prima e sommaria delibazione riservato ogni definitivo giudizio circa l'ammissibilità ed il merito del ricorso.

Rimane, dunque, anzitutto da accertare - definitivamente, in questa sede - se il ricorso in esame sia ammissibile. Si assume dai ricorrenti che i] conflitto riguardi la sfera di applicazione dell'istituto del "referendum", configurato dal testo costituzionale, ed insorga tra la frazione del corpo elettorale la quale ha nel nostro caso promosso il "referendum" e l'Ufficio centrale che ha, dal canto suo, disposto la cessazione delle relative operazioni; si deduce infatti che detto organo ha con l'ordinanza impugnata invaso la sfera garantita ai promotori del "referendum", e leso il loro interesse, costituzionalmente protetto, allo svolgimento della consultazione popolare, si chiede pertanto alla Corte di dichiarare che all'Ufficio centrale non è attribuito il potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie, e di annullare in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. La Corte ritiene di doversi fermare a considerare il prospettato conflitto sotto il profilo afferente al possibile oggetto

della controversia.

2. - Per prima cosa, giova richiamare - in quanto esso viene in rilievo nella specie, com'è di seguito spiegato - il sistema delle disposizioni emanate con la legge 25 maggio 1970, n. 352 (»Norme sui "referendum" previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo ). Ai sensi dell'articolo 32 della legge citata, l'Ufficio centrale esamina tutte le richieste referendarie »allo scopo di accertare che siano conformi alle norme di legge : cioè alle norme, poste con legge ordinaria, che governano la procedura conseguente alla iniziativa del "referendum" abrogativo; il successivo giudizio sull'ammissibilità è invece riservato alla cognizione di questa Corte (ai sensi dell'art. 2 l. cost. 11 marzo 1953, n. 1, e dell'art. 33 della legge n. 352), ed esige che la richiesta referendaria, una volta dichiarata legittima dall'Ufficio centrale, sia esaminata alla stregua della Costituzione, ed in particolare della norma (art. 75, comma secondo Cost.), la quale individua le categorie di leggi, o di atti av

enti forza di legge eccettuate dal regime dell'abrogazione popolare. Nel citato articolo 32 sono poi puntualmente previste le attribuzioni dell'Ufficio centrale nel corso della procedura: esso si pronunzia, in ogni caso, con ordinanza, comunicata e notificata a norma dell'articolo 13 della stessa legge n. 352. I presentatori della richiesta referendaria, o i delegati o i rappresentanti dei promotori (cfr. artt. 9, comma primo, 19, comma secondo, della legge n. 352) hanno facoltà di produrre memorie o deduzioni. Dopo di che, l'Ufficio centrale decide in via definitiva, ex articolo 32, ultimo comma, sulla legittimità di tutte le richieste depositate.

3. - Si colloca nel quadro della disciplina sopra descritta anche il potere, attribuito all'Ufficio centrale ex articolo 39 della legge n. 352.

»Se prima della data di svolgimento del "referendum" - dispone testualmente il citato articolo - »la legge, o l'atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di esse, cui il "referendum" si riferisce, siano state abrogate, l'Ufficio centrale per il "referendum" costituito presso la Corte di cassazione dichiara che le operazioni relative non hanno più corso . Di questa disposizione, com'è detto in narrativa, la Corte ha - con sentenza n. 68 del 1978, e nei limiti ivi precisati - dichiarato l'illegittimità costituzionale. Nella stessa pronunzia sono enunciati i criteri che qui soccorrono all'Ufficio centrale nel decidere, ma che il legislatore aveva omesso di adottare. Le operazioni referendarie devono essere in ogni caso fatte cessare - ha in proposito avvertito la Corte - quando le norme, alle quali esse si riferiscono, siano state rimosse col solo mezzo tecnico dell'abrogazione espressa. Dove l'abrogazione sia invece accompagnata da nuova disciplina, sostitutiva delle norme inizialmente contemplate

dalla richiesta referendaria, l'Ufficio centrale decide diversamente, secondo i casi: deve disporre la cessazione delle operazioni, se accerta che la più recente disciplina abbia modificato i principi essenziali dell'intero atto legislativo (comunque, dell'organico corpo normativo), ovvero gli essenziali contenuti normativi dei singoli precetti, dei quali sia stata richiesta l'abrogazione popolare; altrimenti, esso deve disporre che il "referendum" abbia luogo, trasferendo tuttavia il quesito, sul quale sono chiamati a pronunziarsi gli elettori, dalle norme poste in precedenza alle altre, che le hanno sostituite (ma non ne hanno, qui, modificato principi ispiratori o singoli precetti). In quest'ultima evenienza, è stato infatti ritenuto, il successivo atto del legislatore produce pur sempre il caratteristico effetto dell'abrogazione: non produce, però, l'ulteriore effetto, che vulnererebbe il disposto dell'articolo 75 Cost., di impedire lo svolgimento della consultazione popolare già promossa con riguardo a

lla legislazione preesistente.

Ora, senza una simile pronunzia, il disposto dell'articolo 39 avrebbe - indistintamente in ogni sopravvenienza del fenomeno abrogativo da esso considerato - implicato una corrispondente compressione della sfera di attuazione di un fondamentale istituto del nostro ordinamento, qual è il "referendum". La Corte ha stabilito come il congegno di detta norma debba operare, e ne ha rimesso l'applicazione al motivato apprezzamento dell'Ufficio centrale. Ciò - è bene ricordare - proprio al fine di assicurare il rispetto della volontà manifestata dalla frazione del corpo elettorale che ha promosso la consultazione referendaria, e in tutto l'ambito in cui le attribuzioni a questa riconosciute risultano costituzionalmente protette. Ad analoga esigenza risponde, poi, il requisito, enucleato con la citata decisione dal sistema della legge n. 352, che l'Ufficio centrale decida "ex" articolo 39 solo dopo aver sentito chi avanti ad esso rappresenta i promotori del "referendum": per questa via è estesa al nostro caso la garan

zia procedurale, che troviamo sancita nell'articolo 32 della stessa legge.

Le considerazioni testé esposte trovano, ancora, accoglimento e sviluppo nella sentenza n. 69 del 1978, che dirime un precedente conflitto di attribuzione, sollevato dai promotori di altro "referendum" abrogativo nei confronti dell'Ufficio centrale. Il potere che l'articolo 39 configura - è stato affermato in quel giudizio - spetta all'Ufficio centrale, se ed in quanto esso abbia previamente accertato, secondo la sentenza n. 68 del 1978, che ricorrono gli estremi per disporre la cessazione delle operazioni in corso, ed abbia escluso per converso che il "referendum" vada trasferito dalle norme preesistenti alle nuove. Esaurite le indagini ad esso in proposito riservate, l'Ufficio centrale è d'altra parte investito del potere, come previsto dalla legge, in piena conformità dei principi costituzionali. Il che conferma che questa sua attribuzione, così configurata, sorge necessariamente entro i limiti posti a salvaguardia della sfera riconosciuta ai promotori del "referendum".

4. - Delle precedenti sentenze della Corte occorre tener conto nell'esame della specie. I ricorrenti lamentano infatti che l'Ufficio centrale ha erroneamente applicato al caso attuale i canoni ermeneutici in esse indicati. L'organo decidente, si afferma, ha ravvisato una sostanziale diversità fra i principi che ispirano la disciplina dell'aborto di donna consenziente posta dal codice penale per la quale è stato richiesto il "referendum", ed il successivo regime dell'interruzione volontaria della gravidanza, introdotto dalla legge 22 maggio 1978 n. 194 (»Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza ): laddove, si soggiunge, esso avrebbe dovuto ritenere il contrario. L'articolo 22 della legge citata, si osserva poi, dispone sì, per un verso, al comma primo, l'abrogazione espressa dell'intero titolo X del codice penale, ma per l'altro, all'ultimo comma, mantiene ancora in vigore l'articolo 546 (aborto di donna consenziente) nonché l'articolo 549, secondo comma (mor

te o lesione della donna) del codice penale, con riguardo ai fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore della stessa legge n. 194. L'Ufficio centrale sarebbe quindi, anche qui, incorso in errore, ritenendo che la nuova legge abbia nei confronti di dette norme del codice, dispiegato quell'effetto abrogativo, ai quale l'ulteriore effetto impeditivo della consultazione referendaria è logicamente subordinato.

All'interpretazione denunziata come erronea sarebbe infine conseguita la decisione che, col precludere il ricorso alle urne, si assume abbia invaso la sfera, e leso l'interesse dei ricorrenti.

Ma con tutto ciò non si contesta - anzi, si presuppone - che l'Ufficio centrale abbia adempiuto alle indagini, dalle quali ogni sua decisione "ex" articolo 39 deve essere preceduta, ed abbia motivato in conseguenza l'ordinanza impugnata con il ricorso. Non si contesta, nemmeno, che prima di decidere esso abbia sentito i promotori del "referendum". Pacificamente, dunque, sussistono i presupposti, in presenza dei quali l'attribuzione del potere qui considerato si concreta, in capo all'Ufficio centrale, precisamente come esige la sentenza n. 69 del 1978. L'attribuzione ha il suo pieno titolo giustificativo proprio in quel che risulta dalle stesse deduzioni dei ricorrenti: l'Ufficio centrale ha valutato la disciplina sopravvenuta in rapporto alle norme che formavano oggetto della richiesta di "referendum"; siffatta indagine - si deve aggiungere - è evidentemente servita a stabilire non soltanto se fra l'una e l'altra normativa vi fosse corrispondenza di principi ispiratori, ma, anche - e in primo luogo - se rico

rresse l'ipotesi dell'abrogazione configurata dall'articolo 39, e con quali effetti temporali. Così atteggiandosi la specie, va allora escluso che la controversia prospettata alla Corte verta sulla titolarità - sull'appartenenza all'Ufficio centrale, appunto - del potere di disporre la cessazione delle operazioni referendarie; potere che peraltro, come si è detto, ha sicuro fondamento nella Costituzione.

Resta il fatto che i ricorrenti denunziano comunque l'invasione della propria sfera, e censurano, a questo riguardo, il modo come l'Ufficio centrale avrebbe deciso. Ma vale in proposito un duplice e concorrente ordine di osservazioni.

Da un lato, siamo di fronte a un potere che si è nella specie esplicato in base ai criteri appositamente stabiliti dalla Corte per tutelare la sfera dei promotori: e che pertanto, ai fini del presente giudizio, questa stessa sfera non può invadere, o ledere altrimenti.

D'altro lato, entro la sfera delle proprie attribuzioni, l'Ufficio centrale è investito di un potere decisorio: e così decide, anche nel nostro caso, con le garanzie procedurali e nelle forme, che si connettono con la sua qualifica di organo decidente. Ad esso, in quanto tale, è dunque garantita una funzione, le cui modalità di esercizio non spetta alla Corte sindacare. Una volta che, come nella specie, si radichi il potere, riconosciuto all'Ufficio centrale, di decidere ex articolo 39, la decisione nel merito che a detto organo è riservata in via esclusiva e definitiva, non può essere censurata in questa sede. Né si può trascurare che nella specifica materia di cui ci occupiamo vige la distinzione, rilevata anche in altre pronunzie (sentenze n. 251 del 1975 e 16 del 1978), fra i compiti, rispettivamente attribuiti alla Corte e all'Ufficio centrale, di accertare la conformità delle richieste referendarie, nell'un caso ad un parametro Costituzionale, nell'altro alle norme della legge ordinaria. Ora, anche le

indagini affidate all'Ufficio centrale in sede di applicazione dell'articolo 39 involgono - come necessaria operazione dell'interprete, retta dai criteri sopra visti - sia il coordinamento sia la valutazione comparativa di norme, che si succedono nel tempo, sempre sul piano della legge ordinaria e delle fonti normative a questa equiparate: tale, però, non è la sfera in cui la Corte è abilitata ad intervenire, essa è l'altra, autonoma e particolare, del controllo di costituzionalità, che si esercita col giudizio di ammissibilità, ed è la sola, del resto, riservata alla Corte secondo il vigente ordinamento del "referendum".

La conclusione raggiunta vale a maggior ragione - anche alla luce di precedenti pronunzie (sentenza n. 289 del 1974) - se si voglia ritenere che il presente giudizio sia stato promosso attribuendo all'Ufficio centrale natura di organo giurisdizionale in senso stretto, con le conseguenze che scaturirebbero da una simile prospettazione del conflitto. Difetta comunque, per le ragioni già dette, la materia propria di un conflitto di attribuzione di cui la Corte possa conoscere: con il che resta assorbito ogni altro rilievo in ordine all'ammissibilità del ricorso. Per questi motivi la Corte costituzionale dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione indicato in epigrafe.

 
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