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Prova Radicale - 30 ottobre 1976
STORIA DI OTTO MARCE: NOVE ANNI FA A BERGAMO

SOMMARIO: Prova radicale racconta gli avvenimenti legati alle otto marce antimilitariste svoltesi a partire dal luglio 1967. Vengono messe in evidenza le resistenze degli organi di informazione, le provocazioni dei fascisti, le aggressioni dei carabinieri. Per ben tre anni l'obiettivo della marcia è Peschiera, sede del carcere militare; ogni anno si ripetono cariche e pestaggi e solo l'ottava marcia riesce a raggiungere l'obiettivo.

(PROVA RADICALE, ottobre 1976)

Nel luglio del '67 il Giornale di Bergamo accoglie la prima Marcia Antimilitarista con un titolo a cinque colonne che invita al linciaggio. Il sommario suona così: "Guidati da un anziano play-boy in blue jeans e scarpe da pezza, una banda di drogati, femministe, avanzi di galera, dissacra le cose più sacre...". Da allora la "banda" si autoconvocava ogni anno sul percorso Milano-Vicenza. Le tappe sono Vaprio d'Adda, Bergamo, Sarnico, Brescia, Desenzano, Peschiera, Verona, S. Bonifacio, Arzignano, Vicenza, concludendosi di fronte alla caserma Enderle sede del comando delle truppe americane della Nato. Capovolgendo gli slogans ai soldati americani si grida: "lasciate le armi e restate con noi", anziché "Yankee go home". Il Giornale di Bergamo ha ragione: la marcia è anche una marcia di emarginati, di giovani tra il carcere e riformatorio, avviati alla droga, sottoproletari, ma soprattutto costituisce il primo punto di collegamento di incontro, di discussione fra i vari gruppi antimilitaristi che cominciano a na

scere in tutta Italia. Anarchici, pacifisti, cristiani del dissenso, provos, hippies, radicali, nonviolenti, giovani socialisti, si ritrovano ogni anno e, con una settimana di vita in comune, di assemblea, di riflessione, di manifestazione continua, imparano a collegare le iniziative, ad uscire dal livello della sola azione di studio e di propaganda per muoversi insieme su obiettivi comuni. Si inventa anche un nuovo tipo di manifestazione, i comizi sono dibattiti aperti alla popolazione, ci sono già le chitarre, i cartelli, l'autofinanziamento, le assemblee di autogestione.

Diffidando i soldati dall'intervenire, gli ufficiali nelle caserme sono gli unici a fare una grossa pubblicità: per la prima volta in Italia le manifestazioni politiche si macchiano di grigioverde. Dopo il quinto anno si decide di cambiare percorso. L'antimilitarismo deve crescere nei luoghi sacri del militarismo, quindi a Redipuglia, ad Aviano, dove c'è la più grossa base NATO di tutta Europa, nelle terre delle servitù militari. Su questa decisione al congresso antimilitarista di Roma nel novembre del '71 ci sono grossi dissensi. C'è chi dice che è una pazzia, che Trieste è nazionalista, che tutti i friulani sono nazionalisti, che i fascisti avranno i consensi dei perbenisti, che la polizia non lo permetterà.

Invece le cose si mettono bene fin dall'inizio: Birindelli e De Lorenzo si muovono per primi chiedendo al governo d'impedire la marcia. Ma il governo non può impedire a priori il diritto costituzionale alla libertà di espressione e manifestazione e così quella risposta negativa, forse a malincuore, serve a dotare la marcia di un avallo ufficiale nei confronti delle forze di polizia locali. La minaccia della mobilitazione missina si rivela una tigre di carta: nonostante le colonne di piombo che ogni giorno "Il Secolo d'Italia" dedica agli appelli, alle proteste e alle minacce di associazioni irredentiste e combattentistiche, nonostante centinaia di manifesti, di insulte e di scritte sul percorso della marcia preparate con l'aiuto dell'esercito, i fascisti nelle loro provocazioni non superano mai la decina e, isolati dalla popolazione, devono ricorrere a casse di pomodori e di uova, lanciati sempre dall'alto, al sicuro delle loro sedi. La reazione nonviolenta dei marciatori che applaudono agli insulti e ai pom

odori recuperabili per la cena, rende ancora più evidente l'impotenza di questi sicari e il ridicolo delle loro azioni.

Quando finalmente a Udine riescono a provocare un tafferuglio, lanciandosi sulla coda del corteo, risultano chiare le intenzioni dei Carabinieri, che dopo aver consentito l'aggressione, si scagliano all'improvviso su Marco Pannella colpendolo ripetutamente alla testa col calcio dei fucili. Ma sono gli stessi funzionari di P.S. che gridando l'intervengono per impedire la persecuzione del pestaggio. Quattro giorni a contatto coi marciatori, non sono passati invano. Le contraddizioni esplodono anche fra le forze di polizia. Questore e vicequestore, commissari e funzionari sentono il bisogno di esprimere non solo "rammarico" ma "indignazione" e "nausea" per l'incidente. Nei giorni successivi il questore di Pordenone si fa assegnare uno speciale corpo di P.S. e sottrae ai Carabinieri il controllo dei marciatori.

La partecipazione alla marcia è triplicata rispetto agli scorsi anni, e ci sono delegazioni di movimenti pacifisti, svizzeri, francesi, statunitensi. Fra le varie, autorevoli adesioni, perviene anche quella della figlia di Cesare Battisti, Livia, che sottolinea con una sua lettera la necessità di commemorazioni democratiche e antimilitariste dei caduti della Grande Guerra, contrapponendole alle speculazioni fasciste a patriottarde. La partecipazione dei soldati ai comizi serali assume per la prima volta proporzioni di massa, diventa un appuntamento negli anni che seguono. La marcia diventa uno strumento anche per i comitati democratici delle caserme che nascono nel '72 e diventano più forti e numerosi negli anni che seguono. Partecipando ai comizi i soldati si possono riconoscere fra loro, spesso vengono a conoscenza lì, di un comitato nella loro caserma, scrivono in fretta i documenti, denunce, testimonianze sulla vita militare, che fanno leggere al microfono dai marciatori. Nonostante le intimidazioni, gli

ufficiali esitano a intervenire; le repressioni, i provvedimenti punitivi, quando ci sono, finiscono sulla piazza della tappa successiva della marcia. I marciatori assumono le loro responsabilità, denunciano gli ufficiali, sono in grado di fornire assistenza giuridica. In alcune caserme succede il finimondo, i volantini della marcia finiscono persino sul tavolo del colonnello.

L'obiettivo finale della marcia per ben tre anni è Peschiera. Lì sembra sia impossibile arrivare. Ogni anno, pestaggi e cariche selvagge della polizia. La settima marcia si prolunga addirittura di qualche giorno in attesa di poter accedere nella piazza del carcere. Ogni anno l'assurdo divieto del questore di Verona, mette in stato d'assedio il centro di Peschiera; centinaia e centinaia di agenti bardati a guerra bloccano gli accessi al carcere mettendo in difficoltà i cittadini e i commercianti. Sulle torrette del vecchio castello, luccicano i fucili dei tiratori scelti. Sembra che si aspetti la discesa dei lanzichenecchi. L'ottava marcia riesce finalmente a raggiungere l'obiettivo. Mentre i marciatori arrivano a Peschiera, due delegazioni di dieci persone "occupano" le sedi della questura e della prefettura di Verona. Le prime discussioni non danno alcun risultato, a parte il divertente imbarazzo della polizia che per la prima volta deve impegnarsi a buttar "fuori", anziché "dentro" i marciatori. Ma verso

il mezzogiorno il sindaco di Peschiera fa pervenire un comunicato di protesta firmato dal 90 per cento dei negozianti del paese, in cui si afferma che non i marciatori ma la polizia, reca danno e disordine alla città. Per il prefetto diventa un elemento decisivo. Il divieto cade. Si consente finalmente alla marcia di sostare mezza ora, sfilando davanti al carcere.

 
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