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Bandinelli Angiolo - 1 novembre 1976
Positività del fascismo?
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO. Analizza il problema del significato storico del fascismo, al di là delle banalità correnti, come il parallelo instaurato tra fascismo e incultura. Il fascismo fu una delle risposte "forti" alla crisi degli anni '30, quella crisi che ebbe altri suoi sbocchi nel New Deal rooseveltiano, nella pianificazione staliniana e nella Germania nazista. Analizza in particolare, e approfondisce, alcuni aspetti dell'incontro tra cultura liberale e fascismo, nonché della nascita dell'"intellettuale" organico al Potere. Il problema che si presenta in quegli anni è la crisi del "soggetto" che era stato al centro "dell'etica classica", e la sua sostituzione con l'"esser-funzione di", su cui regge la possibilità stessa di esprimersi nella società contemporanea, quando non si voglia accettare un destino di "marginalità" o di collocazioni "estremiste" (come quelle tipiche dell'arte contemporanea).

Della trasformazione dei valori, il fascismo fu una delle più alte e complete espressioni e l'a. si domanda infine, allontanandosi dal giudizio corrente, se non si possa e non si debba dire che il fascismo fu "coltissimo", esprimendo un "eccesso di cultura" nel tentativo di dare "corpo e autonoma vita" a "idee, progetti, utopie drammatiche e grandiose" in un mortale confronto con la cultura "progressista" oggi caduta, anch'essa, nella polvere della dimenticanza e dell'irrisione.

(IL POLIEDRO, periodico, Bari, novembre-dicembre 1986 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)

Lungo linee che si dimostreranno complesse, durature, di vasta portata, il fascismo non fu solo il miserabile sfruttatore, pagliaccio arroccato sull'incoltura delle sue classi dirigenti e sul cedimento morale di intellettuali piccolo borghesi in cerca di un posto al sole. Fare una lettura di questo tipo significa abbassare il fascismo al livello della commedia all'Italiana, di cui il teorico e l'interprete finisce con essere, allora, il bravo Alberto Sordi. Non vogliamo nemmeno tirar fuori una "Schuldfrage" all'Italiana, anche perché la stessa "Schuldfrage" è equivoca. Però dobbiamo riconoscere che il fascismo fu complesso dramma storico, di una sua grandezza e spessore: negli anni '30, non a caso, studiato con grande attenzione in mezzo mondo. E questa grandezza che infine ci aiuta anche a capire meglio la ricchezza del "no" che al fascismo opposero coloro che rischiarono carcere, esilio e confino.

Piaccia o meno, il fascismo espresse - con Giovanni Gentile e con Alfredo Rocco e Beneduce, ma anche con Grandi e Bottai, e persino con il primo Cantimori, con i "gufini" consenzienti e con quelli dissenzienti - una spinta giustificata rispetto al compito di organizzare lo Stato moderno secondo esigenze storiche e politiche pressanti e difficilissime, in un contesto nel quale venivano offerte poche altre risposte alla crisi dei valori e dello Stato liberali: il New Deal rooseveltiano (ma nell'ambito di un sistema economico di ben altra vitalità), i piani quinquennali staliniani e il Reich tedesco, di gran lunga più rozzo del fascismo, mentre su una linea difensiva si ponevano le democrazie europee dai sembianti conservatori e poveri di ideali, travagliate da problemi che di lì a un decennio esploderanno impietosamente.

Della costruzione fascista si ebbero oppositori tenaci, anche fuori delle carceri. Si sa bene quanto il fascismo, e quanto Mussolini in persona, temesse l'influsso di Croce sulla giovane intellettualità universitaria. Ma - notiamo noi - in definitiva anche Croce poté lavorare, in un cerchio di operosa diversità inutilmente di tanto in tanto turbata da spie, manovre poliziesche, incontri vari, che cercavano di compiere effrazioni nel magico ambiente, insieme napoletano e internazionale. Perché questo accadde? Come fu possibile? Anche qui, pare a noi che il disegno fascista abbia avuto una sua logica. Il fascismo accettava, in qualche misura, una convivenza dialogica (o conflittuale) con la cultura liberale nell'obiettivo di dare vita, complessivamente, a quella sua ideologia "nazionale", dai confini sfrangiati ed elastici nei quali un quoziente liberale poteva e doveva essere, a determinate condizioni, presente. Si veda la sorte strana e incomprensibile toccata ad un libro di grande importanza, la Storia del

Liberalismo Europeo di De Ruggiero, pubblicato da Laterza nel 1938 e ancora nel 1941 (per colossale svista della censura?) ristampata e messa in circolazione, nonostante l'etichetta di antifascista che l'opera si era largamente guadagnata.

Da parte loro, i ceti e le forze culturali di origine e di stampo liberale non poterono avvertire (o meglio non riuscirono ad avvertire) quale dovesse essere il limite oltre il quale lo Stato con il quale collaboravano e che contribuivano ad erigere era Stato fascista, e non la continuazione dello Stato liberalrisorgimentale. Piero Calamandrei poté lavorare in un settore essenziale senza aver dubbi circa il positivo significato "tecnico" di tale sua cooperazione; Beneduce e Rocco provenivano dalle fila del radicalismo, ma senza di loro lo Stato fascista non avrebbe realizzato opere di importanza strutturale e ancora oggi, in larghissima misura, perfettamente funzionanti: lo Stato fascista, o semplicemente lo Stato? In definitiva viene a noi una persuasione, certo difficile e ancora non del tutto collaudata. Il tentativo di accreditare il fascismo come una mera parentesi di incultura e di barbarie (lo "heri dicebamus", la "calata degli Hyksos", di Benedetto Croce) non spiega nulla e non spiega nemmeno il fasc

ismo (mentre, al limite, spiega molto bene la sua propria origine e il suo obiettivo, che è di non far parlare del fascismo, di destoricizzarlo, di rimuoverne le tracce: e per motivi, a volte, non chiari).

Importa molto, demonizzare la figura dell'intellettuale debole, voltagabbana e traditore, pronto a chinare la schiena per ottenere l'incarico universitario, o giornalistico, o magari il posto all'Accademia? Se crisi morale e intellettuale vi fu, essa fu il portato di una profonda trasformazione del concetto e del modello stesso di cultura e del suo rapporto col nuovo, e coi nuovi poteri; e tale trasformazione fu (o è, perché i termini del problema non sono mutati di troppo) a sua volta l'epifania di quella "crisi del soggetto" che resta ancora al centro della speculazione filosofica ed etica, fino ai nostri giorni (il "pensiero debole!"). Al soggetto che è al centro dell'etica classica si viene sostituendo sempre più vistosamente lo essere-funzione rispetto ad altro - sostanzialmente al nuovo potere, il Politico - che si accampa senza mediazioni, senza sfumature, al centro della fenomenologia del reale. Il dibattito asperrimo sulla responsabilità dello scienziato di fronte al nucleare trae di qui la sua orig

ine, e resta anche esso senza soluzioni. Perché di quell'essere-funzione si plasma, nelle nostre società complesse e strutturate, qualsiasi possibilità di presenza, di protagonismo, persino di "parola" che non voglia essere subalterna; rispetto all'essere-funzione i rifiuti e le evasioni si ottengono a prezzo di marginalità, di collocazioni estremiste, periferiche: che possono essere a rischio, a rifiuto "totale"; o - per così dire - calcolate e strumentali, come mostra il linguaggio del nulla radicale che è di larghissima parte della poesia e dell'arte contemporanea, sempre in bilico verso un riassorbimento (come si dice) più o meno integrale, a volte dettato da oscuro calcolo ma a volte persino da una sorta di religiosa volontà di espiazione (o da voluttà di perversione, perché no?).

Della drammatica trasformazione il fascismo fu uno degli esiti possibili nel secolo: e lo fu con tanta maggior grandezza in quanto tracce profonde di totalitarismo sono ancorate nel cuore della cultura e delle istituzioni del nostro tempo, più o meno in tutto il mondo. Né contro questa massiccia, incombente presenza si può invocare come liberatorio (come è accaduto in Italia) il ritorno alla democrazia quale mero esercizio dei diritti politici, di cui il voto è il più emblematico. L'aver dichiarato la fine del fascismo col recupero di questi diritti politici è stato in parte, per le generazioni del post-fascismo, anche un alibi, forse indispensabile per salvaguardare spazi di libertà formali di fronte ai rischi di involuzione politica, ma pur sempre un alibi che ha impedito che del fascismo e delle sue realizzazioni più profonde si facesse l'analisi necessaria e liberatrice.

E se si arrivasse, in sostanza ad enunciare la paradossale ipotesi che il fascismo fu "coltissimo"?; che fu, al limite, il prodotto di un eccesso di cultura nel tentativo, disperato ma consono con tendenze profonde del tempo, di dare corpo e autonoma vita, incarnata in istituzioni, a idee, a progetti, a utopie a loro modo drammatiche e grandiose? Si potrà denunciare l'errore di questa ambizione, ma anche si dovrà convenire che il tempo storico nel quale il fascismo sorse, si sviluppò e morì, fu un tempo estremamente, anche se tragicamente, colto. Se una riprova si vuole di questa paradossale ipotesi basti osservare quanto accade ad una cultura che corse parallela, nel tempo, con il fascismo, e fu sua antagonista, la cultura detta "progressista"; fino a ieri una dominante, e oggi caduta nella polvere del dimenticatoio e dell'irrisione.

 
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